sabato 16 aprile 2011

Il Cav contro i prof di sinistra

Silvio Berlusconi è tornato a parlare della scuola pubblica, dopo il discorso fatto alla fine di febbraio ad un congresso dei cristiano riformisti, quando attaccò gli insegnanti di sinistra sostenendo che la «libertà vuol dire avere la possibilità di educare i propri figli liberamente, e liberamente vuol dire non essere costretti a mandarli in una scuola di Stato, dove ci sono degli insegnanti che vogliono inculcare principi che sono il contrario di quelli dei genitori».
In un messaggio inviato a Padova a una riunione dell'Associazione nazionale delle mamme il 16 aprile, il premier ha attaccato di nuovo le scuole di Stato: i genitori oggi possono scegliere «quale educazione dare ai loro figli e sottrarli a quegli insegnamenti di sinistra che nella scuola pubblica inculcano ideologie e valori diversi dal quelli della famiglia».
IL CAV: VOI DONNE SIETE PIÙ BRAVE. Parlando poi dell'azione del governo, Berlusconi ha ricordato l'introduzione di leggi contro la violenza sessuale e il reato di stalking, soffermandosi poi sulle grandi capacità delle donne: «siete più brave di noi uomini, a scuola, sul lavoro, siete più puntuali , più precise e più responsabili. Anche per questo ho voluto che nel nostro governo ci fossero ministri donne e mamme che sono attivissime e bravissime. Care mamme» ha concluso il premier, «vi garantisco che il governo continuerà a lavorare con lo stesso entusiasmo e con lo stesso impegno per valorizzare il vostro ruolo nella famiglia nel mondo del lavoro e nella società».
IDV: IGNOBILE ATTACCO ALLA SCUOLA PUBBLICA. Immediata la replica delle opposizioni alle parole di Berlusconi sulla scuola pubblica, con il capogruppo dell'Idv alla Camera, Massimo Donadi che accusa il premier di minare le fondamenta della scuola pubblica: «Le parole di Berlusconi sulla scuola pubblica sono un ignobile attacco, privo di qualsiasi giustificazione reale. Il capo del governo dovrebbe difendere e valorizzare il pilastro educativo del paese, non additarlo come esempio negativo. Queste parole aiutano a comprendere la vera missione che il governo ha portato avanti in questi anni: tagliare i fondi alla scuola pubblica per aiutare quelle private. L'istruzione pubblica è un valore costituzionale da difendere e ampliare. Berlusconi chieda scusa a tutti gli insegnanti, che, pur in condizioni difficili, continuano a svolgere egregiamente il loro ruolo».

giovedì 14 aprile 2011

infiltrato nella claque di Berlusconi

Uno studente di sociologia si mescola al 'popolo del premier' di fronte al Palazzo di Giustizia di Milano. Scoprendo i meccanismi di una messinscena che non ha niente di spontaneo. Con tanto di "premi" e "incentivi" che vengono elargiti ad anziani e disoccupati per stare lì e poi spostarsi ai comizi della Moratti

Sono uno studente di 24 anni della facoltà di Sociologia all'Università Bicocca di Milano. Non sono iscritto a partiti politici e fino alla fusione di Alleanza nazionale con il Pdl votavo per Fini.

Come aspirante sociologo, all'università dovevo presentare un lavoro di ricerca con metodo etnografico (una metodologia di ricerca sociale che prevede l'osservazione partecipante e permette di comprendere le dinamiche di gruppo). Ho scelto di studiare la gente che presidiava il gazebo a favore del presidente Silvio Berlusconi, al di fuori del Palazzo di giustizia di Milano. Questo è un riassunto di quello che ho visto e sentito.

I primi approcci

Il mio studio inizia il 9 febbraio, il giorno in cui la procura di Milano inoltra al gip la richiesta di giudizio immediato per i due reati contestati nel cosiddetto "Rubygate", concussione e prostituzione minorile. E' da quel mercoledì che s'intensifica infatti la mobilitazione pro-Berlusconi attraverso il gazebo al di fuori del Palazzo di Giustizia di Milano.

Il gazebo in questione è una struttura bianca, che ogni mattina - fino almeno lunedì scorso - viene montata poco prima delle 9, dopo l'arrivo di due furgoncini che portano il necessario.

Le persone che popolano il gazebo attaccano alle 9 di mattina e alle 13, puntualissime, se ne vanno: dal lunedì al venerdì, week-end escluso.

Dai furgoncini arriva molto materiale: scatoloni pieni di volantini (diverse migliaia), striscioni, palloncini, bandiere, tutte cose che vengono distribuite in abbondanza.

In generale, attorno ai gazebo niente sembra accadere per caso. Ci sono sempre alcune persone, generalmente un po' in disparte, che ogni tanto parlano ai gruppetti e danno ordini di scuderia, del tipo: "Oggi non rilasciate interviste", come nel giorno della prima udienza del processo Mediatrade.

A parte i giorni in cui Berlusconi presenzia ai processi, il numero di persone del gazebo non supera mai la ventina, con una proporzione paritaria tra uomini e donne. L'età media è alta, gran parte over 55.

Parlando con quasi tutti ho verificato la loro istruzione (in generale medio-bassa) e la loro condizione sociale: si tratta per lo più di pensionati e disoccupati.

La maggior parte si muove in gruppetti, pochi sono i cani sciolti. Ci sono poi due signore (una sui 50 anni e una sui 25) che passano con una cartellina prendendo nomi e indirizzi di alcuni presenti (non ho capito bene a che scopo, comunque sembra un appello).

L'impressione è che ci siano due livelli di supporter: quelli più importanti, di rango, a capi dei gruppetti, e i semplici manifestanti. Curioso il caso di alcuni uomini, tra i 45 e i 60 anni, che si riuniscono sempre attorno al semaforo attiguo al gazebo. Rappresentano quasi un terzo della forza manifestante e a quanto ho compreso sono tutti colleghi di lavoro. Parlare con loro però è impossibile, perché non vogliono rispondere e temono che ci siano giornalisti pronti a registrarli.

Le risposte alle domande

Dopo il primo primo periodo di avvistamento esterno, ho iniziato ad avvicinarmi di tanto in tanto ai fan berlusconiani.

Ho iniziato anche a porre domande più politiche: "Siete iscritti a qualche partito? Perché siete qui? E' vero che vi pagano?". A queste mi hanno risposto sempre le stesse due o tre persone, che parlavano come un libro stampato: "Siamo liberi cittadini, che spontaneamente si sono mobilitati liberamente in difesa del premier". I due aggettivi - spontaneo e libero - venivano ripetuti continuamente dai pochissimi che accettavano di parlare.

Gli altri discorsi dei sostenitori erano sempre molto simili tra loro: "Berlusconi ha abbassato le tasse, i comunisti le hanno alzate. Prodi ci ha fatto entrare nell'euro (vista come una cosa negativa). Noi abbiamo vinto le elezioni e adesso devono sconfiggerci alle urne. Prima parlavano dell'amore libero, adesso fanno i bacchettoni".

Molti dicevano di essere assidui telespettatori de "L'ultima parola" di Gianluigi Paragone, e si organizzavano in gruppo anche per andare alla sua trasmissione. Poc
Nonché di essere fedeli di "Radio Londra" di Giuliano Ferrara. pochissimi conoscevano la riforma della giustizia o di cosa trattasse il processo Mediatrade per il quale erano al gazebo. Quando è arrivato l'imitatore di Bruno Vespa di "Striscia la Notizia", sapevano invece benissimo chi fosse.

La favola del processo breve

Noi italiani siamo convinti di essere molto furbi. Più furbi degli altri e orgogliosi di ciò. Non c’è barzelletta che abbia come protagonisti, per dire, un francese, un tedesco e un italiano che non ci veda prevalere alla grande. Ma forse siamo cambiati. Perché ormai ce le beviamo tutte con allegria. Da tempo, infatti, ci prendono in giro e siamo contenti. Ci ingannano e godiamo. Cadere in trappola ci inebria.

Formule come “riforma (epocale) della giustizia” e “processo breve” sono né più né meno che ipocrisie degne della peggior propaganda ingannevole. Se le parole avessero ancora un senso, e non fossero usate come conigli estratti da un cilindro, sarebbe chiaro che di riforma della giustizia si potrebbe parlare soltanto se si facesse qualcosa per accelerare la conclusione dei processi. Ma se non si fa niente in questa direzione, parlare a vanvera di riforma della giustizia equivale a sollevare spesse cortine fumogene intorno al vero obiettivo: che è quello di mettere la magistratura al guinzaglio della maggioranza politica del momento (oggi, domani e dopodomani), buttando nella spazzatura ogni prospettiva di legge uguale per tutti.

Quanto al sedicente “processo breve”, siamo al gioco di prestigio. La riforma, infatti, avrebbe come effetto non un processo breve ma un processo ammazzato a tradimento (con l’aggravante dei futili motivi). Ovviamente schierarsi contro il processo breve è da folli. Sarebbe come rifiutare una medicina efficace contro il cancro. Qui però non si tratta neanche dell’elisir di Dulcamara! Non basta urlare a squarciagola che il processo sarà breve. Occorre fare qualcosa di serio (procedure snellite; più mezzi agli uffici giudiziari) perché si possa arrivare a sentenza in tempi più rapidi. Se non si fa nulla è come proclamare ai quattro venti che la squadra di calcio del Portogruaro vincerà sicuramente la Champions, confidando nella disattenzione o dabbenaggine di chi ascolta.

Ora, come per vincere la Champions ci vuole una squadra attrezzata, così per avere un processo davvero breve ci vogliono interventi che il processo lo facciano finire prima: ma finire con una sentenza nel merito (innocente o colpevole), non con una dichiarazione di morte per non aver rispettato un termine stabilito ex novo, più o meno a capocchia. In verità la riforma ha un sapore di truffa (verbale), perché i tempi non saranno ridotti ma castrati, ed i processi non saranno abbreviati ma morti e sepolti. In parole povere: si fissa un termine che deve essere rispettato a pena di morte senza minimamente preoccuparsi del fatto che l’attuale sfascio del sistema non consentirà di rispettarlo in una infinità di processi. È come pretendere che un palombaro vestito da palombaro percorra i cento metri in pochissimi secondi, sennò muore. Assurdo, esattamente come il sedicente processo “breve”. Una mannaia che impedirà di accertare colpe e responsabilità e concluderà il processo con un’attestazione di decesso (estinzione) tanto burocratica quanto definitiva e tombale. Uno schiaffo alla fatica che le forze dell’ordine compiono per assicurare alla giustizia fior di delinquenti. Uno schiaffo al dolore e alla sofferenza delle vittime dei reati.

Uno schiaffo alla sicurezza dei cittadini. Proprio quella sicurezza su cui sono state costruite solide fortune elettorali. Sicurezza che ora diventa – di colpo – roba di scarto, rivelando con assoluta evidenza come il tema sia considerato un’opportunità da sfruttare biecamente, anche gabbando la povera gente, più che un problema da risolvere. E tutto questo perché? Per fare un favore a LUI, all’altissimo (ed ecco i futili motivi). Non sfugge a nessuno, difatti, che l’obiettivo vero non è tanto ammazzare migliaia di processi, quanto piuttosto sopprimere – nell’ammucchiata – anche quel paio di cosucce che appunto interessano a LUI. Con tripudio di un esercito di scippatori, borseggiatori, topi d’alloggio e ladri assortiti, truffatori, sfruttatori di donne, spacciatori di droga, corruttori, usurai, bancarottieri, estortori, ricattatori, appaltatori disonesti, pedofili, violenti d’ogni risma, operatori economici incuranti delle regole che vietano le frodi in commercio e tutelano la salute dei consumatori, imprenditori che spregiano la sicurezza sui posti di lavoro e via elencando...

Questo catalogo già sterminato di gentiluomini che la faranno franca, che si ritroveranno impuniti come se avessero vinto al totocalcio senza neppure giocare la schedina, si “arricchirà” all’infinito con la cosiddetta “prescrizione breve”: un’altra misura che sa di presa per il naso, l’ennesima leggina “ad personam” (meglio, la fotografia di LUI in persona) che fa a pugni col principio di buona fede legislativa. Sarebbe poco se fosse una di quelle barzellette che il premier usa raccontare in pubblico per il divertimento di chi ama l’ossequio servile. Invece si tratta di una bastonata in testa a una giustizia che già sta affogando. Una catastrofe per l’Italia, perché il feudo di Arcore possa continuare a svettare sulla palude nella quale annaspano i comuni mortali in cerca di giustizia. 

di Gian Carlo Caselli, da il Fatto quotidiano, 13 aprile 2011

La profezia del “Caimano”

Quando uscì cinque anni fa “Il Caimano” di Nanni Moretti, a destra fu tutto un “dagli all’untore”, per quel finale in cui il presidente eversore faceva esplodere di fuochi il palazzo di giustizia. Eversivo era solo immaginare che eversore potesse essere Berlusconi, questo il refrain di pasdaran e cheerleader mediatiche del corruttore di Arcore. E anche a sinistra, non nascondiamocelo, molti pensarono che Nanni esagerasse, o andasse metabolizzato come “licenza poetica”: Berlusconi andava contrastato politicamente, programma contro programma, senza scomposte accuse di “regime” o – Dio ne scampi – appelli a scendere in piazza per difendere la democrazia in pericolo.

Da alcune settimane stiamo invece vivendo esattamente il finale di quel film, alla lettera. Proclama eversivo dopo proclama eversivo. Minaccia eversiva dopo minaccia eversiva. Legge eversiva dopo legge eversiva. L’assuefazione delle coscienze al veleno di regime è tale che neppure si misura più l’enormità di un capo di governo che tratta ogni giorno i magistrati da brigatisti, e che dopo aver fatto comprare una sentenza con cui scippava un impero editoriale, accusa di rapina a mano armata l’indagine, il processo e infine la sentenza che ha restituito verità (e forse risarcimento). Basterebbe provare a raccontare detti e fatti dell’ignominia quotidiana berlusconiana, attribuendoli ad un Obama, una Merkel, un Sarkozy, per sentire immediatamente la mostruosità politica in cui viviamo oggi in Italia, visto che nulla, ma proprio nulla, di ciò che qui è normalità, sarebbe in quei paesi immaginabile, e meno che mai tollerabile.

La ripugnante volgarità di un omuncolo privo ormai anche di pannolone inibitorio, senza residuo alcuno di senso del ridicolo, avvitato nell’escalation del delirio di onnipotenza e nell’overdose della menzogna, a troppe persone fa dimenticare la tragicità – per la democrazia – di una situazione in cui il “golpe strisciante” (espressione dovuta ad un intellettuale tanto grande quanto solitamente cauto) è invece ormai sbandierato, e oggi con il processo breve conoscerà una nuova tappa di “implementazione”.

Circola insensato ottimismo sull’implosione prossima ventura del regime. E’ vero che la grottesca nullità cui è ormai ridotta l’attività “imperiale” spinge ancor più grotteschi aspiranti diadochi a moltiplicare cene di spartizione, ma intanto il paese è un deserto di macerie morali. Prepotenza ignoranza e servilismo sono le uniche virtù riconosciute, e non si profila – organizzata – l’imprescindibile alternativa di moralità ed efficienza.

mercoledì 13 aprile 2011

Per incastrare B.

Per incastrare B. non è necessario intercettarlo: basta lasciarlo parlare. Nelle dichiarazioni spontanee del 2003 al processo Sme, dov’e ra accusato di un bonifico da un suo conto svizzero a uno di Previti a uno di Squillante, tenne al tribunale una memorabile lezione su come si corrompe un giudice pagandolo cash: “Ma vi pare che, se uno versa 500 milioni destinati a un fine illecito, fa un versamento da conto a conto in modo che sia facilissimo ricostruirlo? Ma anche il piùingenuo dei m a n a ge r sa che questa dazione illecita si deve fare con un versamento in contanti. Quindi la cosa più normale era che uno si mettesse la mano in tasca e tirasse fuori dei soldi senza nessuna reg istrazione”. Si capiva che parlava per esperienza. Infatti non gli venne proprio in mente di dire: ma vi pare che un uomo onesto come me possa anche solo pensare di corrompere un giudice? L’on. avv. Pecorella, seduto al suo fianco, sudava e pregava sottovoce che finisse presto. Poi lo prese di peso e, prima che confessasse anche il resto, lo trascinò via. Ieri, in passerella al processo Mediaset, B. s’è un po’ confuso, ha parlato di un altro, il processo Ruby. Da mesi un esercito di avvocati, parlamentari, giornalisti e intellettuali da riporto ripetevano a macchinetta che lui non lo sapeva che Ruby fosse una prostituta, anzi pensava che fosse la nipote di Mubarak. I più temerari (tipo Ferrara, Sgarbi e Squacquadanio) negavano addirittura che Ruby avesse mai fatto la prostituta, anzi “sono i pm che diffamano quella povera ragazza dandole della puttana”. Poi, tomo tomo cacchio cacchio, arriva lui. E, fresco come una rosa, se ne esce con un’altra confessione delle sue: “Pagavo Ruby perché non facesse più la prostituta e aprisse un centro estetico per la depilazione”. In pochi centesimi di secondo, vanno in fumo mesi di lavoro dei suoi trombettieri. Tutto da rifare. La nuova versione, per quanto tragicomica, non è nuova negli ambienti della papponeria. I mattinali sono pieni di gentiluomini che han visto Pretty woman e, sorpresi dalla polizia in un boschetto con la patta aperta e i soldi in mano in compagnia di certe tipe in abiti succinti, si travestono da redentori: “Tutto regolare, agente, stavo appunto pagando la signorina per salvarla dal marciapiede”. In ogni caso, senz’accorgersene, B. ammette che Ruby si prostituiva e lui lo sapeva. Tant’è che la pagava perché smettesse. Resta da capire perché, oltre ai soldi cash e alla buste di Spinelli, la riempisse pure di gioielli per centinaia di migliaia di euro.

Da quando in qua si addobba una ragazza di collane, braccialetti, monili, orologi pregiatissimi perché apra un centro estetico? O forse era una gioielleria? Già che c’è, B. ripete pure che lui la credeva la nipote di Mubarak. Prostituta e contemporaneamente nipote. Meno male che Mubarak è un po’, diciamo così, impedito, altrimenti marcerebbe su Arcore per chiedergli spiegazioni: come ti permetti di insinuare che mia nipote batte i marciapiedi? Ma guardati la tua, di famiglia. Non vorremmo essere nei panni degli on. avv. Ghedini e Longo, costretti ogni giorno a ricalibrare la difesa in base agli ultimi deliri del cliente. Da ieri la loro Maginot si può riassumere come segue: B. riceve in casa sua una quindicina di volte una prostituta minorenne, che dopo eleganti bunga-bunga si ferma a dormire da lui; poi la copre d’oro per salvarla dalla prostituzione; poi la polizia la ferma per un furto e lui – avvertito da un’a l t ra prostituta che ha il suo numero di cellulare perché lui sta cercando di salvare anche lei – chiama la questura per farla affidare alla Minetti che, per salvarla meglio, la consegna a un’altra prostituta; e lui, per essere più persuasivo, non dice che la ragazza va liberata perché è una prostituta inorenne che lui sta cercando di salvare, ma che è la nipote del presidente egiziano anche se è  marocchina; e lui ne è davvero convinto, come del resto 314 deputati. Alla peggio, come al suo attentatore Tartaglia, gli danno l’infermità mentale.

martedì 12 aprile 2011

La faccia oscura del progresso

Società mondiale del rischio significa un’epoca nella quale i lati oscuri del progresso determinano sempre più i contrasti sociali. Mentre prima ciò che non stava sotto gli occhi di tutti veniva negato, ora l’autominaccia diventa il movente della politica. I pericoli nucleari, il mutamento climatico, la crisi finanziaria, l’11 settembre, seguono in pieno il copione della Società del rischio, che ho scritto 25 anni fa, prima della catastrofe di Chernobyl.

A differenza dai precedenti rischi industriali, essi (1) non sono socialmente delimitabili né nello spazio né nel tempo, (2) non sono imputabili in base alle vigenti regole della causalità, della colpa, della responsabilità e (3) non possono essere compensati, né coperti da assicurazione. Dove le assicurazioni private negano la loro protezione - come nel caso dell’energia nucleare e della tecnologia genetica - viene sempre superato il confine tra i rischi calcolabili e i pericoli incalcolabili. Questi potenziali di pericolo vengono prodotti industrialmente, esternalizzati economicamente, individualizzati giuridicamente, legittimati tecnicamente e minimizzati politicamente. In altri termini, il sistema di regole del controllo "razionale" si rapporta ai potenziali di autodistruzione incombenti come un freno da bicicletta applicato a un aereo intercontinentale.

Ma Fukushima non si distingue forse da Chernobyl per il fatto che i terribili eventi giapponesi partono da una catastrofe naturale? La distruzione non è stata provocata da una decisione umana, ma dal terremoto e dallo tsunami.

La categoria di "catastrofe naturale" segnala che essa non è stata causata dagli uomini e quindi la sua responsabilità non può essere attribuita agli uomini. Ma questo è il punto di vista di un secolo passato. Questo concetto è sbagliato già per il fatto che la natura non conosce catastrofi ma, semmai, drammatici processi di trasformazione. Questi cambiamenti, come uno tsunami o un terremoto, diventano catastrofi solo nell’orizzonte di riferimento della civiltà umana. La decisione di costruire centrali nucleari in zone a rischio sismico non è affatto un evento naturale, ma una scelta politica, che deve anche essere giustificata a livello politico di fronte alle pretese di sicurezza dei cittadini e deve essere attuata contro le opposizioni.

La risposta ai rischi moderni è l’idea dell’assicurazione come "tecnologia morale" (François Ewald). Non è più accettabile che ci si affidi alla divina provvidenza e si subiscano passivamente i colpi del destino. Il nostro rapporto con la natura, con il mondo e con Dio cambia in modo tale che diventiamo responsabili della nostra sventura, ma in linea di principio disponiamo dei mezzi per compensare le conseguenze da noi stessi innescate. Si tratta comunque del mito della "vita assicurata", che a partire dal 18° secolo ha trionfato in ogni ambito.

In effetti siamo riusciti a ottenere il consenso sui precedenti rischi dell’era industriale legandoli a una sorta di "prevenzione a posteriori" (vigili del fuoco, assicurazioni, assistenza psicologica e medica, ecc.). Lo shock che ha colpito la gente di fronte alle spaventose immagini provenienti dal Giappone consiste anche nel ridestarsi della consapevolezza che non c’è istituzione, né reale, né immaginabile, preparata al super-Gau, il "massimo incidente ipotizzabile in una centrale nucleare", e capace di garantire l’ordine sociale e le condizioni culturali e politiche anche nel caso di questo disastro dei disastri.

Invece, ci sono molti attori specializzati nell’unica opzione che appare possibile: la negazione dei pericoli. Infatti, al posto della sicurezza offerta dalla prevenzione a posteriori subentra il tabù della impossibilità di errore. Ogni Paese - in particolare, naturalmente, la Francia, e l’esperto atomico Sarkozy lo sa bene - ha le centrali nucleari più sicure del mondo! Custodi del tabù diventano la scienza e l’economia dell’energia nucleare, colte in flagrante proprio dagli eventi catastrofici che hanno attirato sui loro errori i riflettori dell’opinione pubblica mondiale.

Nel 1986 Franz-Joseph Strauß dichiarò che solo i reattori nucleari "comunisti" possono esplodere. Egli tentava così di circoscrivere eventi come Chernobyl, in base all’assunto che l’Occidente capitalistico superevoluto dispone di centrali nucleari sicure. Ora però siamo alle prese con l’avaria in Giappone, che viene considerato il Paese meglio attrezzato del mondo, quello dotato della tecnologia più sofisticata per garantire la sicurezza. La finzione per la quale in Occidente si può dormire tranquilli è svanita.

Che in Giappone le rimanenti speranze poggino proprio sull’intervento delle "forze di autodifesa" chiamate a sostituire con elicotteri antincendio gli impianti di raffreddamento in avaria, è qualcosa di più di un’ironia. Hiroshima fu terribile, l’orrore puro e semplice. Ma in quel caso fu il nemico a colpire. Cosa accade se un fatto così spaventoso avviene all’interno del sistema produttivo della società - non in un ambito militare? In questo caso, coloro che minacciano la nazione sono proprio i garanti del diritto, dell’ordine e della razionalità, della democrazia stessa. Quale politica industriale sarebbe più possibile se fosse negata anche la residua speranza del "vento" e Tokyo fosse contaminata? Quale crisi della tecnologia, della democrazia, della ragione, della società?

Molti deplorano che le impressionanti immagini provenienti dal Giappone incutano paure sbagliate e diano impulso ad una "pseudo-scienza" della compassione. In questo modo, però, essi disconoscono e sottovalutano ingenuamente la dinamica politica insita nel potenziale di autodistruzione del trionfante capitalismo industriale. Infatti, molti pericoli - un esempio da manuale: le radiazioni atomiche - sono invisibili, sfuggono alla percezione ordinaria. Ciò significa che la distruzione e la protesta son mediate simbolicamente. Solo constatando l’impercepibilità di molti pericoli grazie alle immagini televisive il cittadino culturalmente accecato può tornare a "vedere".

La questione di un soggetto rivoluzionario capace di rovesciare i rapporti di definizione della politica del rischio cade nel vuoto. Non sono - o non sono soltanto - i movimenti antinucleari, l’opinione pubblica critica, ecc. a poter dar luogo a un’inversione nella politica atomica. In ultima analisi, il contropotere rispetto all’energia nucleare non sono i manifestanti che bloccano il trasporto del materiale radioattivo. L’avversario più irriducibile dell’energia nucleare è… l’energia nucleare stessa!

Nelle immagini delle catastrofi categoricamente escluse dai manager si dissolve il mito della sicurezza. Quando ci si rende conto e si ha la prova che i custodi della razionalità e dell’ordine legalizzano e normalizzano i pericoli per la vita, si scatena il pandemonio nel milieu della sicurezza burocraticamente promessa. Perciò, non è sbagliato affermare che all’interrogativo sul soggetto politico della società di classe corrisponde l’interrogativo su questa "riflessività politica" nella società del rischio.

Tuttavia, sarebbe un errore trarre da ciò la conclusione che si sia aperta una nuova fase di illuminismo, beneficamente offertaci dalla storia. Al contrario, a qualcuno la prospettiva qui tracciata potrebbe suggerire il paragone con il tentativo di praticare un foro nello scafo di una nave per far uscire l’acqua del mare penetrata al suo interno.

di Ulrich Beck

lunedì 11 aprile 2011

Licenziate il soldatino Masi

In campagna elettorale, Berlusconi dovrà accontentarsi del 90% dell’informazione televisiva. A chiudere anche stavolta i talk show scomodi, come nelle regionali dell’anno scorso, non ce l’ha fatta. Ma non si è arreso. Anzi, la sconfitta lo ha incarognito ancora di più e dunque è meglio non illudersi. La partita per chiudere i programmi non allineati con la voce del regime non è per niente chiusa.
In Rai ci sono parecchi contratti importanti che devono ancora essere rinnovati. Passano i giorni e dai piani alti di viale Mazzini non arriva nessuna garanzia su quel rinnovo. Forse ci sarà, forse no. Vedremo.
Non ci sarebbe niente di strano in questo, se non fosse che i conduttori senza contratto sono quelli che portano all’azienda più telespettatori, e dunque più pubblicità e più soldi. Qualsiasi azienda farebbe carte false per tenerseli ben stretti. Ma alla Rai e purtroppo ormai in tutto il Paese è in vigore un’altra logica, che non guarda al merito o alla capacità e neppure al profitto ma solo ed esclusivamente all’obbedienza.
E’ in nome di questa logica che i palinsesti sono stati riempiti di programmi che nessuno vede, che costano molto e rendono pochissimo, ma che piacciono moltissimo agli obbedienti servitori che guidano la Rai perché fanno contento il presidente del Consiglio.
Ma lo ripeto, non bisogna illudersi. Non si accontenterà di averci inflitto i Ferrara, i Paragone e tra poco anche gli Sgarbi. Vuole che ci siano solo loro, al posto di Milena Gabanelli, Fabio Fazio, Giovanni Floris, Marco Travaglio…
Trovate un altro Paese e un’altra azienda pubblica che dopo un successo come quello di “Vieni via con me”, invece di premiare il dirigente che se l’è inventato e di mettere subito in cantiere il seguito, punisce quel dirigente e cerca di impedire che quel successo si ripeta. Cose così succedono solo qui, ma quando dico qui non penso purtroppo solo alla Rai. Magari. Invece è così in ogni campo: quel che va a vantaggio del Paese viene penalizzato ovunque e conta solo quel che va a vantaggio di una persona sola.
Per questo quelli che si chiedono da cosa dipende il declino dell’Italia facendo finta di non saperlo sono degli ipocriti. Lo sanno perfettamente da cosa e da chi dipende. Lo sappiamo tutti.

Premier star in Tribunale.

Silvio Berlusconi torna in Aula: dopo il processo Mediatrade è la volta di quello sui diritti tv Mediaset. Il premier, come anticipato dai suoi legali, è arrivato al palazzo di Giustizia di Milano verso le 9.52 tra gli applausi dei sostenitori assiepati all’esterno. Silvio Berlusconi è imputato con altre 10 persone, tra cui Fedele Confalonieri e il produttore americano Frank Agrama per presunte irregolarità nella compravendita dei diritti tv e cinematografici. Quella di oggi è un’udienza istruttoria, con l’esame di tre testimoni.

Una udienza che si preannuncia breve. Ma il vero spettacolo è fuori dal Tribunale dove circa 200 “supporter” del premier hanno organizzato (con in testa i vertici del Pdl) una vera e propria parata anti-pm all’urlo di “Silvio resisti” e “comunisti di m…”. Per loro è stato allestito un imponente servizio d’ordine.

Appena ha varcato la soglia dell’aula della Prima corte d’Assise d’appello, il presidente del Consiglio ha rilasciato alcune dichiarazioni ai cronisti: “Contro di me accuse completamente inventate”. E a chi gli chiede quale sarebbe il suo atteggiamento in caso di condanna, Berlusconi replica deciso: “Condanna? Nemmeno per sogno”. Poi ha parlato anche del caso Ruby dicendo: l’ho pagata perché non si prostituisse.

Silvio Berlusconi ha detto anche che non sa ancora se renderà dichiarazioni spontanee al processo Mediaset. Alle domande dei cronisti se avesse intenzioni di rendere dichiarazioni spontanee ha risposto: ”Non so, non credo. Dipenderà se ne dicono talmente grandi…”, riferendosi a quanto accadrà in dibattimento e lasciando intendere che decideranno i suoi difensori.

Così a distanza di due settimane il premier ritorna al palazzo di giustizia milanese. Lo scorso 28 marzo, dopo un’assenza di otto anni, aveva seguito l’udienza preliminare per la vicenda Mediatrade e oggi 11 Aprile, è tornato a varcare la soglia del palazzo di Giustizia milanese.

Per l’occasione l’aula della prima Corte d’Assise d’Appello, la più grande di tutto il Tribunale, già da sabato è stata allestita come mercoledì scorso per il Rubygate: sono stati risistemati i teloni bianchi per ”nascondere” le gabbie per i detenuti, è stata cambiata la disposizione dei banchi e delle panche creando un’apposita area per la stampa, e fuori, nel grande atrio al primo piano, sono riapparse le transenne.

Sono stati ‘costruiti’ percorsi obbligati per magistrati e avvocati con i loro assistiti (in questo caso, se verrà, anche per il premier), per il pubblico e i supporter del presidente del Consiglio e per i giornalisti ammessi. Infatti, ancora una volta, la Procura Generale, per motivi di sicurezza, ha vietato l’ingresso nel palazzo delle telecamere e dei fotografi. Sono consentite, invece, le registrazioni audio.

I supporter all’esterno. Il vero spettacolo è però all’esterno del Tribunale. Si aspettano, secondo il ‘Corriere della sera’, duemila persone, tutte per il permier. Con pullman provenienti da tutte le province lombarde. Ad organizzare la manifestazione davanti al palazzo di Giustizia questa volta non è stata solo Daniela Santanché ma il Pdl tutto (con il prima fila i coordinatori Dennis Verdini e Ignazio La Russa), a cui si affiancano i Promotori della Libertà del ministro Michela Vittoria Brambilla, i seniores e i ragazzi della Giovane Italia.

Una mobilitazione a tutto campo promossa soprattutto via e-mail e col passa parola. Dal coordinamento regionale lombardo guidato dal senatore Mario Mantovani sono partite decine di email a tutti i coordinamenti provinciali con l’invito a partecipare alla sfilata anti-pm. I Promotori attaccano: “Si tratta di una persecuzione giudiziaria senza precedenti… Dobbiamo impegnarci per far conoscere a tutti la verità sui processi in corso. Ecco perché abbiamo deciso di mobilitarci”.

D’altronde davanti all’entrata di via Freguglia, a Palazzo di Giustizia di Milano, in attesa dell’arrivo di Silvio Berlusconi dalle prime ore della mattina alcuni operai hanno allestito un palco, poi in seguito smontato, e hanno gonfiato dei grossi palloni di colore azzurro con la scritta ‘Silvio resisti!’. Una frase che, forse, vuole ricordare il triplice ‘resistere’ affermato dall’ex procuratore generale di Milano, Francesco Saverio Borrelli, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario del 2002.

L’arrivo del corteo di Silvio Berlusconi è stato poi accolto da urla di incitamento da parte di circa 200 sostenitori del premier che innalzano striscioni e bandiere e che sono stati sistemati al di là delle transenne a poche decine di metri dall’entrata del palazzo di Giustizia di via Freguglia a Milano. I sostenitori di Berlusconi hanno apostrofato al grido di ‘Fannulloni, fannulloni’ e ‘Andate a lavorare’ due impiegati del tribunale che si erano affacciati dalla finestra al primo piano del Palazzo di Giustizia.

”Boccassini dicci come mai i veri criminali non li processi mai”. ”Boccassini sei una guardona”. Sono due tra gli slogan scanditi dai sostenitori del premier Silvio Berlusconi. I sostenitori del premier, circa 200, intonano anche ”chi non salta comunista è”. Ed ancora ”comunisti di m..”.

Dagli altoparlanti sistemati davanti all’ingresso del Palazzo di Giustizia di Milano, intanto, escono le note di ‘Meno male che Silvio c’ è’. L’inno a Berlusconi viene intonato dai circa 200 sostenitori del premier muniti di bandiere del Popolo delle libertà e tricolori. Numerose anche le bandiere della Copagri, mentre più defilato c’è un vessillo del Sole delle Alpi. La musica ad alto volume si sente distintamente anche all’interno del Palazzo di Giustizia.

Tra i manifestanti il senatore Mario Mantovani, coordinatore lombardo del Pdl, che al microfono sta ringraziando le persone che sono giunte davanti all’ingresso del tribunale. ”Siete accorsi davvero numerosi – ha detto Mantovani – a sostenere il presidente Berlusconi. Questa mattina Berlusconi avrebbe dovuto recarsi a Palazzo Chigi. C’e’ il problema dell’ immigrazione. L’Europa che ci ha lasciato soli. Ebbene, nonostante tutti questi problemi Berlusconi e’ qui questa mattina per sottoporsi a un ennesimo processo che gli viene comminato da certa magistratura. Sono convinto che i bisogni del paese siano diversi e mai avrei pensato nella mia storia politica ad essere qui davanti a un tribunale a difendere la libertà”.

Davanti al Palazzo di Giustizia anche oppositori. Un gruppo di contestatori di Silvio Berlusconi, capitanati dal blogger Piero Ricca, famoso per aver detto al premier Silvio Berlusconi ”buffone” si è riunito davanti all’ingresso principale del Palazzo di Giustizia di Milano in coro di Porta Vittoria. I manifestanti hanno esposto uno striscione con la scritta ”Tutti i cittadini sono uguali davanti alla legga, basta leggi ad personam”. Il gruppo, costituito da alcune decine di persone, si è tenuto ben distante dai sostenitori di Silvio Berlusconi.

I testimoni. I lavori in Aula, come avevano stabilito i giudici della prima sezione penale durante la scorsa udienza, proseguiranno con l’esame dei testimoni. La prima testimone sentita è Paola Massia, ex collaboratrice dell’imprenditore cinematografico Frank Agrama, anch’egli imputato nel processo.

”Berlusconi e Agrama si conoscevano personalmente. Lo so, perché li ho visti”, ha dichiarato in aula Paola Massia. La testimone ha affermato che Agrama e Berlusconi si conoscevano personalmente rispondendo a una domanda del pm Fabio De Pasquale. Paola Massia, durante l’esame del pm, ha inoltre spiegato di aver lavorato con Agrama fino all’86 e per qualche mese dell’87, dichiarando di aver ”venduto prodotti anche a Rete Italia” e che trattava con Carlo Bernasconi, manager del gruppo, morto qualche anno fa.

La donna ha inoltre spiegato che nelle trattative Bernasconi ”chiedeva e parlava con una persona”. E quando il magistrato l’ha interpellata su chi era questa persona, la risposta e’ stata: ”Berlusconi”. Poco prima l’avvocato Roberto Pisano, legale di Agrama, le aveva chiesto se il produttore era, come sostiene l’accusa, ”il socio occulto” del premier. La donna ha risposto: ”Fino a quando sono stata li’ non mi risulta”.

Poi verranno sentiti un avvocato civilista che ha seguito, per conto del produttore Usa, i profili contrattuali legati alla compravendita dei diritti tv, specie con la Rai e una persona che ha acquistato diritti cinematografici dal produttore di Los Angeles per i cinema in Italia. La deposizione dei tre testi ha l’obiettivo di tentare di smontare l’ipotesi accusatoria e dimostrare al collegio che Agrama è stato imprenditore nel settore e che si è avvalso di uno staff di 80/100 persone.

Ciò si inquadra nella tesi difensiva secondo cui il produttore ha svolto effettivamente il lavoro di intermediario in via ”autonoma” e che, non solo sarebbe stata una prassi delle varie major usare intermediari, ma anche rivendere i diritti senza limitazione di prezzo ma secondo le regole della domanda e dell’offerta. In base alla ricostruzione dei pm Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, Agrama sarebbe stato, invece, intermediario ”fittizio” e si sarebbe limitato ad intervenire nelle operazioni di compravendita utilizzando un sistema di frode per ”gonfiare” i prezzi per poi ripartire il denaro con Berlusconi di cui sarebbe stato ”socio occulto”.

L’udienza di oggi 11 Aprile, comunque, salvo la decisione ‘fuori programma’ del premier di rendere dichiarazioni spontanee, non dovrebbe durare a lungo per via delle defezioni di altri testimoni citati. Il processo dovrebbe essere aggiornato al 18 aprile.