venerdì 22 luglio 2011

'Noi, onorevoli e nullafacenti'

Un parlamentare accompagna L'Espresso nei privilegi di Montecitorio. Ecco la prima puntata del suo racconto: dove ci spiega che si lavora pochissimo, si comprano auto scontate e per viaggiare si sceglie sempre Alitalia, che è la più cara, tanto paga lo Stato e così si accumulano punti per portare la famiglia in vacanza


Carlo Monai è l'unico, dopo sette tentativi andati a vuoto, che ha accettato di raccontare a "l'Espresso" com'è cambiata la sua vita da quando è entrato nella casta. E' un avvocato di Cividale del Friuli, ex consigliere regionale e oggi deputato dell'Idv al primo mandato parlamentare. Uno dei peones, a tutti gli effetti.

Uno coraggioso, direbbe qualcuno, visto che ha deciso di metterci la faccia e guidarci come novello Virgilio nella bolgia di indennità, vitalizi, doppi incarichi, regali, sconti e privilegi in cui sguazzano politici di ogni risma. Un paradiso per pochi, un inferno per le tasche dei contribuenti italiani, stressati da quattro anni di crisi economica e da una Finanziaria lacrime e sangue che chiederà ulteriori sacrifici. «Per tutti, ma non per noi», chiarisce Monai. «I costi della politica sono stati ridotti di pochissimo, e alcuni sprechi sono immorali. Non possiamo chiedere rinunce agli elettori se per primi non tagliamo franchigie e sperperi».

L'incontro è al bar La Caffettiera, martedì mattina, davanti a Montecitorio. Difficile ottenere un appuntamento di lunedì. «Noi siamo a Roma da martedì al giovedì sera», spiega. «Ma in questa legislatura pare che stiamo facendo peggio che mai: spesso lavoriamo due giorni a settimana, e il mercoledì già torniamo a casa. Nel 2010 e nel 2011 l'aula non è mai stata convocata di venerdì. Le sembra possibile?».

Anche in commissione l'assenteismo è da record. «Su una quarantina di membri, se ce ne sono una decina presenti è grasso che cola. Io credo che lo stipendio che prendiamo sia giusto, ma a condizione che l'impegno sia reale. Se il mio studio fosse aperto quanto la Camera, avrei davvero pochi clienti».

La busta paga di Monai è identica a quella dei suoi colleghi: l'indennità netta è di 5.486,58 euro, a cui bisogna aggiungere una diaria di 3.503,11 euro. Per ogni giorno di assenza la voce viene decurtata di 206 euro, ma solo per le sedute in cui si svolgono le votazioni. E se quel giorno hai proprio altro da fare, poco male: basta essere presenti anche a una votazione su tre, e il gettone di presenza è assicurato ugualmente. Lo stipendio è arricchito con il rimborso spese forfettario per garantire il rapporto tra l'eletto e il suo collegio (3.690 euro al mese), e gli emolumenti che coprono le uscite per trasporti, spese di viaggio e telefoni (altri 1.500 all'incirca). In tutto, oltre 14 mila euro al mese netti. Ai quali molti suoi colleghi con galloni possono aggiungere altre indennità di 
carica. 
Monai inizia il suo viaggio. «Non bisogna essere demagogici. Parliamo solo di fatti. Partiamo dagli assistenti parlamentari: molti non li hanno. Visto che le spese non vanno documentate, preferiscono intascarsi altri 3.690 euro destinati ai portaborse e fare tutto da soli. Altri colleghi per risparmiare si mettono insieme e ne pagano uno che fa il triplo lavoro». 


Ecco così svelata la sproporzione tra il numero dei deputati (630) e i contratti in corso per i segretari (230). «Non c'è più tanto nero come qualche anno fa. Anche un altro mito va sfatato: la Camera non ci regala cellulari, come molti credono, ma ogni deputato può avere altri 3.098 euro l'anno per pagare le telefonate. La Telecom ci offre poi dei contratti, chiamati "Tim Top Business Class", destinati a deputati e senatori. Per i computer? Abbiamo un plafond di altri 1.500 euro». Anche quand'era in consiglio regionale del Friuli le telefonate non erano un problema: «La Regione copriva tutto. Se non ti fai scrupoli puoi spendere quanto vuoi. Lo sa che lì c'è pure un indennizzo forfettario per l'utilizzo della propria macchina? Per chi vive fuori Trieste, 1.800 euro in più al mese. Tutti prendevano il treno regionale, e si intascavano la differenza». Portandosi a casa solo grazie a questa voce lo stipendio di un operaio specializzato.

Già. I trasporti gratis sono un must dei politici. Monai elenca i vantaggi di cui può usufruire. «Il precario che su Internet ha svelato gli sconti che ci fa la Peugeot s'è dimenticato che anche altre case offrono benefit simili: ho ricevuto offerte dalla Fiat, dalla Mercedes, dalla Renault. Dal 10 al 25 per cento in meno. Credo che lo facciano per una questione di marketing».



di Emiliano Fittipaldi - L'Espresso

domenica 3 luglio 2011

Stangata sulle pensioni: tagli in arrivo per 13 milioni di italiani?


ROMA – Altro che meno tagli per tutti: la manovra potrebbe tagliare le pensioni più modeste, quelle da 1400 euro al mese. Secondo quanto riportato da ‘Il Corriere della Sera’, il decreto per la correzione dei conti pubblici prevedrebbe infatti la mancata rivalutazione per il biennio 2012-2013 delle pensioni superiori a cinque volte il minimo, cioe’ 2.300 euro al mese (il minimo delle pensioni Inps 2011 e’ di 476 euro al mese), mentre quelle piu’ basse, comprese tra 1.428 e 2.380 euro mensili, dovrebbero essere valutate per tenere conto dell’inflazione, ma solo nella misura del 45%. Traduzione? Riduzioni pesanti per le pensioni, modeste, di 13 milioni di italiani.
A cio’ si aggiungerebbe l’allungamento dell’eta’ minima di pensione che dal 2014 salira’ di almeno tre mesi con l’anticipo dell’agganciamento automatico delle speranze di vita.
Sempre secondo ‘Il Corriere della Sera’, ad essere riviste non saranno solo le pensioni medie ma anche i parametri delle pensioni di reversibilità. “Il riordino dell’assistenza – si legge – partirà con la razionalizzazione delle prestazioni, eliminando tutte le sovrapposizioni tra i diversi strumenti previdenziali e assistenziali e quelli fiscali che, impropriamente, contribuiscono a sostenere i cittadini meno abbienti. Il secondo passaggio sarà la riorganizzazione delle competenze tra l’Inps, le Regioni e i Comuni. L’Inps sarà agente pagatore e controllore, mentre la prestazione dei servizi sarà lasciata agli enti locali. Le Regioni avranno un fondo per finanziare l’indennità di accompagnamento agli invalidi da ripartire tra di loro secondo standard ben precisi. Mentre ai Comuni, singoli o in forma associata, sarà trasferito il sistema della carta acquisti, con lo scopo di identificare i beneficiari e di integrare le risorse, con fondi propri o convogliando sulla carta acquisti le erogazioni liberali”.
La stretta sull’indicizzazione delle pensioni, secondo quanto rileva ‘Il Sole 24 Ore’, dovrebbe garantire una minor spesa cumulata, nel triennio 2012-2014, pari a 2,2 miliardi. La platea colpita dal blocco sfiorerebbe i 5 milioni di pensionati. Per quanto riguarda il posticipo di tre mesi del momento del pensionamento previsto nel 2014, dovrebbe produrre una minor spesa per 200 milioni nell’anno interessato, mentre il risparmio cumulato e’ stato stimato tra il 2014 e il 2020 in 1,9 miliardi.

sabato 25 giugno 2011

Intercettazioni, il giro di vite Mastella: niente pubblicazione fino al processo


Approvato alla Camera nella scorsa legislatura quasi all'unanimità. Si è poi arenatosi a Palazzo Madama. Ora lo ha rispolverato Silvio Berlusconi. Ecco cosa prevedeva

MILANO - Divieto di pubblicazione totale delle intercettazioni sino all'inizio del processo, creazione di un archivio riservato per custodirle istituito presso ogni Procura, ammenda fino a 100mila euro o in alternativa carcere fino a 30 giorni per i giornalisti che violano la legge. Sono le principali novità che introduceva il ddl Mastella approvato alla Camera nella scorsa legislatura quasi all'unanimità e poi arenatosi a Palazzo Madama. Rispolverato da alcuni esponenti dal Pdl e dallo stesso presidente del Consiglio Silvio Berlusconi come possibile soluzione per un giro di vite sulle intercettazioni, è tornato d'attualità con l'inchiesta sulla cosiddetta P4. Ecco che cosa prevedeva
DIVIETO DI PUBBLICAZIONE - L'articolo 1 del ddl vieta «la pubblicazione, anche parziale o per riassunto, degli atti di indagine contenuti nel fascicolo del pubblico ministero o delle investigazioni difensive, anche se non più coperti dal segreto, fino alla conclusione delle indagini preliminari ovvero fino al termine dell`udienza preliminare». Inoltre «è vietata la pubblicazione, anche parziale, per riassunto o nel contenuto, della documentazione e degli atti relativi a conversazioni, anche telefoniche, o a flussi di comunicazioni informatiche o telematiche ovvero ai dati riguardanti il traffico telefonico o telematico, anche se non più coperti dal segreto, fino alla conclusione delle indagini preliminari ovvero fino al termine dell`udienza preliminare». Se si procede al dibattimento, «non è consentita la pubblicazione, anche parziale, degli atti del fascicolo del pubblico ministero, se non dopo la pronuncia della sentenza in grado di appello. È sempre consentita la pubblicazione degli atti utilizzati per le contestazioni o dei quali sia data lettura in pubblica udienza».
SANZIONI - Chiunque rivela notizie sugli atti del procedimento coperti da segreto è punito con la reclusione da 6 mesi a 3 anni. Se a commettere il fatto è un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio la pena è aumentata rispettivamente da 1 a 5 anni e da 6 mesi a 2 anni. Per i giornalisti che pubblicano atti del procedimento o intercettazioni telefoniche coperte da segreto scatta l'ammenda da 10mila a 100mila euro o in alternativa la reclusione fino a 30 giorni.
ARCHI
VIO RISERVATO - Presso la procura della Repubblica è istituito l`archivio riservato tenuto sotto la responsabilità, direzione e sorveglianza del procuratore della Repubblica, o di un suo delegato, con modalità tali da assicurare la segretezza della documentazione in esso contenuta. Oltre agli ausiliari autorizzati dal procuratore della Repubblica, all`archivio possono accedere, nei casi stabiliti dalla legge, il giudice e i difensori. Ogni accesso è annotato in apposito registro, con l`indicazione della data, dell`ora iniziale e finale dell`accesso e degli atti contenuti nell`archivio di cui è stata presa conoscenza. il difensore può ascoltare le registrazioni esclusivamente con apparecchi a disposizione dell`archivio.


mercoledì 22 giugno 2011

Indecifrabile l' assenza di La Russa a vertice Nato e perdita del CAOC

Per sapere - premesso che:
da fonti di stampa si è appreso che nel corso del vertice di due giorni dei Ministri della difesa della Nato, il cui inizio era programmato il giorno 8 giugno a Bruxelles, il Ministro interrogato si è presentato con un ritardo di 6 ore che ha permesso al Ministro della difesa spagnolo di chiedere e ottenere l'assegnazione del comando del Combined air operation center (CAOC) dell'Europa meridionale, che quindi sarà spostato da Poggio Renatico (FE) in Spagna;
sempre da fonti di stampa si è appreso che le funzioni del CAOC sono quelle di coordinamento e controllo della catena di sorveglianza radar dello spazio aereo dei paesi della Nato dell'Europa meridionale tra cui anche quello italiano. La perdita del comando del CAOC rappresenta un irreparabile danno per la difesa dello spazio aereo italiano e, secondo gli interroganti, dimostra la scarsa considerazione di cui gode il Ministro interrogato nell'ambito dell'Organizzazione del Trattato dell'Atlantico del Nord (NATO) e dei vertici internazionali;
già in passato lo stesso Ministro, come risulta dalle medesime fonti di stampa, ha fatto mancare la sua presenza a un vertice Nato urgente indetto per discutere di come affrontare una emergenza dell'area nord africana. Nell'articolo «La Russa diserta il vertice della Nato "Mi spiace, ma c'è il voto di fiducia"» pubblicato da la Repubblica del 25 febbraio 2011 si legge, infatti, che «Ignazio La Russa fa spallucce e spiega: "Avrei dovuto essere a Budapest, dove, in maniera imprevista si recato Rasmussen, ad una riunione informale. Avevo in origine deciso di non partecipare per la concomitanza con il voto di fiducia. Solo che una riunione di scarso rilievo è diventata poi importante"» -:
quali siano stati gli impedimenti che hanno determinato il considerevole ritardo nella partecipazione del Ministro interrogato al vertice dei Ministri della difesa della Nato, il cui inizio era programmato nella mattinata del giorno 8 giugno 2011 a Bruxelles.

Il Governo cancella i precari

Anche oggi voglio esprimere la più completa solidarietà con i precari della scuola che stanno manifestando, alcuni anche con lo sciopero della fame, di fronte a Montecitorio. Una Camera dei deputati priva di ogni legittimità democraticaha votato oggi la fiducia sul decreto sviluppo: le norme lì contenute sono l’ennesima coltellata per i precari della scuola.
L’art. 9, comma 18, esclude il comparto scuola dall’applicazione della direttiva europea per la tutela dei precari. In base a quella direttiva, dopo tre anni i contratti a tempo determinato dovrebbero automaticamente essere trasformati in assunzioni a tempo indeterminato. Con un tratto di penna, il Governo ha cancellato questa tutela per 65mila precari della scuola. Questa norma basterà a vanificare ogni possibile intervento della magistratura in difesa dei diritti dei lavoratori precari della scuola. Il ministro Brunetta potrà continuare a insultarli, definendo “la parte peggiore di questo paese” proprio chi, spesso con enorme sacrificio, permette alla scuola di andare avanti e per questo andrebbe invece ringraziato.
Il nostro emendamento per abolire questa norma odiosa non è stato approvato, così come non è stato approvato quello con cui chiedevamo di riaprire le graduatorie a esaurimento per i neo-abilitati.
In questo caso un emendamento identico era stato presentato anche da un deputato del Pdl e la maggioranza aveva detto che lo avrebbe approvato. Anche se capivamo benissimo che era un contentino grazie al quale il Pdl cercava di mascherare la sua politica contro i precari, saremmo stati lo stesso soddisfatti perché almeno per ventimila lavoratori le cose sarebbero cambiate in meglio. Invece al governo e alla maggioranza anche questo è sembrato troppo, all’ultimo momento hanno cambiato idea e hanno respinto l’emendamento.
Noi continueremo la battaglia al loro fianco, perché colpire i precari della scuola vuol dire essere due volte colpevoli
: una volta per il danno che si fa a oltre 250mila lavoratori per lo più giovani, e un’altra per quello che si fa alla scuola, cioè all’istruzione e alla formazione dei nostri figli, al futuro di tutto questo Paese.


Di Pietro

domenica 19 giugno 2011

Crollo economico, catastrofi "naturali", caos imperialista, ... Il capitalismo è un sistema in fallimento che bisogna abbattere

lla crisi del sistema finanziario nel 2008, sembra che non ci sia più niente che possa mistificare la profondità della crisi storica che sta vivendo il capitalismo. Mentre piovono gli attacchi contro la classe operaia, si diffonde a macchia d’olio la miseria, si acuiscono le tensioni imperialiste, la fame continua a colpire parecchie centinaia di milioni di persone, le catastrofi naturali diventano sempre più mortali. E la stessa borghesia non può negare l'ampiezza delle difficoltà né additare un chimerico orizzonte per sperare in un avvenire migliore sotto il suo dominio. Anche nei suoi mezzi di propaganda è costretta ad ammettere che la crisi attuale è la più grave che abbia conosciuto il capitalismo da quella degli anni 1930 e che di conseguenza lo sviluppo della miseria è un male con cui bisognerà "imparare a vivere". Ma la borghesia è una classe che dispone di numerose capacità di adattamento: se ha necessità di ammettere, un poco costretta dall'evidenza della situazione, molto più per calcolo politico, che le cose vanno male e che non sono previsti miglioramenti, essa sa, nello stesso tempo, presentare i problemi in un modo sufficientemente falsificato, per non incolpare il sistema capitalista come un tutto. Le banche falliscono trascinando nella loro scia l'economia mondiale? La colpa è degli operatori di borsa! L'indebitamento di certi Stati è tale da fargli dichia-rare fallimento? La colpa è dei governi corrotti! La guerra devasta una parte del pianeta? È colpa di una mancanza di volontà politica! Le catastrofi ambientali si moltiplicano cau-sando sempre più vittime? La colpa è della natura! Se esistono divergenze nelle molteplici analisi proposte dalla borghesia, esse comunque convergono tutte su un punto essenziale con-sistente nel denunciare questa o quella forma di gestione ma non il capitalismo come modo di produzione. In realtà, l'insieme delle calamità che si abbattono sulla classe operaia è il risultato delle contraddizioni che, ogni giorno di più, stran-golano la società qualunque sia il suo governo, liberista o statalista, democratico o dittatoriale. Per mistificare meglio il fallimento del suo sistema, la borghesia pretende anche che la crisi economica iniziata nel 2008 stia leggermente rifluendo. Questa ultima non solo è lungi dall'essere finita ma, sempre più esplicitamente, esprime lo sprofondamento della crisi storica del capitalismo.

Il capitalismo sprofonda nella crisi
La borghesia si rianima quando sente le prospettive positive annunciate talvolta dagli indicatori economici, in particolare dalle cifre della crescita che timidamente sembrano ripartire verso l’alto. Ma dietro queste "buone notizie", la realtà è molto diversa. Fin dal 2008, per evitare lo scenario catastrofico della crisi degli anni 30, la borghesia ha speso miliardi per sostenere le banche in  difficoltà e ha messo in opera misure keynesiane. Queste misure consistono, in particolare, nel diminuire i tassi d'interesse delle banche centrali che determinano il prezzo del credito, e, per lo Stato, nell’impegnare risorse per il rilancio economico, spesso finanziate con l'indebitamento. Una tale politica è supposta avere per effetto benefico lo sviluppo di una forte crescita. Oggi, ciò che a colpo d’occhio colpisce, è l'estrema lentezza della crescita mondiale in rapporto alle astronomiche spese di rilancio ed all'aggressività delle politiche inflazionistiche. Gli Stati Uniti si trovano intanto in una situazione che gli economisti borghesi, mancando loro un'analisi marxista, non comprendono: lo Stato americano si è indebitato per parecchie centinaia di miliardi di dollari ed il tasso d'interesse della FED è vicino allo zero; tuttavia, la crescita dovrebbe innalzarsi solo del 1,6% nel 2010, contro il 3,7% sperati. Come dimostra il caso americano, se, dal 2008, la borghesia è riuscita ad evitare momentaneamente il peggio indebitandosi massicciamente, ciò non ha tuttavia prodotto una ripresa. Incapace di comprendere che il sistema capitalista è un modo di produzione transitorio, prigioniero di schemi  sclerotizzati, l'economista borghese non vede l'evidenza: il keynesianismo ha dimostrato il suo insuccesso storico dagli anni 1970 perché le contraddizioni del capitalismo sono oramai insolubili, ivi compreso il barare attraverso l’indebitamento con le leggi fondamentali del capitalismo.
L'economia capitalista si mantiene faticosamente da numerosi decenni gonfiando prodigiosamente il debito di tutti i paesi del mondo per creare un mercato artificiale destinato ad assorbire una parte della sovrapproduzione cronica. Ma la relazione del capitalismo all'indebitamento somiglia all'oppiomania: più si consuma, meno la dose è sufficiente. In altri termini, la borghesia ha mantenuto la testa fuori dall'acqua aggrappandosi ad un'ancora di salvezza putrefatta, la quale alla fine del 2008 si è sgretolata. È così che alla patente inefficacia dei deficit di bilancio si aggiunge il rischio di insolvenza di numerosi paesi, come la Grecia, l'Italia, l'Irlanda o la Spagna. In questo contesto, i governi di tutti i paesi sono ridotti a procedere alla giornata, modificando le loro politiche economiche dal rilancio al rigore in funzione degli avvenimenti, senza che niente possa migliorare durevolmente la situazione. Lo Stato, ultimo ricorso contro la crisi storica che strangola il capitalismo, in definitiva, non è più in grado di nascondere la sua impotenza.
Ovunque, nel mondo, continuano ad abbattersi attacchi senza precedenti contro la classe operaia che viaggiano alla stessa velocità con cui aumentano i tassi di disoccupazione. I governi, di destra come di sinistra, impongono ai proletari delle riforme e dei tagli di bilancio di una brutalità inusuale, come in Spagna dove, tra l’altro, quest’anno i dipendenti pubblici hanno visto il loro stipendio diminuito del 5% dal governo socialista di Zapatero, il quale già oggi ne promette il blocco per il 2011. In Grecia, è proprio l'età media per andare in  pensione ad aver subito un aumento di 14 anni mentre i valori delle pensioni sono congelate fino al 2012. In Irlanda, paese che la borghesia ancora recentemente vantava per il suo dinamismo, il tasso ufficiale di disoccupazione è aumentato al 14%, mentre gli stipendi dei dipendenti pubblici sono stati alleggeriti anche dal 5% al 15%, così come le indennità dei disoccupati o i sussidi familiari. Secondo l'Organizzazione Internazionale del Lavoro, il numero di disoccupati nel mondo è passato da 30 milioni nel 2007 a 210 milioni di oggi[1]. Gli esempi si potrebbero moltiplicare perché, su tutti i continenti, la borghesia fa pagare alla classe operaia il pesante prezzo della crisi. Ma dietro i piani di austerità, ipocritamente chiamati riforme, dietro i licenziamenti e le chiusure di fabbrica, intere famiglie sprofondano nella povertà. Negli Stati Uniti, secondo un rapporto del Census Bureau circa 44 milioni di persone vivono sotto la soglia di povertà, ossia un aumento di 6,3 milioni di poveri in due anni che vanno ad aggiungersi al già forte sviluppo della povertà conosciuto nei tre anni precedenti. Del resto, negli Stati Uniti il decennio è stato segnato da una forte diminuzione del valore dei bassi redditi.
Non è solo nei “paesi ricchi” che la crisi viene pagata con la miseria. Recentemente, l'organizzazione delle Nazioni Unite per l'alimentazione e l'agricoltura, meglio conosciuta sotto la sigla FAO, si rallegrava nell’osservare nel 2010 un arretramento della malnutrizione che colpisce particolarmente l'Asia con 578 milioni di persone e l'Africa con 239 milioni, per un totale di 925 milioni di persone nel mondo. Ciò che le statistiche non rivelano allo stesso tempo, è che questa cifra resta largamente superiore a quella pubblicata nel 2008, prima che gli effetti dell’inflazione speculativa dei prezzi dei prodotti alimentari si erano fatti sentire fino a provocare una serie di sommosse in numerosi paesi. La diminuzione significativa dei prezzi agricoli ha modestamente "ridotto la fame nel mondo" ma la tendenza su parecchi anni, quella cioè che resta indipendente da una congiuntura economica immediata, è innegabilmente in aumento. Del resto, le canicole estive in Russia, in Europa dell'Est e, recentemente, in America latina hanno diminuito molto sensibilmente il rendimento dei raccolti mondiali, ciò che, in un contesto di aumento dei prezzi, accrescerà inevitabilmente per il prossimo anno la malnutrizione. Non è solo a livello economico che il capitalismo si esprime: le irregolarità climatiche e la gestione borghese delle catastrofi ambientalistiche costituiscono una causa crescente di mortalità e di miseria.
Il capitalismo distrugge il pianeta
Quest’estate, violente catastrofi si sono abbattute ovunque sulle popolazioni nel mondo: le fiamme hanno arroventato la Russia, il Portogallo e numerosi altri paesi; monsoni devastatori hanno sprofondato il Pakistan, l'India, il Nepal e la Cina nel fango. In primavera, il Golfo del Messico ha conosciuto la peggiore catastrofe ecologica della storia in seguito all'esplosione di una piattaforma petrolifera. L'elenco delle catastrofi dell'anno 2010 è ancora lungo. La moltiplicazione di questi fenomeni e la loro gravità crescente non sono il frutto del caso perché dall'origine delle catastrofi fino alla loro gestione, il capitalismo ne porta una pesante responsabilità.
Recentemente, il crollo di una vasca di ritenzione di una fabbrica di produzione di alluminio ha generato una catastrofe industriale ed ecologica in Ungheria: più di un milione di metri cubi di "fango rosso" tossico si sono sparsi intorno alla fabbrica, causando parecchi morti e numerosi feriti. I danni ambientali e sanitari sono enormi. Gli industriali, per "minimizzare gli impatti" di questi rifiuti, trattano il fango rosso nel seguente modo: ne rigettano in mare migliaia di tonnellate o lo depositano in una immensa vasca di ritenzione, come quella che è crollata in Ungheria, mentre da molto tempo esistono tecnologie per riciclare tali rifiuti, in particolare nell'edilizia e nell'orticoltura.
La distruzione del pianeta da parte della borghesia non si limita tuttavia alle innumerevoli catastrofi industriali che colpiscono ogni anno numerose regioni. Secondo il parere di numerosi scienziati, il riscaldamento del pianeta ha un ruolo principale nella moltiplicazione dei fenomeni climatici estremi: "Sono avvenimenti che sono destinati a riprodursi e ad intensificarsi in un clima perturbato dall'inquinamento dei gas ad effetto serra" secondo il vicepresidente del Gruppo di esperti intergovernativi sull'evoluzione del clima (Giec). E per tale motivo dal 1997 al 2006, mentre la temperatura del pianeta non ha smesso di aumentare, il numero di catastrofi, sempre più devastatrici, è aumentato del 60% rispetto al decennio precedente, trascinando nella loro scia sempre più nuove vittime. Da ora al 2015, il numero di vittime di catastrofi meteorologiche dovrebbe aumentare più del 50%.
Gli scienziati delle compagnie petrolifere possono agitarsi come vogliono nel dichiarare che il riscaldamento planetario non è il risultato di un inquinamento massiccio dell'atmosfera, ma l'insieme delle ricerche scientifiche serie dimostra una correlazione evidente tra la liberazione dei gas ad effetto serra, il riscaldamento climatico e la moltiplicazione delle catastrofi naturali. Tuttavia, gli scienziati si sbagliano quando affermano che basterebbe un minimo di volontà politica dei governi per potere cambiare le cose. Il capitalismo è incapace di limitare il rilascio di gas ad effetto serra perché dovrebbe andare contro le sue leggi, quelle del profitto, della produzione a costi minimi e della concorrenza. È la necessaria sottomissione a queste leggi che costringe la borghesia ad inquinare con, tra altri esempi, la sua industria pesante, o che fa percorrere inutilmente alle sue merci migliaia di chilometri.
Del resto, la responsabilità del capitalismo sull'ampiezza di queste catastrofi non si limita all’inquinamento atmosferico ed all'irregolarità climatica. La distruzione metodica degli ecosistemi, attraverso, per esempio, la deforestazione massiccia, lo stoccaggio dei rifiuti nelle zone naturali di drenaggio, o l'urbanizzazione anarchica, talvolta fino nel letto dei fiumi prosciugati ed al centro di zone a forte rischio d'incendio, ha aggravato di molto l'intensità delle catastrofi.
La serie di incendi che ha colpito la Russia in piena estate, in particolare una larga regione intorno a Mosca, è significativa dell'incuria della borghesia e della sua impotenza a dominare questi fenomeni. Le fiamme hanno arroventato centinaia di migliaia di ettari causando un numero indeterminato di vittime. Per parecchi giorni, un denso fumo, le cui conseguenze sulla salute sono state catastrofiche al punto da raddoppiare il tasso quotidiano di mortalità, ha invaso la capitale. E per non essere da meno, enormi rischi nucleari e chimici minacciano ancora le popolazioni al di là delle frontiere russe a causa, soprattutto, degli incendi su delle terre contaminate dall'esplosione della centrale di Chernobyl e dei magazzini di armi e di prodotti chimici più o meno dimenticati nella natura.
Un elemento essenziale per comprendere le responsabilità della borghesia relativamente alla violenza degli incendi è lo stupefacente stato di abbandono delle foreste. La Russia è un paese immenso dotato di un parco forestale molto importante e denso, che necessita di una cura particolare per circoscrivere velocemente gli inizi di incendi allo scopo di evitare la loro estensione non più controllabile. Ora, numerosi ed estesi boschi russi non sono dotati neanche di vie d'accesso, tanto che i camion dei vigili del fuoco sono incapaci di raggiungere il cuore della maggior parte degli incendi. Del resto, la Russia conta solo 22.000 vigili del fuoco, ossia meno di un piccolo paese come la Francia, per lottare contro le fiamme, ed i governatori regionali, notevolmente corrotti, preferiscono adoperare i magri mezzi di cui dispongono per la gestione delle foreste per acquistare automobili di lusso, come  hanno rivelato i numerosi scandali.
Lo stesso cinismo vale per i famosi fuochi di torbiera, zone il cui suolo è costituito da materia organica in decomposizione particolarmente infiammabile: oltre a lasciare le torbiere in abbandono, la borghesia russa ha favorito la costruzione di abitazioni su queste zone dove degli incendi già avevano imperversato con forza nel 1972. Il calcolo è molto semplice: su questi pericolosi settori, i promotori immobiliari hanno potuto acquistare dei campi, dichiarati edificabili dalla legge, ad un prezzo irrisorio.
È in tal modo che il capitalismo trasforma dei fenomeni naturali umanamente dominabili in vere catastrofi. Ma, in materia di orrore,  la borghesia  non si ferma davanti  a niente. È così che intorno alle devastanti inondazioni che hanno colpito il Pakistan, si è giocata una delle più immonde lotte imperialiste.
Per parecchie settimane, piogge torrenziali si sono abbattute sul Pakistan, causando enormi inondazioni, smottamenti di terreni, migliaia di vittime, più di 20 milioni di sinistrati e danni materiali considerevoli. La carestia e la propagazione di malattie, come il colera, hanno peggiorato una situazione già disperata. Per più di un mese, nel mezzo di questo orribile quadro, la borghesia pakistana ed il suo esercito hanno mostrato solo un'incompetenza ed un cinismo allucinante, accusando l'implacabilità della natura, mentre, come in Russia, tra urbanizzazione anarchica e servizi di soccorsi impotenti, le leggi del capitalismo appaiono come l'elemento essenziale per comprendere l'ampiezza della catastrofe.
Ma un aspetto particolarmente nauseante di questa tragedia è il modo con cui le potenze imperialiste hanno ancora una volta tentato di trarre profitto dalla situazione, a scapito delle vittime, utilizzando le operazioni umanitarie come alibi. Infatti, gli Stati Uniti sostengono, nella cornice della guerra con il confinante Afghanistan, il governo molto contestato di Youssouf  Raza Gilani, e hanno approfittato con una certa urgenza degli avvenimenti per dispiegare un importante contingente "umanitario" costituito da portaelicotteri, da navi di assalto anfibie, ecc. Col pretesto di impedire un sollevamento dei terroristi di Al-Qaida, favorito dalle inondazioni, gli Stati Uniti frenano, per quanto è possibile, l’arrivo dell' “aiuto internazionale” proveniente da altri paesi, "aiuto umanitario" anche questo costituito da militari, diplomatici ed investitori senza scrupoli.
Come per ogni catastrofe di grande portata, tutti i mezzi sono messi in opera da tutti gli Stati per fare valere i loro interessi imperialisti. Tra questi, la promessa di doni è diventata un'operazione sistematica: tutti i governi annunciano ufficialmente una sostanziosa manna finanziaria che è accordata ufficiosamente solamente se si soddisfano le ambizioni dei donatori. Per esempio, attualmente, solo il 10% dell'aiuto internazionale promesso nel gennaio 2010 dopo il terremoto ad Haiti è stato versato effettivamente alla borghesia haitiana. Ed il Pakistan non farà certamente eccezione alla regola; i milioni promessi saranno versati solamente a titolo di commissione di Stato contro servizi resi. 
I fondamenti del capitalismo, la ricerca del profitto, la concorrenza, ecc., sono dunque, a tutti i livelli, al centro della problematica ambientalista. Ma le lotte intorno al Pakistan illustrano anche le tensioni imperialiste crescenti che devastano una parte del pianeta.
Il capitalismo semina il caos e la guerra
L'elezione di Barack Obama alla testa della prima potenza mondiale ha suscitato molte illusioni sulla possibilità di pacificare i rapporti internazionali. In realtà, la nuova amministrazione americana ha solamente confermato la dinamica imperialista iniziata col crollo del blocco dell'Est. L'insieme delle nostre analisi secondo cui "la disciplina rigida dei blocchi imperialisti" doveva, in seguito al crollo del blocco dell'Est, cedere il posto all'indisciplina, ad un caos strisciante ed ad una lotta generalizzata di tutti contro tutti con una moltiplicazione incontrollabile dei conflitti militari locali, è stato pienamente verificato. Il periodo aperto dalla crisi e l'aggravamento considerevole della situazione economica non hanno fatto che acuire le tensioni imperialistiche tra le nazioni. Secondo L'Istituto Internazionale Peace Research di Stoccolma non meno di 1531 miliardi di dollari sarebbero stati spesi nei bilanci militari di tutti i paesi nel 2009, ossia un aumento del 5,9% rispetto al 2008 e del 49% rispetto al 2000. Ed ancora, queste cifre non tengono conto del traffico illegale delle armi. Anche se la borghesia di certi Stati si trova costretta, obbligata dalla crisi, a ridurre le sue spese militari, fondamentalmente la militarizzazione crescente del pianeta è il riflesso del solo futuro che viene riservato all'umanità: la moltiplicazione dei conflitti imperialisti.
Gli Stati Uniti, con i loro 661 miliardi di spese militari nel 2009, beneficiano di una superiorità militare assolutamente incontestabile. Tuttavia, dal crollo del blocco dell'Est, il paese è sempre meno in grado di mobilitare altre nazioni dietro di sè, come lo ha dimostrato la guerra dell'Iraq iniziata nel 2003 dove, a dispetto del ritiro annunciato recentemente, le truppe americane contano ancora parecchie decine di migliaia di soldati. Non solo gli Stati Uniti non sono stati in grado di raggruppare altre potenze sotto la loro bandiera, in particolare la Russia, la Francia, la Germania e la Cina ma, in più, altre si sono disimpegnate poco a poco dal conflitto, come la Gran Bretagna e la Spagna. Soprattutto, la borghesia americana sembra sempre meno capace di assicurare la stabilità di un paese conquistato (il pantano afgano ed iracheno sono sintomatici di questa impotenza) o di una regione, come lo dimostra il modo con cui l'Iran sfida gli Stati Uniti senza timore di rappresaglia. L'imperialismo americano è nettamente declinante e cerca di riconquistare la sua leadership persa da parecchi anni attraverso le guerre che, alla fine, l'indeboliscono considerevolmente.
Di fronte agli Stati Uniti, la Cina tenta di fare prevalere le sue ambizioni imperialiste attraverso lo sforzo di armamento (100 miliardi di dollari di spese militari nel 2009, con aumenti annui a due cifre dagli anni 90) e sul campo. In Sudan, per esempio, come in molti altri paesi, la Cina si stabilisce economicamente e militarmente. Il regime sudanese e le sue milizie, armate dalla Cina, massacrano le popolazioni accusate di sostenere i ribelli del Darfour, armati a loro volta dalla Francia, tramite il Ciad, e dagli Stati Uniti, vecchio avversario della Francia nella regione. Tutte queste manovre nauseanti hanno determinato la morte di centinaia di migliaia di persone e l'esodo di parecchi milioni d'altre.
Tuttavia, non sono solo Gli Stati Uniti e la Cina a portare la responsabilità del caos guerriero sul pianeta. In Africa, per esempio, la Francia, direttamente o attraverso milizie interposte, tenta di salvare ciò che le è possibile della sua influenza, principalmente in Ciad, in Costa d'Avorio, in Congo ecc. Le cricche palestinesi ed israeliane, sostenute dai rispettivi padrini perseguono una guerra interminabile. La decisione israeliana di non prolungare la moratoria sulle costruzioni nei territori occupati, mentre sono in atto "negoziati di pace" organizzati dagli Stati Uniti, mostra del resto il vicolo cieco della politica di Obama che voleva distinguersi da quella di Bush attraverso una maggiore diplomazia. La Russia, con la guerra in Georgia e l'occupazione della Cecenia tenta di ricreare una sfera di influenza attorno a sé. La litania dei conflitti imperialisti è troppo lunga per poterla esporre qui in modo esauriente. Tuttavia, ciò che la moltiplicazione dei conflitti rivela, è che tutte le frazioni nazionali della borghesia, potenti o non, non hanno altra alternativa da proporre se non spargimenti di sangue in difesa dei loro interessi imperialisti.
La classe operaia riprende la strada della lotta
Di fronte alla profondità della crisi nella quale affonda il capitalismo, palesemente la combattività operaia non è all’altezza degli attacchi, le sconfitte del proletariato esercitano ancora una pesante pressione sulla coscienza della nostra classe. Ma le armi della rivoluzione si fabbricano nel cuore delle lotte che la crisi comincia a sviluppare significativamente. Da parecchi anni numerose lotte aperte sono esplose, talvolta simultaneamente a livello internazionale. La combattività operaia si esprime simultaneamente sia a livello dei paesi "ricchi" - in Germania, in Spagna, negli Stati Uniti, in Grecia, in Irlanda, in Francia, in Giappone, ecc. - che nei paesi "poveri". La borghesia dei paesi ricchi diffonde l'immonda e menzognera idea che i lavoratori dei paesi poveri si appropriano dei posti di lavoro dei paesi ricchi, ma mette molta cura ad imporre quasi un blackout sulle lotte di questi operai perché li farebbe apparire vittime degli stessi attacchi che il capitalismo in crisi impone in tutti i paesi.
In Cina, in un paese dove la parte dei salari nel PIL è passata dal 56% nel 1983 al 36% nel 2005, gli operai di parecchie fabbriche hanno cercato di liberarsi dei sindacati, malgrado con forti illusioni sulla possibilità di un sindacato libero. Soprattutto, gli operai cinesi sono riusciti a coordinare da soli la loro azione e ad al-largare la loro lotta al di là della fabbrica. A Panama, il 1 luglio, è esploso uno sciopero nelle piantagioni di banane della provincia di Bocas di Toro per richiedere il pagamento degli stipendi ed opporsi ad un riforma antisciopero. Là anche, malgrado un viva repressione poliziesca ed i molteplici sabotaggi sindacali, i lavoratori hanno cercato immediatamente, e con successo, di estendere il loro movimento. La stessa solidarietà e la stessa volontà di battersi hanno animato collettivamente un movimento di sciopero selvaggio in Bangladesh, violentemente represso dalla polizia.
Nei paesi centrali, la reazione operaia è proseguita attraverso nu-merose lotte in Grecia e in particolare in Spagna dove gli scioperi si moltiplicano contro le misure draconiane di austerità. Lo sciopero organizzato dai lavoratori della metropolitana di Madrid è significativo della volontà degli operai di estendere la loro lotta e di organizzarsi collettivamente attraverso le assemblee generali. È perciò che esso è stato il bersaglio di una campagna denigratoria orchestrata dal governo socialista di Zapatero e dai suoi media. In Francia, se i sindacati riescono ad inquadrare gli scioperi e le manifestazioni, la riforma che mira ad innalzare l'età pensionabile provoca la mobilitazione di un larga frangia della classe operaia e dà luogo ad espressioni che, per quanto minoritarie, sono anche molto significative di una volontà di organizzarsi fuori dai sindacati attraverso le assemblee generali sovrane e di estendere le lotte.
Evidentemente, la coscienza del proletariato mondiale è ancora insufficiente e queste lotte, sebbene simultanee, non sono immediatamente in grado di creare le condizioni di un’unica lotta a livello internazionale. Tuttavia, la crisi nella quale affonda il capitalismo, le cure di austerità e la miseria crescente vanno a produrre inevitabilmente ed in maniera crescente  una moltiplicazione di lotte massicce attraverso cui gli operai svilupperanno poco a poco la loro identità di classe, la loro unità, la loro solidarietà, la loro volontà di battersi collettivamente. Questo campo è il concime di una politicizzazione cosciente del combattimento operaio per la sua emancipazione. La strada verso la rivoluzione è ancora lunga ma, come scrivevano Marx ed Engels nel Manifesto comunista: "La borghesia non ha forgiato solamente le armi che la metteranno a morte; ha prodotto anche gli uomini che maneggeranno queste armi, gli operai moderni, i proletari".

La rivoluzione proletaria è necessaria e realizzabile


Spesso sentiamo frequentemente "E’ vero che tutto va male, che vi sono sempre più miseria e guerra, che le nostre condizioni di vita degradano, che l'avvenire del pianeta è minacciato. Bisogna fare qualche cosa, ma che cosa? Una rivoluzione? Ma questa è un’utopia, è impossibile"!
Sta qua la grande differenza tra maggio 1968 ed oggi. Nel 1968, in un momento in cui la crisi aveva appena cominciato nuovamente a fare sentire i suoi colpi, l'idea di rivoluzione era dovunque presente. Oggi, la constatazione del fallimento del capitalismo è diventata generale ma esiste invece un grande scetticismo in quanto alla possibilità di cambiare il mondo. I termini di comunismo, di lotta di classe, risuonano come un sogno di un altro tempo. Anche parlare di classe operaia e di borghesia parrebbe anacronistico.
Ora, la storia, nei fatti, già ha dato una risposta a questi dubbi. 90 anni fa, il proletariato ha portato la prova, attraverso le sue azioni, che il mondo poteva essere cambiato. La rivoluzione d’ottobre 1917 in Russia, la più grandiosa azione delle masse sfruttate fino ad ora, ha mostrato concretamente che la rivoluzione non è solamente necessaria ma che è anche possibile! Secondo la  classe dominante  la rivoluzione sarebbe stata solamente un "golpe" dei bolscevichi. Le rivoluzioni operaie come un atto di pazzia collettiva, un caos spaventoso che finisce orribilmente . L'ideologia borghese non può ammettere che gli sfruttati possano agire per proprio conto. L'azione collettiva, solidale e cosciente della maggioranza lavoratrice, è una nozione che il pensiero borghese considera come un'utopia contro natura.
L'autentica libertà d’espressione è quella che conquistano le masse operaie nella loro azione rivoluzionaria:Tuttavia, non se ne dispiacciano i nostri sfruttatori, la realtà è proprio che nel 1917 la classe operaia ha saputo sollevarsi collettivamente e consapevolmente contro questo sistema disumano. Ha dimostrato che gli operai non erano delle bestie da soma, buone solo ad ubbidire ed a lavorare. Al contrario, questi avvenimenti rivoluzionari hanno rivelato le capacità grandiose e spesso anche insospettate del proletariato liberando un torrente di energia creatrice ed una prodigiosa dinamica di sconvolgimento collettivo delle coscienze.


Questa capacità della classe operaia a ritornare collettivamente e consapevolmente in lotta non è un miracolo improvviso, è il frutto di numerose lotte e di una lunga riflessione sotterranea. 
E’ così che ottobre ‘17 fu il punto culminante di un lungo processo di presa di coscienza delle masse operaie finendo, alla vigilia dell'insurrezione, in un’atmosfera profondamente fraterna nelle file operaie. 
La rivoluzione del 1917 corrisponde all'essere proprio del proletariato, classe allo tempo stesso sfruttata e rivoluzionaria che può liberarsi solo a condizione d’agire in modo collettivo e cosciente. La lotta rivoluzionaria del proletariato costituisce l'unica speranza di liberazione per tutte le masse sfruttate. La politica borghese è sempre a profitto di una minoranza della società. All'inverso, la politica del proletariato non insegue un beneficio particolare ma quello di tutta l'umanità. "La classe sfruttata ed oppressa, il proletariato, non può liberarsi della classe che la sfrutta e l'opprime, la borghesia, senza liberare allo stesso tempo e per sempre, la società intera dallo sfruttamento, dall'oppressione e dalle stesse lotte di classe."


La rivoluzione internazionale non è il passato ma l'avvenire della lotta di classe

Chiaro che la Rivoluzione russa era solamente il primo atto della rivoluzione internazionale. L’insurrezione di ottobre 1917 costituiva di fatto l’avamposto di un’ondata rivoluzionaria mondiale, il proletariato che si lanciava verso combattimenti titanici che realmente hanno rischiato di determinare la fine del capitalismo. Nel 1917, il proletariato rovescia il potere borghese in Russia. Tra il 1918 e 1923, effettua molteplici assalti nel principale paese europeo, la Germania. Velocemente, quest’ondata rivoluzionaria si ripercuote in tutte le parti del mondo. Dovunque esista una classe operaia evoluta, i proletari si sollevano e si battono contro i loro sfruttatori: dall’Italia al Canada, dall’Ungheria alla Cina.Quest’unità e questo slancio della classe operaia a scala internazionale non sono apparsi per caso. Questo sentimento comune di appartenere ovunque alla stessa classe ed alla stessa lotta corrisponde all’essere proprio del proletariato. Qualunque sia il paese, la classe operaia è sotto lo stesso giogo dello sfruttamento, ha di fronte la stessa classe dominante e lo stesso sistema di sfruttamento. Questa classe sfruttata forma una rete che attraversa i continenti, ogni vittoria o sconfitta di una delle sue parti condiziona inesorabilmente l’insieme. E’ per tale motivo che, fin dalle sue origini, la teoria comunista ha posto alla testa dei suoi principi l’internazionalismo proletario, la solidarietà di tutti gli operai del mondo. “Proletari di tutti i paesi, unitevi”, tale era la parola d’ordine del Manifesto comunista redatto da Marx ed Engels. Questo stesso manifesto affermava chiaramente che “i proletari non hanno patria”. La rivoluzione del proletariato, la sola che può mettere fine allo sfruttamento capitalista ed ad ogni forma di sfruttamento dell’uomo sull’uomo, non può avere luogo che a scala internazionale. E’ proprio questa realtà che era espressa con forza fin dal 1847: “La rivoluzione comunista (...) non sarà una rivoluzione puramente nazionale; si produrrà in tutti i paesi civilizzati allo stesso tempo (…) Eserciterà anche su tutti gli altri paesi del globo una ripercussione considerevole e trasformerà completamente ed accelererà il corso del loro sviluppo. È una rivoluzione universale; avrà, di conseguenza, un campo universale.” 
 La dimensione internazionale dell’ondata rivoluzionaria degli anni 1910-1920 provò che l’internazionalismo proletario non è un bel e grande principio astratto, ma che è al contrario una realtà reale e tangibile. Di fronte al nazionalismo sanguinario e viscerale delle borghesie che si sprofondano nella barbarie della Prima Guerra mondiale, la classe operaia ha opposto la sua lotta e la sua solidarietà internazionale. “Non c’è socialismo all’infuori della solidarietà internazionale del proletariato”, tale era il messaggio forte e chiaro dei volantini che circolavano nelle fabbriche in Germania . La vittoria dell’insurrezione di ottobre 1917 poi la minaccia di estensione della rivoluzione in Germania ha costretto le borghesie a mettere un termine alla prima carneficina mondiale, a questo ignobile bagno di sangue. In effetti, la classe dominante ha dovuto fare tacere i suoi antagonismi imperialisti che la laceravano da quattro anni per opporre un fronte unito ed arginare l’ondata rivoluzionaria.
L’ondata rivoluzionaria dell’ultimo secolo è stata il punto più alto raggiunto a tutt’oggi dall’umanità. Al nazionalismo ed alla guerra, allo sfruttamento ed alla miseria del mondo capitalista, il proletariato ha saputo aprire un’altra prospettiva, la sua prospettiva: l’internazionalismo e la solidarietà di tutte le masse oppresse. L’ondata di ottobre ‘17 ha provato così la forza della classe operaia. Per la prima volta, una classe sfruttata ha avuto il coraggio e la capacità di strappare il potere dalle mani degli sfruttatori e di inaugurare la rivoluzione proletaria mondiale! Anche se la rivoluzione doveva essere sconfitta ben presto, a Berlino, a Budapest ed a Torino e benché il proletariato russo e mondiale abbia dovuto pagare questa sconfitta ad un prezzo terribile (gli orrori della controrivoluzione stalinista, una seconda guerra mondiale e tutta la barbarie che da allora non è mai più cessata), la borghesia non sempre è stata capace di cancellare completamente dalla memoria operaia questo avvenimento esaltante e le sue lezioni. L’ampiezza delle falsificazioni della borghesia su Ottobre ‘17 è a misura degli spaventi che essa ha provato. La memoria di ottobre è là per ricordare al proletariato che il destino dell’umanità è rimesso tra le sue mani e che è capace di compiere questo compito grandioso. La rivoluzione internazionale rappresenta più che mai l’avvenire!

da 
Corrente Comunista Internazionale 
Ven, 07/12/2007
Pascale
Da Révolution Internatinale, n.383

Vendola e Bersani «fanno pace» dopo la lite per l'apertura alla Lega Nord


Il segretario del Pd: «Non capisce che sfidiamo
il Carroccio? Lasceranno l'Italia con il cappio al collo»

 È finito con la «pace» lo scontro durato tutta la giornata tra Vendola e Bersani su una possibile apertura alla Lega per affrontare il governo dopo Berlusconi. In un primo momento il governatore della Puglia aveva accusato il segretario del Pd di non guardare abbastanza a sinistra rifiutando ogni apertura a Bossi e Tremonti: «Sono due protagonisti del berlusconismo». Ma Bersani ha respinto al mittente le accuse: «Ma non capisce che la nostra è una sfida alla Lega?». Infine è lo stesso Vendola a riavvicinarsi al leader del Pd, spiegando di essere contento per il chiarimento di Bersani: «Se il tema è quello della sfida allora siamo d'accordo».
LA CHIUSURA A BOSSI - Alla vigilia del raduno leghista di Pontida e del voto mercoledì in Parlamento sulla fiducia al governo Nichi Vendola ha infatti detto no a Bossi e Tremonti, chiudendo la strada a ipotesi di accordo del centrosinistra con la Lega e il ministro dell'Economia per un possibile dopo-Berlsuconi. «Bossi e Tremonti sono due protagonisti fondamentali della scena del centrodestra», ha detto il governatore della Puglia aprendo a Roma l'assemblea nazionale di Sinistra Ecologia Libertà (Sel). «Critichiamo Bossi e Berlusconi e salviamo Tremonti perché ci sembra la versione accettabile della destra?», si è chiesto Vendola. «Io penso che il berlusconismo abbia in Tremonti un interprete fondamentale e critico il tremontismo che propone il totem del contenimento del debito pubblico in linea con una certa Europa che ha smesso di interrogarsi sulle ragioni della crisi».
NON GUARDARE AL CENTRO - Vendola poi si è rivolto al Partito democratico: «È un errore pensare, come ha fatto il centrosinistra in tutti questi anni, che si vince solo guardando al centro. Si vince quando la politica viene percepita come strumento di cambiamento della vita. Il moderatismo è una formula astratta che significa niente. La sinistra deve smetterla di seguire la destra sul suo terreno. Dobbiamo rimettere in campo una sinistra moderna, rifondare il centrosinistra. Il Paese è devastato da 15 anni di berlusconismo e quell'idea di società sta perdendo», ha detto Vendola, il quale ha invitato il Pd e Italia dei valori «a uscire fuori dal "palazzo"».
LA SFIDA - Bersani però ha rimandato indietro le accuse del «collega» di aver aperto alla Lega. «C'è chi dice dialogo, apertura, alla Lega? Veramente non capisce», ha detto il segretario del Pd alla Conferenza nazionale sul lavoro a Genova. «Questa è la sfida alla Lega, noi siamo alternativi alla Lega», ha incalzato Bersani. «È la nostra sfida - ha insistito - li abbiamo fatti noi i manifesti con la spada di Alberto da Giussano giù o glieli ha fatti Sel?». Bersani ha poi criticato la Lega: «Dove sono finiti i grandi obiettivi della Lega? Dove le ricette? Il protezionismo? Il federalismo fiscale? L'aggressività contro l'immigrazione? Non c'è stato risultato. La Lega tiri le somme e non faccia più ultimatum, che sono solo penultimatum. Io faccio un pronostico: questo governo lascerà l'Italia con il cappio al collo».
LA CORREZIONE - In serata è intervenuto ancora Vendola a conclusione del suo intervento all'assemblea nazionale di Sinistra Ecologia e libertà: «Sono contento per questo chiarimento, per questa correzione che Pier Luigi Bersani ha fatto nei confronti della Lega». «Eravamo in tanti - ha aggiunto il presidente della Puglia ai giornalisti - a non aver capito il senso delle proposte di Bersani alla Lega Nord. Ora sono felice che abbia chiarito. Se il tema è quello della sfida, allora siamo d'accordo. Naturalmente per noi si tratta di una sfida politica e culturale contro la Lega Nord e contro il centrodestra, contro quella cultura politica e quel blocco sociale che ha così pesantemente danneggiato il nostro Paese».

sabato 18 giugno 2011

In migliaia per lo show di Santoro


C'è un prato gremito di gente. Ci sono migliaia di persone. Ci sono lavoratori, precari e studenti: tutti ugualmente "incazzati". Ci sono Serena Dandini, Michele Santoro e Vauro. Ci sono le bandiere della Fiom. E anche Roberto Benigni che grida "l'Italia s'è desta". E la musica. E c'è il lavoro e la sua dignità. Eccola la serata evento "Tutti in piedi, entra il lavoro". Dopo il successo di 'Raiperunanotte' il conduttore di Annozero torna a farsi sentire. Al fianco della Fiom che celebra i suoi 110 anni a Villa Angeletti, a Bologna. Tanta gente con lui: comici, giornalisti, musicisti, attori ma anche gente comune come le operaie della Omsa di Faenza, ricercatori e precari. "Michele, ti devo riportare in Rai, ho anche un euro che ho prestato a Garimberti" attacca la Dandini esibendo una maglietta con scritto 'Rai Pride' e ironizzando sul "covo di comunisti" che la circonda.

Si comincia con Vauro e con un video in forma di fiction sull'intervista ad una delle ragazze delle feste ad Arcore, proiettata sui maxischermi. Poi si passa al lavoro. E al precariato. Si parte dall'ormai nota performance del ministro Renato Brunetta contro i precari ("questa è la peggiore Italia 1"). Sul palco sale Maurizia Russo Spena, la stessa alla quale il ministro ha girato le spalle: "Caro ministro, io sono una precaria e rappresento il fallimento


del suo modello di svilluppo. Adesso se la vedrà con la piazza" (IL VIDEO) 2.
Quella stessa piazza che si infiamma sentendo un giovane ricercatore costretto ad andare all'estero per trovare un lavoro. Che applaude un lavoratore della Fincantieri. Che si spella le mani per gli studenti che reclamano un futuro. Che ascolta il segretario della Fiom Maurizio Landini che   manda un messaggio al Lingotto e al governo: "Se la Fiat riuscirà a far approvare una legge ad aziendam per mettersi al riparo dalle cause contro gli accordi di Pomigliano e Mirafiori, noi raccoglieremo le firme per un nuovo referendum e le respingeremo". Sui megaschermi scorrono le immagini di We want sex, il film sulla lotta, vittoriosa, delle operaie inglesi della Ford per la parità salariale, quelle di Crozza che imita Marchionne (che da queste parti non riscuote molti consensi...). Daniele Silvestri canta Gaber. Elisa Anzaldo, che ha abbandonato la conduzione del Tg1 perché stufa di nascondere le notizie su Berlusconi, racconta come scatta la censura dalle parti di Minzolini (imitato a seguire da Max Paiella).

Sul palco si mischiano spettacolo e politica. Si passa dal "mafioso" Corrado Guzzanti alle parole al pm Antonio Ingroia. Da Marco Travaglio alla musica dei Subsonica. Santoro si fa vedere alle 22.50. E lo fa per annunciare Roberto Benigni. "L'Italia s'è desta - grida l'attore correndo sul palco accompagnato dal boato della gente. Cita Rimbaud e Primo Levi, Benigni, e rende omaggio alla piazza e ai lavoratori: "Voi siete l'Italia migliore. Il lavoro è prezioso, il diritto al lavoro è una cosa sacra e ogni legge che attenti al lavoro è un sacrilegio". Poi, rivolto a Santoro ironizza: "La Fiom a villa Angeletti? Dove dorme il segretario della Uil? Michele stai facendo un uso criminoso della Fiom". Infine una sferzata alla Rai con il paragone tra i calciatori coinvolti nell'inchiesta sul calcioscommesse al direttore generale della Rai: "Entrambi stanno danneggiando volontariamente la propria squadra per farla perdere..".

E poi, a chiudere torna Santoro in tuta da operaio che si vrivolge a Berlusconi "presidente operaio". "Lei sta facendo di tutto per farmi diventare un disoccupato, ma non ci riuscirà". L'inzio di un discorso in cui racconta il cambiamento della condizione operaia negli ultimi vent'anni parlando come un operaio. "I nostri salari sono rimasti fermi ma il Paese non cresce, allora non era colpa del mio salario, ai miei figli ho dovuto dire non ho i soldi per l'università, e ci avete portato via la cultura, ci avete portato via il quartiere, le case popolari, gli asili. Una volta andavamo al mare ora le spiagge sono di pochi, ci avete portato via la fabbrica perché è arrivata la finanza". Poi passa alla televisione. "Perché non abbiamo spaccato tutto? Perché mio figlio sta davanti alla tv un po' annoiato? Perchè in tv il lavoro, i lavoratori non ci sono. In televisione ci avete fatto mangiare cibi troppo semplici". "C'è stato un consigliere Rai che ha presentato un ordine del giorno molto semplice: ha detto 'Santoro vuole fare la sua trasmissione per un euro, perché non accettiamo?' Allora presidente Berlusconi, io voto perché Santoro resti in Rai, alzo la mano perché resti in Rai. Allora Bersani, che mi stai simpatico, contale anche tu queste 30 mila mani che si alzano perché Santoro resti in Rai". Ed allora, la conclusione del Santoro-operaio: "Ci dobbiamo riprendere tutto quello che ci avete tolto: l'aria, il mare, la scuola, il nostro futuro".


Repubblica.it

Il Parlamento risalva le Province. Il Comma 22 di Calderoli

-Il più fantasioso è stato Roberto Calderoli: “Nel nostro programma elettorale c’era la soppressione delle Province inutili, non quella delle inutili Province”. E che gli vuoi dire? Applauso a scena aperta per il gioco di parole che a lui deve essere apparso assai brillante. Gioco di parole che è un riadattamento del Comma 22, quello per cui puoi essere esentato dalle missioni di guerra se sie pazzo, ma, se sei pazzo, non sei allora in grado di chiedere l’esenzione. Era un vecchio film sull’esercito statunitense, ora è la “linea” di Calderoli, e della Lega, sulla ormai penosa questione se risparmiare o no soldi pubblici abolendo le Province. Calderoli mago delle parole dice: “Aboliamo quelle inutili”. Poi nessuno dice mai quali sono quelle “inutili” e le Province restano tutte, non se ne abolisce nessuna. Cervello fine quello di Calderoli.

La storia dell’abolire le Province è rispuntata quasi clandestina e sicuramente importuna in Parlamento. Un anno fa si disse se ne potevano eliminare 17 su una novantina, presto calate a sette, quindi a tre. L’altra sera se ne discuteva alla Camera. Contro il taglio “generalizzato” si schierava il Pdl, la Lega e anche il Pd. Non tutto il Pd, ma quanto bastava. Bastava a non farne niente, a non risparmiare un euro, a non togliere un euro e una sedia ai “politici di territorio”. Però il Pd, mentre con la mano sinistra bloccava, con quella destra si batteva il petto, pentito e contrito. E alquanto imbarazzato, tanto che per non ritrovarsi in una votazione pro Province eterne e intoccabili, il capogruppo Pd Dario Franceschini chiedeva un rinvio dell’ardua sentenza. Chiesto, fatto: delle Province se ne parlerà un’altra volta, l’anno del mai, il giorno del poi. Costano due miliardi, Tremonti ne ha chiesto quaranta, servono a sanare il deficit. Tremonti ha detto due giorni fa che bisogna partire dal taglio dei costi della politica, quei due miliardi, anche uno, anche mezzo potevano servire, soprattutto come esempio e segnale di credibilità. L’esempio è stato dato, la credibilità della politica è stata misurata: loro dei quaranta miliardi che servono non scuciono un euro
.

venerdì 17 giugno 2011

Pena di morte digitale


L'Agcom minaccia la libertà del web, ma la Rete non lo sa.
di Fabio Chiusi

I critici non hanno dubbi. La bozza della delibera (la 668/2010) dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom) è una mina da disinnescare al più presto, perché mette a repentaglio la sopravvivenza di migliaia di siti.
«È la più forte minaccia alla libertà di espressione in Rete che sia mai stata fatta in Italia», sostiene Fulvio Sarzana, avvocato e curatore del Libro bianco su diritti d'autore e diritti fondamentali nella Rete internet. Per Sarzana, infatti, la bozza della delibera potrebbe «decretare la pena di morte digitale di centinaia di migliaia di siti».
TESTO DEFINITIVO ENTRO FINE MESE.La versione provvisoria del regolamento è stata rilasciata a dicembre 2010, e al momento non vi sono indicazioni ufficiali sull'approvazione di un testo definitivo. Ma secondo le fonti diLettera43.it, è lecito ipotizzare la presentazione del progetto compiuto entro fine giugno.
Un rapido passaggio in consiglio di amministrazione Agcom, la pubblicazione entro 60 giorni in Gazzetta ufficiale e il testo sarà in vigore. «Cioè verso Ferragosto», ironizza Marco Scialdone, uno degli avvocati che ha proposto l'appello all'Authority «affinché effettui una moratoria sulla nuova regolamentazione sul diritto d'autore», come recita il testo consultabile suSitononraggiungibile.e-policy.it.

La procedura della rimozione dei contenuti 

Il nome del sito non è stato scelto a caso. Perché i siti potrebbero essere resi non raggiungibili tramite un sistema di cancellazione e inibizione degli indirizzi anche solo «sospettati», accusano i detrattori, di violare il diritto d'autore. Una procedura che, in gergo, si chiama notice and take down.
Secondo la delibera Agcom, se il titolare dei diritti di un contenuto audiovisivo dovesse riscontrare una violazione di copyright su un qualunque sito (senza distinzione tra portali, banche dati, siti privati, blog, a scopo di lucro o meno) può chiederne la rimozione al gestore. Che, «se la richiesta apparisse fondata», avrebbe 48 ore di tempo dalla ricezione per adempiere.
CINQUE GIORNI PER IL CONTRADDITTORIO. Se ciò non dovesse avvenire, il richiedente potrebbe, secondo la delibera ancora in bozza, rivolgersi all'Authority che «effettuerebbe una breve verifica in contraddittorio con le parti da concludere entro cinque giorni», comunicandone l'avvio al gestore del sito o del servizio di hosting. E in caso di esito negativo, l'Agcom potrebbe disporre la rimozione dei contenuti.
Per i siti esteri, «in casi estremi e previo contraddittorio», è prevista «l’inibizione del nome del sito web», prosegue l'allegato B della delibera, «ovvero dell’indirizzo Ip, analogamente a quanto già avviene per i casi di offerta, attraverso la rete telematica, di giochi, lotterie, scommesse o concorsi in assenza di autorizzazione, o ancora per i casi di pedopornografia».

«Ma la competenza è dell'autorità giudiziaria»

Tutto chiaro? Niente affatto. I critici, infatti ritengono che l'Authority rischi di finire travolta dalle segnalazioni. La richiesta di moratoria promossa da Adiconsum, Agorà digitale, Altroconsumo, Assonet-Confesercenti, Assoprovider-Confcommercio e dallo studio legale Sarzana, è poi chiara su un'altra criticità: «L'intera procedura» si svolge «senza alcuna forma di consultazione o interazione con l'Autorità giudiziaria».
UNA DELIBERA ANTICOSTITUZIONALE. Violando così, attacca Sarzana, «i principi costituzionali di riparto dei poteri, perché l'Agcom interverrebbe in un settore riservato da un lato al parlamento», cioè introducendo «nuove forme di repressione delle violazioni del diritto d'autore», e dall'altro «all'ambito giudiziario».
Solo a quest'ultimo, argomenta l'avvocato, e non all'Authority, spetta decidere come un soggetto possa essere chiamato a rispondere di violazioni del copyright. Per questo i detrattori della delibera affermano che sia sufficiente il «sospetto» di una violazione: «Perché non si capisce chi giudica», afferma Scialdone, «e se il giudizio sia sommario e quantitativo oppure sia necessario che un determinato sito sia integralmente in violazione del diritto d'autore».
DAL DIRITTO D'AUTORE ALLA CENSURA. Incostituzionale, dunque, e tanto più grave quanto si ricorda, come fa Scialdone, che «l'Agcom è una autorità nominata dal parlamento, ed è dunque espressione di una autorità politica». Insomma, l'impressione è che il diritto d'autore «sia usato come grimaldello», dice Sarzana, per censurare contenuti scomodi.
Del resto, che si tratti di una vicenda eminentemente politica si deduce dal fatto che il suo originario relatore, il consigliere Nicola D'Angelo, è stato rimosso dal ruolo per aver manifestato delle perplessità. E sostituito da Sebastiano Sortino, ex presidente della Federazione italiana editori giornali (Fieg). Senza contare che la delibera è di fatto una costola del criticatissimo decreto Romani, che reca la firma dell'attuale ministro dello Sviluppo economico.
È forte, dunque, la sensazione che il provvedimento abbia un preciso mandante politico: il governo in carica. E che quest'ultimo, a sua volta, sia stato fortemente influenzato dalle richieste dell'industria dell'intrattenimento.

«Meno accesso per i cittadini a risorse estere»

Ma le critiche si concentrano sulle conseguenze di una simile normativa per i cittadini. «A parte l'equiparazione, molto sciocca, tra diritto d'autore e pedofilia», attacca Sarzana, «l'effetto è impedire ai cittadini italiani di avere accesso a determinate risorse estere». E «senza che lo sappiano», aggiunge.
L'avvocato ricorre a una metafora: «È come se entrassero in una biblioteca e scoprissero che mancano alcuni libri. Al loro posto, un cartello con scritto: 'Qualcuno si è lamentato che questo libro violava i diritti d'autore e non c'è più'».
OBIETTIVO: ARGINARE I DOWNLOAD.La conseguenza è chiara: «Si sta isolando il nostro Paese, e tutto questo per chiudere quattro o cinque siti». Le associazioni annunciano ricorso al Tar non appena il testo definitivo della delibera sarà approvato.
Su Avaaz.org le firme raccolte per chiedere all'Agcom di «rimettere la questione al parlamento, come prevede la nostra Costituzione», sono 64.500. Eppure la mobilitazione in Rete e da parte delle opposizioni è stata sommessa rispetto alle levate di scudi contro il comma «ammazza-blog» del disegno di legge Alfano, il decreto Pisanu (che limitava la diffusione del Wi-fi libero) e lo stesso decreto Romani.
Come mai? «L'obiettivo è evitare che la gente scarichi musica e film da Internet», risponde Sarzana, «e chi vuole raggiungerlo è molto forte. In termini di potere e di voti di determinate categorie, interessa non solo a chi è al governo».
IL PLACET DI FIMI. Intanto il cammino della delibera prosegue indisturbato, con il placet di Fimi, Confindustria cultura e del presidente Agcom, Corrado Calabrò. E perfino del presidente della Camera, Gianfranco Fini. Che, dopo aver definito internet «strumento di democrazia» e difeso la libertà di espressione sul web, introducendo la relazione dell'Authority alla Camera, si è limitato ad affermare che la riforma complessiva del diritto d'autore spetta al parlamento, anche se per il momento l'Agcom è autorizzata a proseguire il lavoro.

La replica: «Propaganda e disinformazione»

I commissari Agcom Stefano Martusciello e Stefano Mannoni, in un intervento su Milano Finanza, hanno replicato definendo i critici delle delibera degli «arruffapopolo che indulgono in tirate di propaganda e disinformazione» che hanno prodotto «una sbornia di demagogia e di pressappochismo». Aggiugendo, inoltre, di essere al contrario al lavoro per «impedire» che il web diventi un «laboratorio» per la censura.
PER I COMMISSARI AGCOM, ARGOMENTAZIONI DEBOLI. «Sarebbe davvero curioso», hanno proseguito, «che una conquista della modernità giuridica, alla base della fortuna e dell'economia e dell'inventiva europea fosse ipotecata a cuor leggero in nome di una chiamata alle armi dei moderni pirati dei Caraibi». E le critiche? «Gli argomenti farebbero arrossire uno studente al secondo anno di Giurisprudenza».
Quanto al merito delle critiche, Martusciello e Mannoni credono che «la riserva di legge sia pienamente rispettata da un quadro di fonti che conferisce all'autorità amministrativa ampio titolo per adottare provvedimenti inibitori efficace». Inoltre, secondo i commissari «la riserva di giurisdizione è rispettata dalla possibilità di chiunque di impugnare i provvedimenti davanti al giudice amministrativo». 
Giovedì, 16 Giugno 2011