sabato 8 settembre 2012

La libertà di stampa è precaria




"Dove vanno a finire i soldi che lo Stato da ai giornali? Di sicuro non servono a pagare i giornalisti. Anzi. Perché in Italia tranne rare eccezioni fare il giornalista significa rassegnarsi ad una vita da precario.
Se c'è un microcosmo lavorativo che riassume tutti i difetti del sistema Italia è quello del giornalismo. E allora, dove finisce il finanziamento pubblico? Nei mega stipendi a direttori, capiredattori, amministratori delegati e a tutte quelle penne illustri (?) che si ergono a guide morali che da anni non portano un straccio di notizia, ma commentano, avvertono, monitano.
Vi hanno detto che la libertà di stampa è minacciata dalla mafia, da Berlusconi, dalle mille leggi bavaglio. Minchiate. La libertà di stampa è minacciata dalla miseria in cui vivono e lavorano migliaia di giornalisti sfruttati: dagli editori, dai direttori e, infine, dai loro stessi colleghi assunti con contratto a tempo indeterminato che quando scioperano, protestano, denunciano è solo per i loro privilegi di giornalisti professionisti e assunti mentre gli altri muoiono di fame. Facciamo un esempio. Un articolo di cronaca, secondo una ricerca compiuta dall'Ordine dei giornalisti pubblicata nel 2011, viene pagato anche 5 euro lordi a 60-90 giorni dalla pubblicazione. Sono i numeri della vergogna, la cifra, vera, della censura. Ecco cosa dicono: La Repubblica a fronte di 16.186.244,00* euro di contributi dello Stato all'editoria elargisce un compenso che varia tra i 30 e i 50 euro lordi a pezzo. Il Messaggero, che riceve 1.449.995,00** euro di contributi pubblici, riconosce 9 euro di compenso per le brevi, 18 euro le notizie medie e 27 euro le aperture. Lordi, ovviamente. Il Sole 24 Ore: 19.222.767,00** euro di contributi pubblici e 0,90 euro a riga, con cessione dei diritti d'autore. Libero: 5.451.451** di finanziamenti pubblici e 18 euro lordi per un'apertura. Il Nuovo Corriere di Firenze (chiuso nel maggio 2012) riceve 2.530.638,81*** euro di contributi pubblici e paga a forfait tra i 50 e i 100 euro al mese, il Giornale di Sicilia a fronte di un finanziamento di quasi 500 mila euro (anno 2006) paga 3,10 euro. Provate a immaginare quanti articoli servono per arrivare ad uno stipendio decente. Provate ad immaginare quale sarà la pensione di chi scrive con un simile onorario (?). Perché questi giornalisti, se iscritti all'ordine- sennò sono abusivi ed è un reato penale - i contributi devono versarli da sé, nella misura del 10 per cento del compenso netto più un due per cento di quello lordo. Che vanno a confluire nella "gestione separata" (mai nome fu più azzeccato) dell'ente pensionistico dei giornalisti, l'Inpgi. Una "serie B" della cassa principale che, invece, prevede pensioni, disoccupazione, case in affitto, mutui ipotecari, prestiti e assicurazione infortuni. Ma questa vale solo per quelli "bravi", quelli a cui viene applicato il contratto collettivo nazionale di lavoro giornalistico che, solo nel 2011, dopo 6 anni, è stato rinnovato. Insomma quelli assunti. Che ovviamente sono una piccola minoranza. Ma, attenzione, questo solo per quanto concerne la parte economica. Perché il contratto collettivo non disciplina solo il trattamento economico ma regola a tutti gli effetti i rapporti fra datore di lavoro (editore) e lavoratore (giornalista). Fissa, insomma, diritti e doveri. Ma, ancora una volta, questo vale solo per chi il contratto ce l'ha e, quindi, tutti gli altri vivono nel far west, perché la loro posizione non è disciplinata da nulla. E si tratta della stragrande maggioranza dei giornalisti della carta stampata - da Repubblica fino al più piccolo foglio di provincia: precari, sottopagati, sfruttati, senza copertura legale, senza ferie, senza nulla. È questa moltitudine, oltre il 70% degli iscritti all'Ordine, che permette ai giornali cartacei e on-line, alle agenzie di stampa di produrre notizie 24 ore al giorno. Senza di loro le pagine bianche sarebbero molte di più di quelle scritte. La carta stampata riceve centinaia di milioni di euro di contributi dallo Stato ogni anno, ma lo Stato non chiede agli editori in cambio di garantire compensi minimi e tutele contrattuali ai collaboratori. Poi arriva la Fornero, ministro al Lavoro (nero) e di fronte alla più elementare delle proposte di legge sull'equo compenso ai giornalisti precari dice: "Non mi sembra opportuno". Della serie siete precari, non siete figli di papà (giornalista), e allora morite. E qualcuno c'è anche morto, stufo di subire. Come Pierpaolo Faggiano, collaboratore della Gazzetta del Mezzogiorno, che nel giugno 2011 si è tolto la vita: non sopportava più, a quarantuno anni, di vivere da precario.
Chiara Baldi, da giornalista precaria ha scritto una tesi sul precariato: "i giornalisti sono "i più precari tra i precari" – scrive Baldi - "perché lo stipendio da fame li costringe anche a rinunciare ai principi deontologici a cui invece dovrebbero attenersi. Una buona informazione è possibile solo quando chi la fornisce non deve sottostare al ricatto di uno stipendio misero. Più è basso il guadagno del giornalista e più sarà alta la sua "voglia" di produrre senza professionalità, non tanto per un desiderio malato di non essere professionale, quanto per una necessità: quella di guadagnare".
Il potere, di qualsiasi colore, non ama i giornalisti e in Italia per disinnescare il problema è stato consentito che diventare giornalisti, essere assunti, sia un privilegio di pochi, così che la stampa diventi il cagnolino del regime e non il guardiano. Assumere il figlio del giornalista è come candidare il Trota, sangue vecchio sostituisce altro sangue vecchio. Altro che bavaglio. Provate voi ad essere liberi a 5 euro a pezzo (lordi). " Nicola Biondo, giornalista freelance


venerdì 7 settembre 2012

Fondazioni bancarie e rifondazione capitalista: come riformare i "mostri" che controllano le banche



di La Voce.info

Le fondazioni bancarie non sono investitori istituzionali perché non rendono conto ad alcun risparmiatore delle loro scelte finanziarie e non hanno peraltro alcun obbligo di rendicontazione della redditività dei loro investimenti. Né sono autonome dalla politica, come mostrano gli ultimi riassetti ai vertici. Vanno dunque riformate, risolvendo l'anomalia di istituzioni non profit che esercitano funzioni di controllo nelle banche. Dovrebbero trasformare gradualmente le loro azioni in azioni di risparmio, evitando di incorrere in perdite in conto capitale.

Ecco perchè vanno rifondate - Commentatori molto vicini al mondo bancario, come Massimo Mucchetti, in questi giorni hanno difeso a spada tratta le fondazioni. Mai si era vista difesa più strenua dello status quo. Eppure è stato Giuseppe Guzzetti, presidente dell'Accri, il sindacato delle fondazioni bancarie, a spiegarci perché le fondazioni vanno rifondate. Nel suo discorso alla Giornata del risparmio del 28 ottobre ci ha consegnato la seguente definizione degli organismi da lui presieduti: `Le Fondazioni sono investitori istituzionali: presidio dell'autonomia delle banche, purché siano esse stesse capaci di salvaguardare la propria`. Non è così. Oggi le fondazioni non sono certo presidio di autonomia perché non sono esse stesse autonome dalla politica e non sono neanche investitori istituzionali. Vediamo perché.

Non sono presidio di autonomia - Le fondazioni bancarie hanno dato ampia prova in questi anni e ancora di più negli ultimi mesi, con i riassetti dei vertici di Intesa-San Paolo e Unicredit, di non essere affatto autonome dalla politica. Attraverso le fondazioni, politici locali di ogni colore si sono arrogati il diritto di nominare i vertici delle maggiori banche italiane. Quindi il presidio non c'è. Il fatto è che le fondazioni stesse non sono autonome dalla politica. Sono guidate da persone come Angelo Benessia, Fabrizio Palenzona, Paolo Biasi, Dino De Poli e Andrea Comba che hanno dato ampia prova di avere come unico incentivo quello di massimizzare il potere, occupando (e facendo occupare a persone di fiducia) più poltrone possibili.

Non sono investitori istituzionali - Le fondazioni non sono investitori istituzionali. Non ne hanno affatto le caratteristiche. Non rendono conto ad alcun risparmiatore delle loro scelte finanziarie, peraltro assai poco trasparenti, dato che non hanno alcun obbligo di rendicontazione della redditività dei loro investimenti. Non sono agenti altamente specializzati nella gestione e intermediazione di fondi, come un fondo pensione o un fondo comune di investimento. Non sono in grado di gestire, anche intervenendo nel governo societario, le partecipazioni che detengono nei loro portafogli per conto della loro clientela. Gli incentivi degli investitori istituzionali sono ben identificati: ottenere il massimo rendimento, a parità di rischio, dal loro investimento, ed è questo aspetto che li rende desiderabili nel governo societario: offrono servizi di monitoraggio del management indirizzando le loro scelte verso quelle che massimizzano il valore dell'impresa nel lungo periodo. Hanno potenti incentivi a operare in questa direzione perché altrimenti i risparmiatori che affidano loro la propria ricchezza li abbandonerebbero verso altri lidi. Non è quello che accade nelle fondazioni dove non c'è nessun risparmiatore a sanzionarle per la cattiva performance dei propri investimenti. Quindi le fondazioni oggi non sono né carne, né pesce e vanno rifondate. Ce lo chiede lo stesso Guzzetti, Prima di discutere come, è utile ricordare la genesi di queste creature. Come sono state fondate le fondazioni?

La genesi di un `mostro` - Fino agli inizi degli anni Novanta l'Italia aveva un sistema bancario essenzialmente pubblico. Le fondazioni nascono come soluzione all'esigenza, imposta dalla Comunità europea, di privatizzare e liberalizzare il sistema bancario e passare da un modello amministrativo di gestione del credito a un modello di mercato, in cui le banche mirano a massimizzare i profitti e competono tra di loro. Mancando investitori istituzionali e un mercato azionario ampio (solo il 6 per cento delle famiglie deteneva azioni), e non volendo ricorrere a capitali stranieri di controllo, si inventarono le fondazioni. Le banche pubbliche e le casse di risparmio si trasformavano in spa, cedendo il loro pacchetto azionario a una fondazione che ne diventava il padrone. Questo padrone: a) non sborsava una lira, solo acquisiva controllo su ingenti risorse finanziarie; b) gli veniva assegnato un compito di pubblica utilità – riversare i proventi del patrimonio da gestire per finanziare iniziative socialmente utili nei territori di riferimento – e allo stesso tempo gestire il pacchetto di controllo della banca partecipata. I due elementi sono all'origine del `mostro`, per usare le parole di Giuliano Amato, il loro inventore. E se un genitore definisce il figlio un mostro è sensato che a un occhio meno distorto da paterno affetto possa apparire qualcosa di peggio.

Un'anomalia mai affrontata - Come la creatura di Frankenstein junior, anche le fondazioni sono stare riportate sul tavolo operatorio. La legge Ciampi del 1998 le obbligava a cedere la maggioranza azionaria e meglio definiva le loro funzioni di utilità sociale e la successiva legge Tremonti del 2001 imponeva che il 90 per cento delle attività delle fondazioni fosse concentrato nelle regioni di appartenenza, una scelta che ha stimolato gli appetiti dei politici locali nei confronti delle fondazioni. Ma l'anomalia vera – fare da padrone di qualcosa senza metterci dei soldi propri e gestire pacchetti con potere di voto e di nomina di amministratori in società for profit da parte di una istituzione non profit a forte caratterizzazione politica – non è mai stata risolta.

Come rifondarle allora? - Le fondazioni hanno storicamente avuto il merito di consentire il passaggio rapido da un sistema di banche pubbliche a uno di banche private, in concorrenza tra di loro, e quindi liberare l'intermediazione dall'invadenza dei partiti politici. Ma si è trattato di una soluzione di ripiego dettata dalle circostanze particolari di un paese con mercati asfittici e soprattutto timoroso di aprirsi ai capitali stranieri. A questo punto l'anomalia va risolta. Non è possibile perseguire obiettivi non profit e esercitare funzioni di controllo nelle banche. Non si fa bene né l'una né l'altra cosa. La nostra proposta è compiere l'ultimo passo per recidere permanentemente l'anomalia: il modo più semplice per farlo è quello di levare il diritto di voto agli investimenti delle fondazioni in entità che non siano strumentali al perseguimento dei loro obiettivi di utilità sociale – le banche in primis. Alle fondazioni deve dunque essere richiesto di trasformare gradualmente (e con modalità tali da evitare loro di incorrere in perdite in conto capitale) le loro azioni in azioni di risparmio. Un vincolo di questo tipo era già stato introdotto dal legislatore nella normativa sul risparmio ma abortì su pressione delle stesse fondazioni (1). Il fatto che fosse stato preso in considerazione dal legislatore ben dodici anni fa è, ulteriore indicazione della necessità di porre termine all'anomalia. Occorre ritornarvi ma con maggiore determinazione. Ovviamente rimane aperto un altro problema: far ben funzionare le fondazioni come entità non profit. Qui la strada maestra non può che essere quella dell'accountability, della trasparenza dei bilanci, di un ruolo diverso dell'Accri, non sindacato, ma coordinatore di progetti di utilità sociale definiti su scala nazionale, garante che i progetti finanziati vengano valutati. In ogni caso, depurare le fondazioni del loro potere di influenza sulle banche è un primo passo necessario anche per affrontare e risolvere il problema del loro ruolo sociale. La questione della creazione di adeguati investitori istituzionali passa per altre vie, a cominciare dal rafforzamento dei fondi pensione e dell'industria del risparmi gestito. Questa è la via maestra per non creare mostri.

(1) La legge Ciampi prevedeva infatti che dal 1 gennaio 2006, le fondazioni bancarie non potessero esercitare il diritto di voto nelle assemblee ordinarie e straordinarie delle società bancarie conferitarie e nelle società da esse controllate per le azioni eccedenti il 30 per cento del capitale rappresentato da azioni aventi diritto di voto nelle medesime assemblee.

Referendum, cresce l’onda del cambiamento



Martedì 11 settembre, alle ore 10.30, una delegazione, composta da rappresentanti delle forze sociali e politiche, da intellettuali e da giuristi, presenterà in Cassazione i quesiti referendari per i due referendum sul lavoro: il ripristino dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, cancellato dal governo Monti con la riforma Fornero e il ripristino del valore universale dei diritti previsti dal contratto nazionale di lavoro, cancellato dal governo Berlusconi con l’art.8 del decreto-legge n.138 del 2011. La raccolta delle firme, che inizierà a metà ottobre, andrà di pari passo con quella ai due referendum IdV contro la Casta: abolizione della diaria dei parlamentari e abrogazione del finanziamento pubblico ai partiti.

L'iniziativa dell'Italia dei Valori è stata, infatti, accolta, ripresa e fatta propria da un fronte ampio che si sta allargando di ora in ora. Hanno già aderito la Fiom, Sel, i Verdi, il Prc e il Pdci. Altre firme e altre sigle politiche e sociali si aggiungeranno nelle prossime ore. Ancora più sorprendente è la risposta del mondo della cultura e della comunicazione che, finalmente, incontra e dimostra la voglia di cambiamento di idee e di classe dirigente che c’è nel Paese. E' il fronte composto da chi è deciso a fare del valore del lavoro e della difesa dei diritti dei lavoratori il solo spartiacque concreto e non parolaio della politica italiana. L'opposto diametrale delle astrazioni bizantine e politicanti che immiseriscono la politica italiana e la rendono, di giorno in giorno, più distante dalla realtà dei cittadini, dei lavoratori, delle persone in carne e ossa. Quella realtà è lastricata di disoccupazione, precariato, smantellamento dello stato sociale, povertà per 116 milioni di cittadini europei. E' fatta di recessione, corruzione e burocrazia soffocante, di politiche che impediscono alle imprese coraggiose e oneste, quelle che innovano e investono in Italia, di ridare all'economia lo slancio necessario per uscire dalla crisi. Già da ieri si è messa in moto un'onda crescente identica alla mobilitazione che, sorprendendo tutti, portò al raggiungimento del quorum e alla vittoria i referendum del 2011. Andrà così anche stavolta. Ce lo dicono le telefonate, le mail, i fax che da ieri assediano le nostre sedi chiedendoci quando e dove si potrà firmare, offrendoci sostegno e attiva solidarietà. Non sono solo i lavoratori, che giustamente difendono i diritti che questo governo ha razziato, ma anche le imprese che reclamano una svolta nella politica economica e capiscono che senza un nuovo riconoscimento del valore del lavoro non ci sarà uscita dalla recessione. Questa è la politica vera, quella che cambia la realtà, tocca la vita e gli interessi delle persone reali. Noi possiamo solo augurarci che anche quei partiti che sono oggi chiusi nella logica asfittica dei marchingegni elettorali e dei giochi di palazzo capiscano presto che è ora, anche per loro, di spalancare le finestre e ridare aria e vita alla politica per restituirla ai cittadini”.

INDICE DI PRODUTTIVITA' DEI PARLAMENTARI

di Openpolis.it

http://indice.openpolis.it/info.html



La metodologia

Lo diciamo subito a scanso di equivoci, non siamo alla ricerca della formula magica per calcolare la buona politica. Non pretendiamo, né vogliamo far credere, che il lavoro, e in particolare quello politico, possa essere ridotto a unità fisiche omogenee e misurato a chili o a metri.
Pensiamo che la funzione, o, se si preferisce, l'incarico e la missione, che i rappresentanti svolgono nelle istituzioni, possano essere, come e più di altri lavori, soggetti a valutazione.
Crediamo nella possibilità, ma anche nella necessità, collettiva di sviluppare un metodo non esatto ma affidabile, perché basato su criteri trasparenti, pubblicamente discussi ed emendabili, che serva a conoscere e capire meglio la politica e chi la fa.
La nostra ambizione è di mettere a disposizione strumenti che aiutino a leggere e interpretare una realtà complessa come quella dell'attività parlamentare partendo, però, dai dati ufficiali, quelli forniti dal Parlamento stesso, invece che da giudizi e opinioni preconfezionati.
Valutare, in questo senso, significa trovare un modo per fare confronti, per verificare, magari in corso d'opera, se l'impegno politico corrisponda alle attese o alle promesse, avere insomma un riscontro con elementi di realtà, prima e oltre la propaganda.
Eccoci dunque alla seconda edizione dell'Indice di Attività Parlamentare, cui siamo arrivati dopo confronti con ricercatori e addetti ai lavori, ma soprattutto dopo avere coinvolto "l'oggetto stesso della valutazione", i parlamentari che, a seguito di una consultazione a cui hanno partecipato in 160, ci hanno dato i suggerimenti e gli spunti più interessanti. Sintetizzando molto il ragionamento, possiamo dire che il passaggio dalla prima alla seconda versione dell'indice segna il tentativo di prendere in considerazione non più solo la "quantità" del lavoro svolto ma anche "il risultato", in termini parlamentari, ottenuto.
Se sinora abbiamo valutato l'attività svolta, ossia, di fatto, quanti atti il parlamentare presenta in un dato periodo di tempo, ora introduciamo criteri per il calcolo di quanto quella attività sia stata effettivamente produttiva. Quindi andiamo a vedere che fine hanno fatto gli atti presentati dal parlamentare, quanti sono stati discussi, votati o diventati legge, quanti, invece, sono rimasti solo intenzioni. La nuova versione l'abbiamo chiamata perciò Indice di Produttività, perché introduce dei criteri di valutazione dell'efficacia del lavoro, suggeriti anche da molti degli stessi Deputati e Senatori che lamentavano come la grandissima parte degli atti presentati, serva solo a dare contentini a gruppi di pressione, clientele e elettorati di riferimento. Si presenta la tale interrogazione che nessuno prenderà mai in considerazione o il tale DDL che non giungerà mai neppure all'esame della Commissione, solo per far vedere a qualcuno che si fa qualcosa. Con le uniche conseguenze pratiche di intasare gli uffici di carta. In un contesto simile, limitarsi a calcolare la quantità rischia di tradursi nel valutare il nulla, o peggio il danno. Dunque bisogna distinguere, per poter riconoscere dove c'è lavoro, lavoro politico, importanza del provvedimento e dove invece ce n'è poco o nulla.
Ma non entriamo mai nel merito di quanto un atto propone o dispone, non diciamo se un disegno di legge o una mozione debbano essere giudicati bene o male. Le distinzioni non riguardano la qualità di quanto prodotto ma "solo" quale e quanto sia stato il contributo del singolo Deputato e Senatore alla produzione di leggi, voti, discussioni, emendamenti, interrogazioni, etc. del Parlamento in un determinato periodo di tempo. I criteri e i parametri utilizzati sono indicati di seguito.
Occorre solo un'altra premessa che crediamo importante per evitare fraintendimenti. Quando parliamo di Produttività non intendiamo dire chi lavora e chi no in Parlamento. Ci concentriamo solo ed esclusivamente su quella parte del lavoro parlamentare volto alla proposta, discussione, elaborazione ed approvazione di atti legislativi e non legislativi. Nell'Indice di Produttività attualmente non calcoliamo il lavoro politico e istituzionale, che può essere anche molto oneroso, collegato allo svolgimento degli incarichi parlamentari come quello di Presidente o Vicepresidente di Assemblea (di Commissione, Giunta, Comitato, etc.), Capogruppo, Questore, etc.



I criteri

I criteri che vengono presi in considerazione per la definizione dell'algoritmo con cui viene calcolato l'Indice di Produttività sono:
- la tipologia di atto
- il consenso ricevuto dall'atto
- il suo iter
- la partecipazione del parlamentare ai lavori.
Ad ognuno di questi criteri vengono associati dei parametri, indicati nella tabella, che combinati tra loro permettono di attribuire a ciascun Deputato e Senatore un valore numerico per ogni atto presentato in Parlamento o di cui sono stati relatori.
Il consenso - ossia le firme ottenute da parte di altri parlamentari - e l'iter - quanta strada riesce a fare un atto in Parlamento - sono i fattori in base ai quali viene calcolato il peso specifico di ciascun provvedimento.
Il valore così acquisito dal singolo atto viene assegnato al suo "autore", a chi cioè ne risulta primo firmatario e al relatore (al quale però non viene attribuito il consenso).
Infine ad ogni parlamentare viene riconosciuto un punteggio per la partecipazione, in generale, ai lavori in Commissione e in Aula, computando sia gli interventi effettuati che le presenze alle votazioni.
La somma di questi valori, il punteggio dei singoli atti a cui il parlamentare ha contribuito direttamente, aggiunto al valore della partecipazione, fornisce l'Indice di Produttività del singolo Deputato e Senatore in un dato periodo di tempo.
Chiaramente la definizione dei parametri comporta un inevitabile margine di aleatorietà e di imprecisione. Attribuendo un dato peso ad un'altra fase dell'iter di un atto, intendiamo dare una stima media del suo valore relativamente ad un altro passaggio di iter, che può essere ritenuto più o meno importante.
Ci siamo chiesti, e abbiamo chiesto, quanto possa valere "in media" la presentazione di un DDL rispetto a un'interrogazione, la discussione in Commissione a confronto di una votazione o approvazione in Aula di un DDL.
Si tratta, necessariamente, di una semplificazione della realtà dove, si sa, ogni caso può essere un caso a sé e dove il singolo ordine del giorno, che in genere - come si dice - non si nega a nessuno, potrebbe valere politicamente anche molto di più di una legge.
Ma qui, lo ripetiamo, non si tratta di misurazioni esatte bensì di offrire metodi e strumenti di valutazione che restituiscano rappresentazioni della realtà non certo perfette, ma che abbiano un certo grado di affidabilità che diano ragione delle differenze principali.
I ruoli presi in esame ai fini dell'Indice di Produttività sono quelli di Primo Firmatario e di Relatore, cioè di coloro ai quali, almeno sul piano formale, va attribuito il merito principale dell'esito eventualmente positivo di un atto. E' noto come a volte il piano formale, chi presenta l'atto, non coincida con quello sostanziale, chi effettivamente ha lavorato alla sua predisposizione e al suo successo. Questo per varie ragioni, variamente argomentate di volta in volta e che in sostanza appartengono alla opportunità politica, al tatticismo e comunque a tutto quell'armamentario dell'arcana imperii parlamentare che niente ha a che vedere con la chiarezza e l'intelligibilità delle responsabilità dei rappresentanti nei riguardi dei cittadini. Pertanto attraverso l'Indice non possiamo che prendere in considerazione i dati di fatto ufficiali e sperare di contribuire ad un'aderenza sempre maggiore tra questi e la realtà, in modo che i cittadini possano sapere a chi riconoscere meriti e demeriti relativi.
Al Primo firmatario di un atto viene attribuito il punteggio dell'iter sommato a quello del consenso. Mentre al Relatore di un DDL viene assegnato soltanto il punteggio dell'iter perché si presume che il lavoro politico necessario a guadagnare il consenso sia preliminare alla presentazione dell'atto, mentre quello necessario al suo avanzamento nell'iter, possa essere mediamente condiviso tra il presentatore e il relatore, che in sostanza ha il compito di difenderlo e di gestire le mediazioni necessarie alla sua approvazione finale, perché sia la più larga possibile.



Il consenso

Con questo criterio si intende valutare la quantità e la tipologia di gradimento che il presentatore (Primo firmatario) di un atto riesce ad ottenere presso i suoi colleghi.
La presunzione di partenza è che più un atto ottiene consenso e maggiore è il suo valore politico. Valore che sarà più alto nel caso in cui il consenso dovesse essere differenziato, con sostegni provenienti da altri gruppi, o, a maggior ragione, da gruppi appartenenti allo schieramento opposto.



L'iter

Ogni atto parlamentare ha un iter che consiste nella successione delle fasi necessarie al suo completamento. Questi passaggi possono essere pochi o molti secondo il tipo di atto.
L'iter più complesso è certamente quello degli atti che sono destinati a produrre norme di legge, ossia i Disegni o Progetti di Legge. Ora, dal punto di vista della produttività parlamentare, ogni tappa raggiunta o superata da un atto verso il suo traguardo finale, fa acquisire punteggio all'atto, e, di conseguenza, al suo presentatore e al relatore.
I parametri che abbiamo assegnato alla presentazione di un atto sono oggettivamente molto bassi, prossimi allo zero e con differenze insignificanti tra una tipologia di atto e l'altro. I punti vengono acquisiti, e anche molti, man mano che si conquistano tappe nel viaggio parlamentare.
Una scelta che chiaramente premia la ricerca del risultato, il lavoro, all'interno del proprio gruppo e con gli altri gruppi parlamentari, orientato a degli obiettivi politici chiari e leggibili da tutti in maniera comprensibile e che pertanto spingerebbe a rinunciare a presentare un atto fintantoché non ci siano le condizioni perché possa essere almeno preso in considerazione.
Se un parlamentare presenta un DDL che non viene discusso nemmeno una volta nel tempo di una legislatura, qualunque fossero i suoi obiettivi questi non sono stati raggiunti in Parlamento, il suo lavoro è servito a poco o nulla, qualcosa che nei nostri parametri vale 0,08.
Evidentemente, però, maggioranza e opposizione non sono certo sullo stesso piano da questo punto di vista. Le possibilità che ha un parlamentare di opposizione di vedere messo all'ordine del giorno della discussione di una Commissione il proprio progetto di legge sono incontestabilmente molto più basse, come pure quelle di essere relatore di un DDL. Per non parlare poi dei progetti che diventano legge, che sono già assai rari quelli di iniziativa parlamentare, figurarsi poi quando a presentarli sono parlamentari di minoranza, eventi memorabili.
Per questo un passaggio di iter ottenuto da un membro dell'opposizione viene valutato, con il nostro Indice, il doppio rispetto ad un parlamentare di maggioranza.
Tuttavia se l'attività legislativa inevitabilmente avvantaggia la maggioranza, d'altro canto quella non legislativa (interrogazioni, interpellanze, odg, etc.) è tradizionalmente più appannaggio delle opposizioni e dunque, in linea di massima, questa distribuzione di ruoli in Parlamento restituisce un certo equilibrio.
Questo viene in qualche modo confermato sia dalle classifiche in base alla Produttività, dove troviamo parlamentari di maggioranza e opposizione in maniera piuttosto uniforme nelle posizioni di testa e di coda, sia da quelle dei ruoli.



La partecipazione ai lavori

Il contributo del parlamentare ai lavori della Camera di appartenenza si esprime anche attraverso la partecipazione alla fase della discussione e a quella della decisione e quindi nell'Indice di Produttività calcoliamo gli interventi in Commissione e in Aula e le votazioni.
Ma la presenza al voto non ha sempre lo stesso valore politico, pertanto abbiamo distinto la votazione, diciamo, ordinaria dal voto finale con cui si approva una legge, dal voto in cui la maggioranza è risultata battuta. Alle ultime due riconosciamo un peso, rispettivamente, di 100 e 300 volte superiore al voto ordinario perché sono momenti qualificanti di una legislatura.



I relatori in casi particolari

Nei casi di ratifiche di trattati o convenzioni internazionali al relatore viene attribuito un punteggio dieci volte inferiore a quello di un DDL ordinario, perché si tratta, nella normalità dei casi, di ratifiche formali di atti che hanno già il consenso del Governo e spesso delle opposizioni e che quindi mettono in gioco assai meno il ruolo politico del relatore.
Nel caso, poi, di atti unificati e atti assorbiti, quando il relatore è lo stesso, questo viene contato una sola volta onde evitare l'effetto di distorsione causato dal punteggio di relatore moltiplicato per 20 o 30 volte, tanti quanti possono essere i DDL assorbiti o unificati, che poi, in sostanza, confluiscono in un unico DDL.



Gli emendamenti

La facoltà di presentare emendamenti viene a volte interpretata in maniera ostruzionistica dai parlamentari che vogliono opporsi ad un determinato provvedimento.
Per cui si presentano centinaia, a volte migliaia di emendamenti al fine di impedire o ritardare l'approvazione dell'atto contrastato. Per tenere conto di questa dinamica, obiettivamente differente da quella degli altri atti, abbiamo fatto ricorso ad una funzione che permette di assegnare agli emendamenti presentati da un parlamentare sul singolo atto, un punteggio crescente in fase iniziale (da 1 a 50), che poi cresce meno (da 50 a 100) e in seguito sempre meno sino ad un massimo (300) oltre il quale ogni ulteriore emendamento non aggiunge nulla al punteggio finale.



La tabella di valutazione

http://indice.openpolis.it/info.html

giovedì 6 settembre 2012

Nuova legge elettorale, l’ultimo bluff della casta - di Sonia Oranges



Ad oggi in commissione Affari Costituzionali giacciono ben 44 diverse proposte di modifica del mitico Porcellum. La volontà politica latita e da destra e da sinistra molti spingono per tornare alle urne con l'attuale sistema di voto


Il feuillieton politico dell’estate è finito. Dopo mesi di discussioni e di chiacchiere, della nuova legge elettorale, quella che aveva chiesto il capo dello Stato Giorgio Napolitano a più riprese, seguito a ruota dal presidente del Senato Renato Schifani, e proprio ieri dal presidente del consiglio Mario Monti, non c’è traccia. Ci sono, in commissione Affari Costituzionali, ben 44 diverse proposte di modifica del mitico Porcellum, ma niente che possa somigliare minimamente ad una sintesi. Dunque, come se nulla fosse successo. Di nuovo al punto di partenza. Ieri, alla riapertura dei giochi politici, quando i rappresentanti dei partiti a Palazzo Madama si sono riuniti nel comitato ristretto per decidere del testo illustrato del Pdl Lucio Malan e dal Pd Enzo Bianco, la montagna non ha partorito neppure il topolino. La nuova legge elettorale non c’è e non ci sarà neppure tra un po’. La volontà politica latita e forse serpeggia tra i partiti anche una pazza idea: ma se si tornasse a votare con il Porcellum? Chissà.


Intanto, il quadro appare nebuloso. E neanche poco. I punti di divergenza sono sostanzialmente due: le preferenze richieste dal centrodestra contro i collegi uninominali voluti dal centrosinistra, e il premio di maggioranza che il Pdl vorrebbe dato al partito e il Pd alla coalizione vincente. Così, se da un lato Malan ha provato a spiegare che “non è opportuno incoraggiare coalizioni fittizie”, riferendosi in primo luogo alla supposta coalizione di centrosinistra spaccata sin dalla scelta se appoggiare o meno il governo tecnico, dall’altro lo stesso presidente della commissione Affari costituzionali Carlo Vizzini si domandava come, tecnicamente, il premio (che lui preferisce chiamare “di governabilità”) possa garantire stabilità se assegnato al primo partito scelto dagli italiani.
Si discute del sesso degli angeli, insomma, in assenza di uno straccio di accordo che segnali la reale volontà politica di arrivare a una nuova legge elettorale. Così si ripiega sulla classica melina. “Noi non sappiamo cosa vuole il Pdl”, contestava ieri la capogruppo democrat Anna Finocchiaro. “E’ evidente che in questa settimana c’è stato un dibattito molto acceso nel Pd, che è in difficoltà nel suo interno”, le rispondeva il vicepresidente pidiellino Gaetano Quagliariello. Ma entrambi sanno di non avere i numeri per scagliare la biblica prima pietra. Di certo non il Pdl che ieri è arrivato alla riunione assolutamente impreparato. E spaccato al suo interno sulla questione delle preferenze che nessuno vuole, tranne che la frangia più riottosa e antimontiana. “Il Pd sappia che in Parlamento c’è chi si batterà fino all’ultimo per introdurre nella nuova legge elettorale il sistema del voto di preferenza, che garantisce agli italiani la libertà di decidere direttamente da chi farsi rappresentare”, dichiaravano ieri in una nota Giorgia Meloni, Renato Brunetta, Guido Crosetto, Pino Galati, Viviana Beccalossi e Fabio Rampelli.
Un fronte che, come al solito, avrebbe dovuto essere ricondotto a più miti consigli dal Cavaliere, in una riunione convocata a Palazzo Grazioli e poi rimandata perché Berlusconi doveva essere interrogato dai magistrati palermitani. Così, ubi maior minor cessat, in assenza di indicazioni dall’alto i senatori pidiellini nel comitato ristretto non sapevano che pesci pigliare, facendo così il gioco del Pd che si guarda bene dal proporre una qualsiasi trattativa che possa sbloccare lo stallo. Nel partito, d’altra parte, c’è chi vorrebbe andare a votare il prima possibile per archiviare l’esperienza tecnica, come c’è invece chi vorrebbe lunga vita al governo Monti, o almeno alla sua agenda. E dunque la fine naturale della legislatura. Che, in fin dei conti, farebbe comodo anche a Berlusconi, la cui macchina elettorale fatica a ingranare ma che, al contempo, non scioglierà la prognosi della propria candidatura senza avere la certezza su quale sarà il sistema elettorale con cui si andrà a votare.
Tutti argomenti di un certo peso, che nulla però hanno a che fare con l’auspicata (da tutti, almeno a chiacchiere) stabilità del prossimo esecutivo, essendo più affini alla tutela del potere da parte di chi ne è ancora il titolare, commentava ieri con amarezza un senatore di lungo corso. E, alla fine, Vizzini ha battuto il pugno sul tavolo, trattando i senatori alla stregua di alunni indisciplinati: “Se nella prossima settimana non ci saranno novità, dopo aver informato il presidente Schifani, proporrò di tornare in commissione perché l’unica sede dove si può continuare questo dibattito è la sede plenaria dove si discute ma alla fine si vota anche”.
Facile a dirsi, ma più difficile a realizzarsi, visto che in commissione sono depositati 44 disegni di legge di riforma elettorale. Da quale si comincia? Si fa una riffa? Estrazione a sorte? L’idea di Vizzini è quella di ripartire dal testo di Malan e Bianco: “Certo, su alcuni punti c’è accordo e su altri no, e ci vorrebbe davvero un accordo politico”. Anche perché si rischia il bis delle riforme costituzionali: il pareggio nel voto, in cui nessuno vince. Ma su un punto Vizzini è fermo: “Qui serve un compromesso alto. Non vorrei che gli elettori pensassero che qui si cincischia perché in fondo il Porcellum sta bene a tutti. Anche perché io ho firmato il referendum per abolire questa legge elettorale, e sulla riforma ci sto mettendo la faccia”. Ma, si sa, l’elettore ha sempre ragione.

Falso Corriere della Sera critica Grillo: al comico piace, ai simpatizzanti no



Un fotomontaggio del giornale di via Solferino titola: "Citofonava e scappava" sopra a una foto del leader dei Cinque Stelle. Lui, su facebook, mette mi piace. Molti tra quelli che lo seguono non capiscono e si scatenano con critiche e difese d'ufficio



Le notizie sulla rete corrono veloci, le bufale pure. E questo Beppe Grillo sicuramente lo sa. Invece, quello di cui alcuni internauti sostenitori delMovimento 5 Stelle non si sono accorti è che l’umorismo si può fare anche sul loro leader, e che anzi, proprio a un politico, che è anche un comico, una risata fa bene. Soprattutto se piace a lui per primo, tanto da postarlo sul proprio account face-book.
È successo così che il gruppo Facebook dell’M5S di Rimini ha pubblicato un ironico fotomontaggio delCorriere della Sera, subito ripostato sul social network dal blogger genovese, che doveva trovarlo evidentemente divertente e intelligente. Nella prima pagina del quotidiano di via Solferino campeggia il titolo a otto colonne: “Citofonava e scappava. Wikileaks pubblica i file riservati sul Guru del Movimento 5 Stelle. Sgomento tra i giovani militanti. Intervista esclusiva di una compagno di quinta elementare. Era peggio di Charles Manson”. Lo status di Grillo totalizza oltre 5000 like in poche ore. Ma “mi piace” cosa, esattamente? La presa in giro del Corriere – probabilmente nel mirino perché aveva riesumato uno spezzone di uno spettacolo di alcuni anni fa, in cui il comico invitava a “dare una ripassatina ai marocchini”, magari di nascosto? Oppure la denuncia di un possibile complotto della grande stampa nazionale contro i 5 stelle?
La risposta arriva forse dai circa 2500 commenti piovuti sul social network. Tantissimi quelli che difendono il Grillo citofonatore folle al grido di “lo facevo anch’io, e allora?”, oppure “non sanno più cosa inventarsi”. “La prossima scottante rivelazione sarà: Grillo lanciava gli aeroplanini di carta ai compagni di classe durante l’ora di matematica”, prova a pungere Antonello. Gli fa eco Maria: “Ora andranno a intervistare gli amici dell’asilo e sapremo che rubava la merenda”. Ad attacco da parte di un quotidiano, sembra logico, si risponde proprio attaccando quel quotidiano e gli altri. Ed ecco i post della serie “è la stampa, schifezza”. “I giornali hanno paura che gli togliamo le sovvenzioni statali. Vergogna!”, inveisce Riccardo. Tommaso si imbarca in un’analisi ad ampio raggio: “Cosa si può commentare ad un articolo insignificante come questo: Antonio Polito intervista addirittura un compagno di V elementare di Beppe Grillo. Evidentemente non sanno più cosa dire e scrivere per screditare il leader di un movimento”. Infatti, commenta qualcuno “Grillo è un santo”. Punto e basta.
Peccato però che l’attacco a Grillo non esiste. Qualcuno comincia a dubitarne quasi da subito e sono tanti i commenti simili a quello di Francesco: “Se la gente del M5S non capisce che questo è un palese fotomontaggio (fatto da altri grillini) è perché probabilmente non sa neanche come sia fatto un giornale… pessima figura… che delusione!”. Massimo critica chi ha preso sul serio la burla e sdrammatizza: “Titolo del prossimo Vernacoliere: ‘È ufficiale: i fan di Grillo so’ tutti pisani!’”. L’affondo – e non è neppure il più duro – arriva da Matthew: “Elettori del Movimento Cinque Stelle grazie per il più bel Epic Fail (figuraccia sul web, ndr) che ho mai visto in vita mia”. E pensare che era tutta una cosa degli amici di Beppe Grillo, giusto per riderci su.
Da Il Fatto Quotidiano del 6 settembre 2012


martedì 4 settembre 2012

Holidays In The Sun


Correva l'anno 1977 e la band londinese dei Sex Pistols pubblicava il suo primo e unico album, "Never Mind The Bollocks, Here's The Sex Pistols", un album destinato a cambiare la scena musicale britannica. La maggior parte della critica sostiene che i Sex Pistols abbiano dato vita al movimento punk britannico.
La loro carriera durò soltanto tre anni, dal 1975 al 1978, anno in cui il cantante della band, Johnny Rotten, lasciò la band dopo il controverso

tour americano, evidentemente stanco delle bravate del bassista Sid Vicious e del clima di ostilità che aleggiava attorno alla band.

 
Nonostante il breve periodo di attività e un solo album, i Sex Pistols hanno cambiato la storia della musica: la loro era una risposta al perbenismo della società, alla musica pop/rock e hanno avuto una notevole influenza sulle band punk e post punk che si sono formate dopo, come i Clash, i Siouxsie And The Banshees e gli Advert.
Oggi vi propongo uno dei miei brani preferiti intitolato "Holidays In The Sun", contenuto nel loro unico album e pubblicato come singolo nell'ottobre del 1977. Buon ascolto...


Holiday In The Sun, 1977

Testo canzone: Sex Pistols - Holidays In The Sun
A Cheap holiday in other peoples misery! 
I don't wanna holiday in the sun 
I wanna go to new Belsen 
I wanna see some history 
'Cause now i got a reasonable economy 
Now I got a reason, now I got a reason 
Now I got a reason and I'm still waiting 
Now I got a reason 
Now I got reason to be waiting 
The Berlin Wall 
Sensurround sound in a two inch wall 
Well I was waiting for the communist call 
I didn't ask for sunshine and I got World War three 
I'm looking over the wall and they're looking at me 
Now I got a reason, Now I got a reason 
Now I got a reason and I'm still waiting 
Now I got a reason, 
Now I got a reason to be waiting 
The Berlin Wall 
Well they're staring all night and 
They're staring all day 
I had no reason to be here at all 
But now i gotta reason it's no real reason 
And I'm waiting at the Berlin Wall 
Gotta go over the Berlin Wall 
I don't understand it.... 
I gotta go over the wall 
I don't understand this bit at all.... 
Claustropfobia there's too much paranoia 
There's too many closets I went in before 
And now I gotta reason, 
It's no real reason to be waiting 
The Berlin Wall 
Gotta go over the Berlin Wall 
I gotta go over the wall 
Please don't be waiting for me

Traduzione canzone: Sex Pistols - Holidays In The Sun
Una vacanza economica nella miseria della gente!
Non voglio una vacanza al sole
Voglio andare al nuovo Belsen
Voglio vedere un po' di storia
Perche 'ora le mie economie me lo permettono
Ora ce l'ho un motivo, ora ce l'ho un motivo
Ora ce l'ho un motivo e sto ancora aspettando
Ora ce l'ho un motivo
Ora so perché aspettare
Il Muro di Berlino
avvolto dal suono in una parete due pollici
Beh, io stavo aspettando che i comunisti mi chiamassero
Non chiedevo la luce del sole e ho ottenuto la terza guerra mondiale
Sto guardando oltre il muro e e mi stanno cercando 
Ora ce l'ho un motivo, Ora ce l'ho un motivo
Ora ce l'ho un motivo e sto ancora aspettando
Ora ce l'ho un motivo,
Ora so perché aspettare
Il Muro di Berlino
Bene, mi stanno fissando da tutta la notte e
mi stanno fissando per tutto il giorno
Non avevo un motivo per starmene qui 
Ma ora so che la ragione non è una vera ragione
E sto aspettando davanti al Muro di Berlino
Devo andare oltre il Muro di Berlino
Io non lo capisco ....
Devo andare oltre il muro
Non capisco questo pezzo ....
Claustrofobia c'è troppa paranoia
Ci sono troppi armadi ci sono andato prima
E ora conosco la ragione
Non c'è una vera ragione per aspettare
Il Muro di Berlino
Devo andare oltre il muro di Berlino
Devo andare oltre il muro
Per favore non aspettatemi

lunedì 3 settembre 2012

Grillo: “Da media istigazione a delinquere. Come negli anni di piombo”


Il leader del Movimento 5 Stelle scrive sul suo blog e riadatta un passaggio di 1984 di George Orwell. Poi ammonisce e avverte: "Dal tiro al bersaglio metaforico, si passerà a quello reale? ... Li diffami, li isoli e poi qualcuno li elimina. Ci vediamo in Parlamento. Sarà un piacere"




Tutti contro Grillo. Grillo contro tutti. Non è un gioco di parole, ma un gioco al massacro che oggi il leader del Movimento 5 Stelle ribattezza “Il rito dell’Odio” ripescando un intero passaggio del libro “1984″ diGeorge Orwell. Il comico genovese attacca, rievoca “gli anni di piombo”, squaderna sul suo blog gli epiteti che gli sono stati affibbiati negli ultimi tempi e punta il dito contro i media: “Istigazione a delinquere”. ”Il rito dell’Odio era cominciato. Come al solito, la faccia di Beppe Grillo, il Nemico del Popolo, era apparsa sullo schermo. S’udì qualche fischio, qua e là, fra i presenti. La donnetta dai capelli color sabbia diede in una sorta di gemito in cui erano mescolati paura e disgusto. Grillo era il rinnegato. Durante il suo secondo minuto, l’Odio arrivò fino al delirio…. “Porco! Porco! Porco! ” “Populista! Populista! Populista!” “Fascista! Fascista! Fascista!” “Assassino! Assassino! Assassino!” “Evasore! Evasore! Evasore!”… La cosa più terribile dei Due Minuti d’Odio non consisteva tanto nel fatto che bisognava prendervi parte, ma, al contrario, proprio nel fatto che non si poteva trovar modo di evitare di unirsi al coro delle esecrazioni”. 
Dopo la prolungata lite a distanza con Pier Luigi Bersani oggi da due sponde diverse del giornalismo arrivano gli “attacchi”. L’Unità, quotidiano fondato da Antonio Gramsci e di area Pd, titola “Le balle di Grillo: l’Aids non esiste”, mentre Il Giornale, fondato da Indro Montanelli e appartenente alla famiglia Berlusconi.  mette in prima pagina una sua foto di quando recitava. Un fotogramma estrapolato dal film di Dino Risi “Scemo di guerra” con l’allora giovane interprete che fa il saluto fascista; titolo dell’immagine “Quando Beppe Grillo era fascista”. Eppure a scorrere gli archivi non è la prima volta che Grillo diventa “bersaglio metaforico” come scrive oggi. Nei mesi e negli anni passati tanti hanno detto “male” di lui. Questa la definizione di Silvio Berlusconi: “Grillo è l’espressione peggiore della sinistra peggiore”, Valter Veltroni: “Grillo semina zizzania”, Eugenio Scalfari, fondatore ex direttore del quotidiano la Repubblica: “Peggiore Destra, quella populista, demagogica, qualunquista che cerca un capo in grado di de-responsabilizzarla”. E proprio sul quotidiano, diretto da Ezio Mauro, nellae pagine bolognesi si legge di “una guerra vera e propria. In Emilia Romagna” dove si starebbe allargando “la frattura tra la base e lo Staff del blogger” compreso un “esposto all’Agcm (Autorità garante della concorrenza e del mercato) degli “epurati” contro la “Casaleggio e Associati”, che possiede il simbolo del Movimento 5 Stelle”.  Ma Grillo proprio stamattina ha smentito: “Contrariamente a quanto riportano oggi i giornali il simbolo del Movimento 5 Stelle è registrato a mio nome e non della Casaleggio associati. Basterebbe una verifica per non fare figure di merda”. 
E così a difesa, quasi a scudo, contro questa ondata, Grillo cita Orwell, autore della “rivoluzionaria” Fattoria degli animali, lanciando il suo anatema contro i media e contro gli avversari. ”Il rito quotidiano dell’Odio da parte di aizzatori di professione nei miei confronti, nei confronti degli appartenenti al Movimento 5 Stelle e dei miei collaboratori sta diventando fragoroso, insopportabile, indecente – argomenta -. Lo scopo è quello, chiaro, di creare dei mostri da abbattere per mantenere lo status quo”, prosegue accusando i critici perché “non discutono mai nel merito, ad esempio del Programma del M5S, insultano, fomentano con l’obiettivo di isolare, infamare, distruggere”. “E dopo? Cosa verrà dopo?”, si domanda Grillo che passa a fornire anche uno scenario: “Dal tiro al bersaglio metaforico, si passerà a quello reale? L’informazione sta sconfinando in molti casi in istigazione a delinquere, come avvenne negli anni di piombo. Li diffami, li isoli e poi qualcuno li elimina. Ci vediamo in Parlamento. Sarà un piacere”. 
Sostituendo il suo al nome dell’Emmanuel Goldstein creato dalla penna del scrittore britannico, Grillo ripercorre quel “rito dell’Odio” per poi fare la sua chiusa riprendendo il riadattamento della citazione: “E tutto un tratto afferrò un pesante dizionario di Neolingua della Casta e lo scaraventò sullo schermo. Questo andò a colpir diritto il naso di Grillo e poi ricadde a terra: la voce continuava inesorabile. Tutti strillavano e battevano furiosamente i tacchi contro il piolo della sedia. La cosa più terribile dei Due Minuti d’Odio non consisteva tanto nel fatto che bisognava prendervi parte, ma, al contrario, proprio nel fatto che non si poteva trovar modo di evitare di unirsi al coro delle esecrazioni”.



L'autunno del commercio La crisi «chiude» i negozi


Nel 2012 potrebbero cessare l'attività fino a 150 mila imprese La previsione di Confcommercio per quest'anno è di un calo del 3,3% dei consumi pro capite, peggiore rispetto al 2011


C'è poco da essere ottimisti. Se agosto non ha portato la temuta tempesta sui mercati ha però confermato il peggioramento del clima di fiducia delle famiglie e il prolungamento della recessione. E non c'è da stupirsi che a temere l'autunno siano soprattutto i negozianti alle prese con le stime di un'ulteriore caduta dei consumi. La Confcommercio indica un calo per il 2012 del 3,3% procapite. Un dato, rileva il direttore dell'Ufficio studi Mariano Bella, senza precedenti e certamente più negativo di quello registrato lo scorso anno quando a causa della crisi, secondo i calcoli della Confederazione dei commercianti, sono state costrette a chiudere i battenti oltre 105 mila imprese commerciali, di cui 62.477 punti vendita al dettaglio. Il saldo tra le nuove attività messe in piedi e quelle cessate è stato negativo per oltre 34 mila unità e guardando ai soli negozi la differenza, sempre in negativo, è stata di 18.648.

Nel 2012 dunque, visto il perdurare della diminuzione dei consumi, le cose non cambieranno certo in meglio. Anzi. Pur nella difficoltà di fornire stime e dati in questo settore, la differenza tra imprese nate e cessate dovrebbe far registrare un probabile peggioramento rispetto all' andamento del 2011: da 18 a 20 mila nel solo comparto delle vendite al dettaglio. Cosa che vorrebbe dire la chiusura, nel corso d'anno, di 65 mila negozi.
Nel settore commerciale nel suo complesso, comprese quindi le aziende all'ingrosso e quelle di vendita di auto e moto, la cessazione delle attività potrebbero superare il numero di 105 mila e secondo qualcuno arrivare anche a 150 mila, con lo strascico inevitabile e doloroso della perdita di nuovi posti di lavoro.
I consumi continuano a calare, avvertono dunque le associazioni dei negozianti, anche se in misura minore di quanto si siano ridotti i redditi. Perché le famiglie destinano alle spese quotidiane un quota sempre maggiore dei rispettivi budget e perché sono più attente al rapporto prezzo-qualità dei beni che acquistano. Ma col perdurare della crisi aumenta il peso dell'incertezza sul futuro, la paura di perdere il lavoro e di veder diminuire il potere d'acquisto dei propri salari e stipendi. In attesa che l'economia si riprenda e si avvii nuovamente alla crescita.
C'è però un segnale nuovo, ancora tutto da valutare, nel mondo del commercio. Di fronte al declino delle attività di vendita tradizionali - dall'alimentare all'abbigliamento all'arredamento - si consolida la tendenza ad intraprendere altre strade. «È la disoccupazione a dare la spinta e l'intraprendenza necessaria a mettersi sul mercato» commenta Mauro Bussoni, vicedirettore generale della Confesercenti segnalando il fenomeno che però riguarda soprattutto il terziario e i servizi alla persona. Sono nate infatti molte imprese anche piccole di assistenza sanitaria, trasporti, consegne a domicilio, riparazioni, informatica e di parrucchiere, dove sembra siano impegnate soprattutto le comunità cinesi. Un fiorire di mestieri che confermano la tendenza alla terziarizzazione del commercio e compensano in qualche modo la riduzione delle attività più tradizionali, a partire dai piccoli esercizi nei centri storici delle città.