sabato 12 marzo 2011

150 ANNI UNITA’ D’ITALIA, COMELLINI (PDM): FESTA CONDIVISIBILE MA METODO ERRATO, COME AL SOLITO CI SI ACCANISCE SUI LAVORATORI

Il giorno 9 marzo scorso, il Ministro per la pubblica amministrazione e l’innovazione rispondendo ad una interrogazione alla Camera dei deputati, ha affermato che «Si tratta di un sacrificio del tutto trascurabile, limitato all'anno 2011, e giustificato da una finalità che davvero si auspica condivisa».

“A prescindere dalla dichiarazione del Ministro Brunetta che mi sembra perfettamente in linea con lo stile tipo “ventennio” costantemente utilizzato dal Governo nella concezione dei rapporti con i lavoratori e con i diritti,  e dopo aver letto il contenuto della Relazione tecnica al Ddl di conversione (A.S. n. 2569) del decreto legge 22 febbraio 2011, n. 5 pubblicata sul sito istituzionale del Ministero brunettiano, è chiaro che il Governo ha sbagliato non solo a scrivere il testo del decreto legge attualmente in esame al senato, ma ha completamente errato nella lettura delle norme che regolano la fruizione dei congedi dei dipendenti pubblici.

Infatti, occorre ricordare che l’articolo 1 della legge 5 marzo 1977, n. 54, ha stabilito che i  giorni  che cessano  di  essere  considerati  festivi agli effetti civili sono: Epifania; S. Giuseppe; Ascensione; Corpus Domini; SS. Apostoli Pietro e Paolo, e che a decorrere dal 1977 la celebrazione della festa nazionale della Repubblica e quella della festa dell'Unita' nazionale hanno luogo rispettivamente nella prima domenica di giugno e nella prima domenica di novembre cessando di essere considerati festivi i giorni 2 giugno e 4 novembre. Per compensare la perdita di queste giornate festive con la legge 23 dicembre 1977, n. 937, si stabilì che «Ai  dipendenti  civili  e  militari delle pubbliche amministrazioni centrali e locali, anche con ordinamento autonomo, esclusi gli enti pubblici economici, sono  attribuite,  in  aggiunta  ai  periodi di congedo  previsti  dalle  norme  vigenti, sei giornate complessive di riposo da fruire nel corso dell'anno solare come segue: a) due giornate in aggiunta al congedo ordinario; b) quattro giornate, a richiesta degli interessati, tenendo conto delle esigenze dei servizi. Le due giornate di cui al punto a) del precedente comma seguono la disciplina del congedo ordinario. ».

Queste le principali norme a cui dobbiamo fare riferimento  per comprendere che ad eccezione della festività SS. Apostoli Pietro e Paolo che interessa solo il comune di Roma ai sensi dell’articolo 1 del DPR 28 dicembre 1985, n. 792, le restanti 4 festività soppresse sono quelle previste dall’articolo 1, comma 1, lettera b) della citata legge  23 dicembre 1977, n. 937, mentre la festività del 4 novembre resta disciplinata dall’articolo 1 della legge 5 marzo 1977, n. 54, e quindi viene recuperata come giorno aggiuntivo al congedo ordinario (articolo 1, comma 1, lettera a) della legge 23 dicembre 1977,n. 937).

Secondo le interpretazioni delle norme citate che le pubbliche amministrazioni interessate intenderebbero applicare, nei confronti dei dipendenti civili e militari, sarebbero state emanate disposizioni volte a disporre l’obbligo per il personale di fruire di un giorno di riposo di quelli previsti dalla citata legge 937/1977, articolo 1, comma 1, lettera b), senza considerare che il tenore letterale della norma in questione afferma innegabilmente che sia esclusivamente il dipendente a poter decidere il giorno di fruizione del beneficio e che a seguito di tali disposizioni si verrebbero a creare situazioni di disparità di trattamento con coloro che nella giornata del 17 marzo si trovino a fruire di un giorno di congedo straordinario per malattia o per gravi motivi familiari, ovvero siano collocati in posizione di aspettativa per infermità, nel senso che rispetto a coloro che "festeggeranno" non vedranno ridotti i loro giorni di ferie.

Non credo che il Ministro Brunetta abbia attentamente valutato gli aspetti che ho citato e mi domando anche se e come intenderà obbligare ai festeggiamenti quei dipendenti che abbiano già utilizzato tutti e quattro i giorni di riposo c.d. “festività soppresse”.

Dubito che il Ministro potrà porre rimedio al disastro che lui e i suoi compari hanno combinato.

Come al solito saranno i lavoratori a pagarne le conseguenze perché se è vero che la ricorrenza merita la più ampia condivisione da parte di tutti, è anche vero che il metodo scelto per festeggiarla è l’ennesimo atto rivolto contro le libertà individuali e i diritti dei cittadini."

Lo dichiara Luca Marco Comellini, Segretario del Partito per la tutela dei diritti di militari e forze di polizia (Pdm)
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Consulente di Alemanno arrestato per legami con camorra

«Ci risiamo. Un altro uomo vicino al sindaco Alemanno, Giorgio Magliocca sindaco di Pignataro Maggiore (Caserta) ma anche consulente del sindaco di Roma è stato arrestato perché avrebbe consentito al clan camorristico Ligato-Lubrano di continuare a gestire beni che erano stati confiscati e che erano stati dati in gestione proprio allo stesso Pignataro».

«Siccome è successo tante altre volte, purtroppo, che persone che lavorano vicino al sindaco Alemanno vengono coinvolti in provvedimenti ed inchieste, anche molto pesanti, della Magistratura, chiediamo che il sindaco di Roma chiarisca al più presto anche questa vicenda del suo consulente. Vogliamo sapere da chi siamo governati». Lo dichiarano in una nota congiunta Marco Miccoli, segretario del Pd Roma e Franco La Torre, responsabile per la lotta all'infiltrazione mafiosa del Pd Roma. 

Una riforma al giorno toglie il giudice di torno



Le leggi “ad personam” hanno imbarbarito il sistema violando i principi fondamentali dell'ordinamento ma non sono servite a granché. L’ossessione del premier per i suoi processi non si è calmata, e poco sollievo gli è venuto dall’incessante azione di illustri avvocati che intrecciano la difesa privata con responsabilità istituzionali. Meglio lasciare da parte l’accetta che trancia di netto i delitti più “rischiosi”. Persino un’opinione pubblica assuefatta e ipnotizzata potrebbe a un certo punto svegliarsi. Invece delle brutali leggi “ad personam” si possono imboccare strade più elusive ma non meno efficaci. Per esempio qualche modifica della Costituzione che consenta al governo di condizionare la magistratura o addirittura di impartirle direttive.

Esattamente questa è la situazione che si avrà con la sedicente riforma della Giustizia (sobriamente denominata epocale...) che il Consiglio dei ministri ha messo in cantiere. Direttore dei lavori è un cavaliere/presidente che nello stesso tempo è imputato in vari processi. Un ossimoro? Forse, ma soprattutto un modo per regolare i conti con questa magistratura golpista ed eversiva che continua a coltivare un’assurda pretesa: chiedere conto anche al premier di azioni od omissioni che si presentino in contrasto con la legge penale. Ma anche a prescindere (e non si può) dalle vicende giudiziarie del premier e dalle sue ansie, è evidente innanzitutto che non si tratta di una riforma della Giustizia (l’inefficienza del sistema resterà tal quale), ma del tentativo di liberare il potere politico dal fastidio di aver a che fare con magistrati indipendenti. È poi impossibile ignorare un dato di fatto: il nostro – purtroppo – è tuttora un paese caratterizzato da un fortissimo tasso di illegalità che comprende una spaventosa corruzione, collusioni e complicità con la mafia assai diffuse, gravi fatti di mala amministrazione e fenomeni assortiti di malaffare.

Quasi sempre ci sono pezzi consistenti di politica coinvolti in tali vicende, per cui consentire loro (come avverrà con la pseudo-riforma della Giustizia) di pilotare la magistratura nel modo che ad essi più conviene sarebbe micidiale: per l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e per la stessa credibilità della nostra democrazia. In altre parole, grazie alla pseudo-riforma potrà dare ordini alla magistratura, stabilendo come e chi indagare, proprio quel potere politico che di solito – è storia – respinge i controlli di legalità relativi ai suoi esponenti, preferendo autoassoluzioni perpetue. Ad esempio minimizzando il gravissimo cancro della corruzione sistemica riducendolo (la tradizione al riguardo si è consolidata negli anni) ad isolate performance di “mariuoli” o “sfigati” di poco conto. E non è un caso che il presidente del Consiglio, presentando baldanzosamente la “sua” riforma, abbia dichiarato con candore che così Mani Pulite non ci sarebbe stata. Che se invece avessimo a che fare anche noi con politici capaci di dimettersi sol perché scoperti a copiare una tesi di laurea, allora potremmo pure discutere sull’opportunità o meno dell’opzione legata alla separazione delle carriere.

Per contro, la concreta realtà del nostro paese (ancora fuori degli standard delle democrazie occidentali per ciò che qui interessa) non ci consente assolutamente un simile lusso. Posto infatti che sempre – ovunque vi siano forme di separazione – il governo in un modo o nell’altro ha poteri direttivi sui pm, in Italia (nella situazione ancora attualmente data) il sistema sarebbe suicida, perlomeno finché certe decisive componenti della classe politica resteranno esclusivamente preoccupate della propria impunità. Sarebbe come affidare alle volpi la custodia del pollaio! Se poi la separazione delle carriere si combina (come previsto nella pseudo-riforma del governo) con altre misure mirate all’impunità dei potenti, ecco che il cerchio si chiude ed i giochi sono fatti.

Così, l’indebolimento dell’obbligatorietà dell’azione penale mediante liste, stabilite dalla politica, che distinguono quali reati perseguire e quali no; - il controllo delle attività investigative della polizia giudiziaria esercitato dal governo e non più dal pm; - la mortificazione del Csm a ruoli meramente burocratici; - la previsione di un Csm separato per i pm, così sottratti all’utile “koinè” con la magistratura giudicante; - il conferimento al Guardasigilli di un potere di ispezione e relazione sulle indagini destinato a funzionare come ponte verso la costruzione di un rapporto gerarchico con l’ufficio del pm; - una nuova disciplina della responsabilità dei magistrati che rischi di esporli a bufere scatenate strumentalmente, incompatibili con la serenità e l’autonomia della giurisdizione.

Son tutti interventi che univocamente convergono verso l’obiettivo di riservare al potere politico l’apertura o chiusura del “rubinetto” delle indagini, prevedendo per giunta forme indirette ma efficaci di dissuasione verso i pm che tardino a capire che conviene “baciare le mani” a chi può e conta, piuttosto che servire gli interessi generali. La posta in gioco è la qualità della democrazia. E forse è bene cominciare a rileggere quel passo di Calamadrei in cui sta scritto che “la libertà è come l’aria. Ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare, quando si sente quel senso di asfissia che gli uomini della mia generazione hanno sentito per vent’anni e che io auguro a voi di non sentire mai”









di Gian Carlo Caselli, Il Fatto Quotidiano

venerdì 11 marzo 2011

Abbandonato dallo Stato - Famiglia Manzella


"Sono Alessandro Manzella, un ragazzo 34enne disabile gravissimo tracheostomizzato, paralizzato a letto da quasi 23 anni; da qualche anno anche i miei occhi azzurri si sono spenti (non vedono più) e il mio fedele compagno di vita è un respiratore che accompagna le mie lunghe giornate praticamente 24 ore su 24.
Le scrivo questa mail per renderla partecipe della mia folle situazione; sono statoabbandonato da tutti, dalle Istituzioni e da qualsiasi ente, comunale, Statale, Regionale preposta al mentenimento del benessere e dello stato di salute della persona disabile. Non esiste alcun contributo economico versato a chi quotidianamente, amorevolmente mi assiste, ovvero i miei genitori.
I miei genitori hanno entrambi subito gravi e delicati interventi; mia padre l'asportazione di due tumori, mia madre, cardiopatica è stata sottoposta a un intervento cardiochirurgico.
Cosa dobbiamo fare per farci ascoltare? Come possiamo gridare il nostro dolore, la nostra sofferenza? Quanto dobbiamo aspettare perchè qualcuno si accorga della nostra tragica situazione? Dappertutto giornalisti, politici, direttori di giornali etc si ergono a paladini delle persone indifese, si appellano alla Costituzione per la tutela dei più deboli ma poi, chi fa davvero qualcosa, chi desidera spendersi davvero per rendere più vivibile e sopportabile la vita che noi disabili siamo costretti a vivere?
Magari potessero gli Italiani conoscere e partecipare a ciò che ha quotidianamente luogo nella mia camera dalle 7 di mattina fino alle 7 del giorno dopo e così via nei giorni, settimane, mesi, anni che seguono, in compagnia di respiratori, aspiratori, sterilizzatori, macchina per l'ossigeno etc.
Con la presente chiedo speranzoso di unirVi al nostro coro lanciando un appello affinchè, finalmente, qualcuno ci aiuti." Alessandro Manzella (manzella76@yahoo.it)
Intervista alla famiglia Manzella:
Sono Anna Manzella, sono la mamma di Alessandro Manzella, Alessandro è un ragazzo ora di 34 anni, a 12 anni circa è stato colpito da un cancro, un medulloblastoma al cervelletto, l’intervento che è stato sottoposto a suo tempo è andato benissimo, ma dopo qualche giorno è stata riscontrata che in sala operatoria ha contratto un’infezione rarissima, questa infezione si chiama il germe “Nocardia".

Soli, ogni santo giorno (espandi | comprimi)
Antonio: Ogni mattina iniziamo la pulizia personale dei piedi, gambe, dopo arriviamo al corpo, questo ogni giorno bisogna farlo. Questi lavori fino a novembre dell’anno scorso era fatto dal personale del comune. Un’ora in due persone perché c’è il problema che da solo una persona non riesce a movimentare Alessandro, allora c’è bisogno di due persone.
Anna: I signori dal camice bianco non hanno voluto confrontarsi con altri specialisti che avevano già curato questo germe, in pratica non avendolo curato, Alessandro me l’hanno consegnato come lo vedete.

I diritti e la dignità negati (espandi | comprimi)
Alessandro: Sono molto arrabbiato perché da novembre non viene più nessuno, né queli che mi lavavano e nessuna infermiera hanno infangato la costituzione, hanno infangato la costituzione dell’uomo, neghi il diritto dell’ uomo.


Lo Stato risponda (espandi | comprimi)
Sono Antonio Manzella il papà di Alessandro, faccio un appello a tutte le istituzioni perché venga risolto questo caso, fino adesso non sono riusciti a darci una spiegazione plausibile per risolvere le problematiche di nostro figlio, li ho anche sfidati in questo senso Anna: Questa ciliegina sulla torta è scoppiata ieri, è questo il culmine, ieri 7 marzo sono stata informata per via telefonica che hanno deciso di far seguire Alessandro da uno psicologo per 30 giorni, al quanto ho ribadito che invece di pensare a fare un’igiene personale a Alessandro, di lavarlo e di fargli avere le cure a cui ha diritto, si preoccupano di farlo seguire da uno psicologo per 30 giorni, ditemi voi se qua non siamo veramente andati fuori di testa!

Il caso Ruby e i teleprocessi del regime mediatico-totalitario

È difficile tenere testa alla successione delle cose grottesche di questi giorni.

Intervistata dal giornalista-gossip Signorini, la minorenne Ruby ha in sostanza negato di avere mai fatto sesso con il Presidente del Consiglio sicchè – ne arguiscono i giureinconsulti nostrani – non esisterebbe il reato di cui farneticano i pm “comunisti”.

Al di là dell’uso pretenzioso e mediaticamente astuto di termini del tutto impropri come “premier” o “capo del governo”, ignoti al nostro linguaggio costituzionale che conosce solo la figura del “Presidente del Consiglio”, quello che sconcerta sono le possibili conseguenze di una simile intervista.

Non è la solita campagna mediatica in difesa del cosiddetto “capo del governo”. Stavolta si è voluto fare un passo ulteriore nel precipizio, organizzando una scenografia di cartapesta in cui una testimone ha potuto presentare un racconto che sembra edulcorato o comunque differente rispetto a quello presente agli atti giudiziari.

In sintesi – al di là dei lustrini televisivi e del racconto strappalacrime della ragazzina con tanto di fidanzato d’ordinanza a fianco – rimane il dato tecnico che una persona informata sui fatti viene chiamata dalla televisione dell’indagato a rendere dichiarazioni favorevoli all’indagato stesso, e tutto ciò davanti ad un pubblico di qualche milione di telespettatori e con un procedimento penale in pieno corso.

La puntata successiva è prevedibile: uno stuolo di difensori-parlamentari chiederà a tempo debito l’acquisizione agli atti processuali delle varie videointerviste della ragazzina per accamparne l’inaffidabilità complessiva.

Intendiamoci, quella di minare la credibilità dei testi di accusa è una strategia difensiva del tutto legittima e frequentissima nei processi di tutto il mondo. Il problema però è che in questo caso non ci si limita a rilevare dall’esterno le incongruenze di dichiarazioni storicamente preesistenti rispetto all’attività di osservazione difensiva.

In questa vicenda è invece fortissimo il sospetto che un gigantesco sistema politico-mediatico-finanziario stia creando sotto i nostri occhi le condizioni tecniche affinchè le incongruenze nascano adesso e si rendano visibili adesso prima alla platea televisiva ed elettorale e poi anche in sede giudiziaria, con una evidente ed anomala partecipazione diretta al prodotto narrativo della testimone.

È vero o è finto il neofidanzato della ragazzina? E se – come è probabile – è un fidanzato reperito all’ occasione, chi l’ha reperito e chi è il suggeritore di tutto questo? È solo un caso che queste videointerviste vengano fatte e diffuse attraverso le televisioni che appartengono proprio a quell’indagato che ha tutto l’interesse al discredito della teste?

E se – per caso, per puro caso – la ragazzina riceve del denaro od altro per la partecipazione a queste trasmissioni, dove è il confine fra la semplice ricompensa per la comparsata televisiva e la vera e propria subornazione di teste, che nel nostro codice è reato?

Quanti spettatori ha avuto il “controinterrogatorio” di Signorini alla ragazza? Quale “share”? Quanta “audience”? E se per caso il “gradimento” è stato altissimo, ciò dimostra forse che il “popolo sovrano” ha già assolto gli indagati con una specie di teleprocesso? O che l’attività giudiziaria di quei magistrati è diventata “eversiva” perché non ha incontrato i favori del “popolo sovrano” medesimo, in nome del quale si fanno poi le sentenze?

Un gioco di prestigio continuo, che da anni ha sostituito il popolo col telepubblico ed i processi con i teleprocessi. E a proposito di sondaggi processuali, non è necessario rievocare il solito episodio di Gesù Cristo e Barabba.
Esempi più recenti si possono leggere perfino sulle pagine del Corriere della Sera:

“Delitto Chiara Poggi: dopo un anno di indagini la posizione di Alberto Stasi deve essere archiviata? Risultati: 78,7% NO; 21,3% SI”.
“Caso Lucidi: è giusta l’accusa di omicidio volontario? Risultati: 89,6% SI; 10,4% NO”.
Nessun sistema democratico può essere garantito in eterno davanti ad una simile opera di sistematica dissacrazione. E la tracimazione in un vero e proprio regime mediatico-totalitario è una prospettiva sempre più seria, anche alla luce della stagnazione economica persistente.

La storia europea già conosce esempi di regimi totalitari la cui nascita ha seguito ed accompagnato fenomeni di grave crisi economico-finanziaria. Senza arrivare alla Repubblica di Weimar, basti ricordare l’avvento della dittatura di Salazar nel Portogallo degli anni 30, fiaccato dagli scandali economici e dall’ inflazione.

Ora, il dissesto economico italiano dipende solo da fattori internazionali o c’entrano anche quelli interni e magari anche lo stesso livello di corruttela generalizzata? In tutti i paesi – dice per esempio il Fondo Monetario Internazionale – per ogni punto percentuale di aumento della pressione fiscale il flusso degli investimenti stranieri si riduce del 5%, per ogni grado di aumento del livello di corruzione la riduzione invece è del 16%.

L’ Italia, secondo i dati di Transparency International, è precipitata al 67° posto nella graduatoria dei paesi meno corrotti.
Nel 2008 l’Italia era al 55° posto. In due anni, il Paese ha perso ben dodici posizioni. Ma la cosa ancor più singolare è che nel 1992, quando la deriva affaristico-mafiosa sembrò toccare il suo livello massimo, l’Italia era “appena” al 30° posto. Trentasette posizioni perdute in diciotto anni sono il segno di una morte economica prima ancora che morale.

Se questo è vero, è giusto o no dire che anche l’enorme aumento della corruzione in questi anni ha contribuito alla nostra crisi, appunto, economica? E quanto è grande la responsabilità di una classe politica che della corruzione affaristica ha fatto la sua cifra identitaria o che – nella migliore delle ipotesi – ha solo pasticciato le cose?

Quanto è responsabile chi ha voluto il continuo indebolimento del sistema giudiziario con una delegittimazione scientifica ed irresponsabile dei giudici? E via via allargando il disastro, chi ha causato la progressiva sparizione del giornalismo d’inchiesta e l’asservimento economico della stampa libera? Chi si è tappato gli occhi davanti ad uno strapotere mediatico che ha addormentato per anni la società italiana impedendole di vedere la deriva autoritario-mafioso-gangsteristica di pezzi enormi della sua classe dirigente?

E non erano già queste le ragioni – e tante, tante altre – più che sufficienti per chiedere il ricambio totale di certa classe politica senza bisogno di aspettare lo scandalo Ruby? Dove il vero scandalo non sta nelle ragazzine osè ma nel fatto che solo con le ragazzine osè una pubblica opinione senza opinione ha cominciato ad accorgersi del crepuscolo della nostra democrazia.

“Nessun paese possiede una tradizione o una psicologia nazionale che renda il totalitarismo fatale”, diceva Ignazio Silone.
“Ma neanche che lo scarti”, aggiungeva. 

L’insostenibile deriva neoliberale delle socialdemocrazie europee

di Zygmunt Bauman, da "Social Europe Journal", traduzione di Laura Franza
Ma lo sanno i socialdemocratici a cosa mirano? Ce l'hanno una qualche nozione di una 'società giusta' per cui vale la pena lottare? Ne dubito. Credo non ce l'abbiano. In ogni caso non nella parte di mondo in cui viviamo noi. L'ex cancelliere tedesco Schroeder ne ha dato prova restando abbagliato di fronte alle proprietà di Tony Blair come a quelle di Gordon Brown e dicendo, solo pochi anni fa, che non esiste un'economia capitalista e un'altra socialista, l'economia è soltanto buona o cattiva. Per molto tempo, almeno gli ultimi trenta-quarant'anni, la politica dei partiti socialdemocratici si è andata articolando anno dopo anno con leggi neo-liberaliste, secondo il principio: "qualsiasi cosa voi (il centro-destra) facciate, noi (il centro-sinistra) possiamo farlo meglio".

A volte, anche se non molto spesso, qualche iniziativa particolarmente oltraggiosa e arrogante presa dai legislatori provoca uno spasimo nell'antica coscienza socialista. Allora in questi casi, senza alla fine combinare un gran che, si solleva la richiesta di una maggior compassione e una maggior lungimiranza nei confronti di "chi ha più bisogno" o di un "alleggerimento del carico" per "chi è più colpito" – ma di sicuro non prima di aver valutato le conseguenze in fatto di popolarità in caso di elezioni – e ancor più frequentemente mutuando frasi e termini dagli "avversari".

Questo stato di cose ha la sua ragion d'essere: la socialdemocrazia ha perso la sua specifica base costitutiva – le roccaforti e i baluardi sociali suoi propri, quelle aree popolate da gente, i destinatari finali delle azioni politico-economiche, che aspetta e spera di essere ridefinita o ricollocata, altrimenti che come una massa di vittime, in un integrato soggetto collettivo di interessi, agenda e organismo politici già di per sé. Tale base costitutiva è stata completamente polverizzata, trasformata in un aggregato di individui autoreferenziali ed egocentrici, in competizione per un lavoro o una promozione, con scarsa consapevolezza della propria appartenenza a un comune destino e una ancor minore inclinazione a serrare le fila e chiedere azioni solidali.

La 'solidarietà' è stato un fenomeno endemico di quella società dei produttori ormai finita; non è che un'illusione che si nutre di nostalgia nell'attuale società dei consumatori. I membri di questa gran bella nuova società sono noti per accalcarsi negli stessi negozi nello stesso giorno e alla stessa ora, sono guidati oggi "dall'invisibile mano del mercato" con la stessa efficienza di quando venivano ammassati nelle fabbriche davanti alle catene di montaggio dai padroni e dai loro supervisori prezzolati.

Ricollocati come consumatori in primo luogo e come produttori (neanche necessariamente) in secondo luogo, quella che una volta era la "base socialdemocratica" si è dissolta in mezzo a un aggregato di consumatori solitari, conoscendo come
unico "interesse comune" quello di "contribuenti".

Non c'è da meravigliarsi se quel che resta dei movimenti socialdemocratici ha focalizzato la sua attenzione sul "ceto medio" (or non è molto erano chiamate "classi medie"...) – e che si dedichi alla difesa dei "contribuenti" non più, apertamente, divisi dai propri interessi e diventando con ciò l'unico "pubblico" dal quale sembra plausibilmente possa ottenersi un sostegno elettorale solidale. Entrambe le parti dell'attuale scenario politico cacciano e pascolano sullo stesso territorio, cercando di vendere la propria "politica-prodotto" agli stessi clienti. Nessuno spazio per una "utopia a sé stante"! Non abbastanza, comunque nello spazio che separa un'elezione politica dall'altra...

"La sinistra – annotava José Saramago in data 9 giugno 2009 sul suo diario – "non sembra essersi accorta di essere diventata molto simile alla destra". Ed è successo proprio così, è diventata "molto simile alla destra".

giovedì 10 marzo 2011

Giustizia - Allacciate le cinture

Wikio

Allacciate le cinture: oggi prenderà forma la riforma. Anzi la madre di tutte le riforme, non a caso definita "epocale" dal presidente del Consiglio. Quella sulla giustizia, come sbagliarsi? Ma in realtà fin qui è stato epocale l'annuncio di questa rivoluzione normativa, nel senso che ci risuona nelle orecchie da un'epoca intera, da quando la seconda Repubblica ha mandato in cenere la prima. E il messaggero non è soltanto, fin dal 1994, Silvio Berlusconi: ci ha provato la Bicamerale di D'Alema, nei giorni del primo governo Prodi; ci ha riprovato il ministro Mastella, nelle notti del secondo governo Prodi.

Prova e riprova, tre lustri dopo ci sale in gola un fiotto di domande: sicuro che c'è bisogno di scomodare la Costituzione per curare i guai della giustizia? Sicuro che la prima riforma costituzionale da mettere in cantiere è proprio questa? E saranno davvero salutari i nuovi principi iniettati nella Carta?
Stando alle anticipazioni, la terapia verrebbe somministrata in sei dosi. Primo: via l'obbligatorietà dell'azione penale. Secondo: via il controllo delle toghe sulla polizia giudiziaria. Terzo: inappellabilità delle sentenze d'assoluzione. Quarto: una Corte di disciplina e uno specifico dettame sulla responsabilità dei magistrati. Quinto: separazione fra giudici e pm. Sesto: per corollario, separazione del Csm in due figli gemelli. Una cura da cavallo per procurare il sommo bene che il ministro Alfano non si stanca d'indicare: la parità fra accusa e difesa.
Peccato che la bontà sia già scolpita sulle tavole costituzionali. Precisamente all'articolo 111: «Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale». Ma se è per questo, la stessa norma - emendata dal centro-sinistra nel 1999 - promette la «ragionevole durata» dei processi, con il risultato che dal 2000 in poi i tempi processuali sono lievitati ulteriormente, ed è cresciuto d'una spanna pure l'arretrato (nell'ultimo anno il contenzioso civile in corte d'appello misura +4,8%).
Ecco infatti la prima insidia di quest'iniezione ri-costituente: che poi tutto rimanga sulla carta, corrodendo in ultimo la nostra vecchia Carta, svilendone l'autorità e il prestigio. Ma è ancora più grave il rischio d'annacquare l'indipendenza del potere giudiziario, sottoponendolo al controllo del potere esecutivo. Un solo esempio: chi disporrà in futuro delle indagini? Se la polizia giudiziaria diventasse un soldatino del governo verrebbe ferito il senso stesso della legalità, insieme all'eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge penale. Poi, certo, i principi di fondo cui s'ispira la riforma prossima ventura non meritano un'opinione dissenziente. Non è forse vero che il corporativismo, il correntismo, la fuga dalle responsabilità indicano altrettante malattie del corpo giudiziario? Di nuovo un solo dato: nel 2010 il Csm ha applicato misure cautelari in appena cinque casi, mentre dal 1988 in poi la legge sul risarcimento per gli errori giudiziari ha funzionato soltanto quattro volte, l'1% delle cause intentate.
Sennonché non basta volgere lo sguardo al cielo dei principi: dipende da come li applichiamo sulla terra. Chi non sarebbe d'accordo, per esempio, nel pretendere un'ottima istruzione per i giovani? Ma se i professori, anziché bocciare gli studenti impreparati, li punissero col taglio delle dita, allora sì, qualcuno avrebbe da ridire. Vale per la responsabilità dei magistrati, se diventa una spada di Damocle che ne paralizza l'azione. Vale per la separazione delle carriere, se lega i pm al guinzaglio del ministro. Vale per il doppio Csm, se raddoppia i posti lottizzati fra i partiti. E a proposito, chi ne sarebbe il presidente? Se a Napolitano restasse da guidare soltanto un mezzo Csm, significa che la riforma avrà generato un mezzo presidente.
E c'è poi l'altra faccia di questa medaglia giudiziaria. Meno monumentale, eppure di gran lunga più importante. È il lato dove si profilano riforme legislative, anziché costituzionali; oppure dove corrono interventi organizzativi, anziché normativi. Per esempio l'informatizzazione degli uffici giudiziari. Il loro sfoltimento (ne abbiamo in circolo 1.292, il doppio della Spagna). Una sforbiciata sui troppi procedimenti e riti (quelli civili sono 34). Un tappo al ricorso in Cassazione (in Italia deposita 30mila sentenze l'anno, in Inghilterra 75). Una ghigliottina per le nostre 40mila leggi, che rallentano i processi, e trasformano il diritto in una giocata a dadi. Magari queste riforme non aprirebbero al governo il pantheon della patria. Non regalerebbero a Berlusconi e ai suoi ministri un posto fra i nostri padri fondatori. Ma noi, figli disgraziati, gliene saremmo grati.

mercoledì 9 marzo 2011

PETIZIONE. Vaticano: Chiesa o Stato?


Firma la petizione


Perche' e' importante questa campagna
Sono gia' diverse centinaia le organizzazioni -e migliaia le persone- che nel mondo hanno dato il via a questa iniziativa per cambiare lo status della Chiesa Cattolica Romana in seno alle Nazioni Unite.
Il capofila di queste organizzazioni e' "Catholics for a Free Choice", negli Usa, con una campagna che ha chiamato "SeeChange", al cui invito alla mobilitazione abbiamo volentieri risposto, creando questo spazio per spiegarne i motivi e raccogliere adesioni che le inoltreremo.
Attualmente, in virtu' del fatto che la Chiesa cattolica Romana ha deciso di chiamarsi Stato del Vaticano, ha una posizione che non risponde al suo essere Chiesa, ma, per l'appunto, Stato. Per questo chiediamo al Segretario Generale dell'Onu di rivederne la partecipazione come "Stato non-membro, Osservatore Permanente". Crediamo che lo Stato del Vaticano -il Governo della Chiesa Cattolica Romana- dovrebbe partecipare alle Nazioni Unite cosi' come fanno le altre religioni del mondo, come organizzazione non-governativa.
Quali danni crea il fatto che questa importante istituzione religiosa abbia questo status particolare?
1 La liberta' religiosa e' in pericolo
Tutte le altre religioni che hanno una rappresentanza nell'Onu -come il Consiglio Mondiale delle Chiese- hanno lo status di organizzazioni non-governative. Nell'epoca in cui il fondamentalismo religioso ha fatto spazio a pluralismo, tolleranza e diritti umani delle donne, l'Onu mantiene una evidente separazione tra i credi religiosi e la sua politica internazionale.
Il cambiamento dell'attuale status del Vaticano assicurerebbe che la politica dell'Onu sia decisa solo dai Paesi.

2 Ogni anno 600 mila donne muoiono durante la gravidanza o per problemi connessi al parto
Nell'Onu aumentano le decisioni per prevenire queste morti. Ma il Vaticano -come Stato riconosciuto dalle Nazioni Unite- ha voce in capitolo in queste decisioni. E la usa per limitare le pianificazioni familiari e il ricorso all'aborto -anche in Paesi dove lo stesso e' legale, e c'e' un'emergenza contraccezione- anche per le donne che sono state rapite durante azioni di guerra.
Il cambiamento dell'attuale status del Vaticano salvera' la vita di queste donne.
3 Ogni anno 5,8 milioni di persone diventano sieropositive all'Hiv e 2,5 milioni muoiono per Aids
Nell'ambito dell'Onu, la Chiesa Cattolica Romana cerca sempre di bloccare quelle decisioni politiche internazionali per cui l'educazione all'uso del preservativo e' uno dei maggiori strumenti di prevenzione per l'Hiv/Aids.
Il cambiamento dell'attuale status del Vaticano ci farebbe assistere ad una inversione di tendenza della pandemia dell'Hiv/Aids. 

BRAVO SILVIETTO

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Finalmente, dopo 17 anni, B. ha fatto (o almeno annunciato che farà) una cosa normale: si presenterà in tribunale a difendersi nei (e non dai) suoi processi. E intanto ha stoppato la tragicomica iniziativa di uno dei suoi più fervidi cortigiani, Luigi Vitali: una leggina per accorciare vieppiù i termini di prescrizione dei reati se a commetterli è un incensurato ultrasessantacinquenne (l’amato Silvio va per i 75). Naturalmente il presidente del Consiglio non merita, per questo, alcun complimento: solo nel Paese di Sottosopra ci si meraviglia se qualcuno fa una cosa normale. Vedi gli elogi tributati ad Andreotti perché non insultò i giudici che lo processavano per mafia; e a Cuffaro che, condannato a 7 anni per favoreggiamento mafioso, è andato in carcere senza darsi alla latitanza. In ogni caso è giusto riconoscere che, dopo aver tentato di cancellare i suoi processi con una quarantina di leggi su misura, ed esservi in gran parte riuscito, il premier si è rassegnato all’idea di farsi processare. C’è voluto parecchio tempo, ma alla fine – salvo ribaltoni dell’ultima ora – ci è arrivato anche lui. La domanda, a questo punto, è semplice: perché l’ha fatto? Anzitutto, perché non aveva alternative. Nonostante il dispiegamento di forze politico-mediatiche messo in campo per delegittimare l’inchiesta sul caso Ruby, B. non è mai stato disarmato come in questa battaglia. Il conflitto di attribuzione fra poteri dello Stato alla Consulta per scippare il processo al Tribunale di Milano e dirottarlo al Tribunale dei ministri, previa autorizzazione a procedere della Camera (che la negherebbe su due piedi, come ha sempre fatto) è un fuciletto adacqua: l’ha spiegato il presidente Ugo De Siervo che non spetta alla Consulta, ma al giudice ordinario (Gip, Tribunale, Corte d’appello, Cassazione) stabilire se un reato è ministeriale o meno; e l’ha ribadito la Cassazione stessa, respingendo con perdite le pretese impunitarie di Mastella. In ogni caso il conflitto alla Consulta non bloccherebbe il processo Ruby, che andrebbe comunque avanti con la sfilata di papponi e Papi-girls, almeno fino alla vigilia della sentenza. Anche darsi alla fuga inventando “legittimi impedimenti” a raffica non servirebbe a nulla: dichiarando incostituzionale la legge sul legittimo impedimento, la Consulta ha stabilito che spetta al tribunale decidere, di volta in volta, se l’impedimento è reale e legittimo, il che significa che in molti casi le udienze si terrebbero in sua assenza. E comunque non gli conviene abusarne, visto che a giugno c’è il referendum dipietrista. Ma, soprattutto, c’è un attore che per 17 anni è rimasto assente nella guerra di B. alla magistratura: l’opinione pubblica. Che non è genericamente la “gente”, ma quei cittadini che, correttamente informati, fanno sentire la propria voce in piazza, sondaggi, elezioni. Grazie al monopolio berlusconiano dell’informazione, che ha provveduto a disinformare sui vari processi per corruzione, fondi neri, falso in bilancio, evasione fiscale, l’opinione pubblica s’è fatta idee confuse e spesso sbagliate dei fatti contestati (e in gran parte accertati) a carico di B. Ora, invece, la vicenda Ruby è di una tale semplicità che tutti han potuto comprenderla, anche senza e contro l’informazione di regime. Un vecchio malvissuto paga ragazzine in cambio di sesso e poi, quando una di esse – una prostituta marocchina minorenne senza documenti – viene fermata per furto, si attiva per farla rilasciare, spacciandola per la nipote di Mubarak, prima che parli. Ce n’è abbastanza perché persino a molti dei suoi elettori (per non parlare di quelli leghisti) salga il sangue alla testa. Quando i fatti nudi e crudi riescono a raggiungere i cittadini, il tiranno è spacciato. È questa improvvisa ventata di normalità che ha costretto B. a una condotta normale. Resta un grande rimpianto: quanti anni fa ci saremmo liberati di lui se informazione e opposizione avessero fatto il proprio mestiere?

martedì 8 marzo 2011

Ecco la festa dell'8 marzo fuori ma soprattutto dentro il Parlamento - Storie delle sorelle d'Italia

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«In bocca all'uomo, la parola 'femmina' suona come un insulto; eppure l'uomo non si vergogna della propria animalità, anzi è orgoglioso se si dice di lui: è un 'maschio'!». Era il 1949, Simone de Beauvoir (per autodefinizione non una femminista) lo scriveva nel suo saggio Il secondo sesso. Più di sessant'anni dopo sono innegabili alcune conquiste sul piano dei diritti, in ambito sociale, economico, nelle politiche, ma le speranze di uguaglianza restano lontane. Lo dicono chiaramente Istat e Eurostat che fotografano l'Italia come un paese ultimo nell'Quanto a donne e media il Senato è chiamato ad analizzare una mozione (prima firmataria la democratica Vittoria Franco) che impegna il governo «ad assumere le iniziative necessarie affinché il sistema radiotelevisivo pubblico, che rappresenta lo strumento principale di diffusione della conoscenza, svolga un'opera di sensibilizzazione al rispetto della diversità di genere e della dignità delle donne, finalizzata a una corretta rappresentazione della figura e del ruolo delle donne e alla rimozione di espressioni di discriminazione e degli stereotipi, lesivi della dignità delle stesse».

Fuori dai palazzi della politica è tempo di bilanci. Aspri per lo più
Sulla legge per le quote rosa nei Cda i commercialisti hanno preso posizione. «Se si riuscisse a salvarne l'impianto, difendendolo da quanti vogliono invece ridurne la portata - dice Giulia Pusterla, consigliere nazionale dell'ordine - sarebbe un modo per festeggiare l'8 marzo una volta tanto in maniera concreta, anziché con il ricorso ad un ormai purtroppo stanco e vuoto rituale».

L'8 marzo è considerato da Cgil medici «ancora amaro per le donne che in numero maggiore scelgono la professione di medico, sempre più rosa con oltre il 60% tra i nuovi laureati in medicina», con «il 37% di donne medico a tempo indeterminato, ma solo il 13% primari». Il rapporto di Manageritalia dice che le donne nel nostro paese «sono più istruite degli uomini e arrivano molto più dei colleghi alla laurea. Ma questo non basta a dare loro le stesse chance per arrivare ai vertici di aziende e società». «Prime per laurea (tra 30 e 34 anni sono il 23% e gli uomini il 15%), sono ultime come dirigenti (12%, 33% in Europa), membri cda (4,8% nelle società quotate in Borsa) e imprenditrici (23,3%)». 
Ugl, nella voce del suo segretario generale Giovanni Centrella, sostiene che «per l'8 marzo non c'è alcuna vuota, retorica rivendicazione da fare, solo atti concreti da realizzare, a partire dall'orario di lavoro e dalla conciliazione». Le donne delle Acli denunciano «le difficoltà ancora esistenti», ma rivendicano con orgoglio i «benefici» della partecipazione femminile al mondo del lavoro «per l'intera comunità nazionale».
ll miglior augurio che possiamo fare, dice Susanna Camusso, leader della Cgil, è che «cambiare si può». «Lo dimostra il 13 febbraio, quando le piazze italiane hanno detto che le donne non sono a disposizione né subiscono, hanno un grande orgoglio di sé e una rivendicazione di dignità».

Un'indagine di Ipsos Public Affairs per conto del sito web alfemminile.com vede speranze per il futuro: forse, tra vent'anni la situazione cambierà. Ma essere donna è più difficile che essere maschio.
Ne sa qualcosa Tiziana Ferrario che proprio alla vigilia dell'8 marzo riceve quello che considera «il regalo più bello dopo mesi di dolorosa solitudine e umiliazione come donna». Così la giornalista del Tg1 commenta la decisione del Tribunale di Roma che ha rigettato il reclamo proposto dalla Rai contro l'ordinanza che il 28 dicembre scorso aveva disposto il suo reintegro nelle mansioni di conduttrice del Tg1 e di inviata per i grandi eventi.

«150 anni: donne per un'Italia migliore» è il tema della cerimonia per la celebrazione istituzionale della Giornata Internazionale della Donna al Quirinale. Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, vuole sottolineare il ruolo delle donne nel Risorgimento, il loro contributo all'unificazione linguistica e culturale della nazione, alla conservazione del patrimonio culturale e civile, alla trasmissione dei valori alle giovani generazioni.
Michelle Bachelet, oggi a capo di Un Women, neonata organizzazione delle Nazioni Unite per ridurre le differenze di genere e accrescere il ruolo della donna nel mondo lancia un appello: «È tempo di realizzare le promesse sulle pari opportunità», «non possiamo permetterci di aspettare altri cento anni».

Se è vero come scriveva Simone de Beauvoir che «non si nasce donne: si diventa», dentro la società (almeno nel nostro paese), nonostante alcune buone intenzioni e certi proclami, siamo di fronte a un'evoluzione bislunga e rallentata. 
Basta dare un'occhiata alla ricerca 'Le donne nelle istituzioni rappresentative dell'Italia repubblicana: una ricognizione storica e critica', presentato alla Camera. Dalla quale emerge che sono ancora troppo poche le donne in Parlamento: 21 donne facevano parte della Costituente nel 1946, nel 1948 le senatrici erano l'1,7% e il 6,19 le deputate, nel 2008 il 18,32% sono le senatrici e il 20,95 % le deputate. «I sistemi politici nei quali le donne sono sotto-rappresentate sono da ritenersi sistemi democratici incompiuti», si legge nel rapporto, per il quale, nonostante un «sostanziale» aumento della presenza femminile in Parlamento, «le donne si trovano oggi ad esigere diritti già ottenuti, anche se messi a rischio dalla crisi economica e svalutati per via di nuovi patti politici che le escludono dagli affari politici quanto privati».Unione europea per partecipazione delle donne al lavoro.

Alla vigilia del centocinquantenario della Festa internazionale della donna i più la intendono come momento per rilanciare il dibattito per la creazione di un nuovo sistema e una nuova cultura. Perché - rendono bene l'idea le parole di Marina Calderone, presidente del consiglio nazionale dei consulenti del lavoro - «la garanzia delle pari opportunità sia un principio fondante e non un obiettivo da realizzare».

La prima a essere chiamata ai fatti è la politica. Quella appena cominciata è una settimana decisiva in Parlamento, al Senato in particolare, per i provvedimenti che riguardano le donne. Martedì in commissione Finanze si dovrebbe arrivare a un accordo definitivo sulla legge per le quote rosa nei cda e nei collegi sindacali delle società quotate e a controllo pubblico. In aula ci sono il ddl sulle detenute madri e la mozione su donne e sistema dei media. Sui primi due provvedimenti non mancano le polemiche.
L'esecutivo ha cercato sia di rallentare i tempi di entrata a regime della nuova regola (30% di donne nei Cda) che di ammorbidire le sanzioni. La mediazione con la commissione Finanze dovrebbe arrivare alla svolta. Nei giorni scorsi si è raggiunto un accordo sulle sanzioni: il governo aveva proposto diffida e sanzione pecuniaria (da 100 mila euro a 1 milione), ma senza decadenza del Cda, come invece previsto dal testo uscito dalla Camera. I passaggi previsti dal nuovo testo prevedono: diffida di quattro mesi, sanzione, diffida di tre mesi e infine decadenza del Cda.

Per le mamme in carcere la norma al vaglio di Palazzo Madama prevede che le madri con bimbi fino a 6 anni, se imputate, non possano essere sottoposte a custodia cautelare in carcere, «salvo che sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza». Per le condannate è prevista la possibilità, di scontare un terzo della pena ai domiciliari o in istituti di cura o a custodia attenuata purché non abbiano commesso particolari delitti (per esempio quelli connessi alla criminalità organizzata). Ma i radicali criticano la legge: «Non introduce grandi novità per via delle modifiche restrittive al testo originario che rischiano di vanificarne i contenuti innovativi e lasciare più o meno invariato il numero di bambini incarcerati con le loro mamme». 70 bambini almeno.
Quanto a donne e media il Senato è chiamato ad analizzare una mozione (prima firmataria la democratica Vittoria Franco) che impegna il governo «ad assumere le iniziative necessarie affinché il sistema radiotelevisivo pubblico, che rappresenta lo strumento principale di diffusione della conoscenza, svolga un'opera di sensibilizzazione al rispetto della diversità di genere e della dignità delle donne, finalizzata a una corretta rappresentazione della figura e del ruolo delle donne e alla rimozione di espressioni di discriminazione e degli stereotipi, lesivi della dignità delle stesse».

Fuori dai palazzi della politica è tempo di bilanci. Aspri per lo più
Sulla legge per le quote rosa nei Cda i commercialisti hanno preso posizione. «Se si riuscisse a salvarne l'impianto, difendendolo da quanti vogliono invece ridurne la portata - dice Giulia Pusterla, consigliere nazionale dell'ordine - sarebbe un modo per festeggiare l'8 marzo una volta tanto in maniera concreta, anziché con il ricorso ad un ormai purtroppo stanco e vuoto rituale».

L'8 marzo è considerato da Cgil medici «ancora amaro per le donne che in numero maggiore scelgono la professione di medico, sempre più rosa con oltre il 60% tra i nuovi laureati in medicina», con «il 37% di donne medico a tempo indeterminato, ma solo il 13% primari». Il rapporto di Manageritalia dice che le donne nel nostro paese «sono più istruite degli uomini e arrivano molto più dei colleghi alla laurea. Ma questo non basta a dare loro le stesse chance per arrivare ai vertici di aziende e società». «Prime per laurea (tra 30 e 34 anni sono il 23% e gli uomini il 15%), sono ultime come dirigenti (12%, 33% in Europa), membri cda (4,8% nelle società quotate in Borsa) e imprenditrici (23,3%)». 
Ugl, nella voce del suo segretario generale Giovanni Centrella, sostiene che «per l'8 marzo non c'è alcuna vuota, retorica rivendicazione da fare, solo atti concreti da realizzare, a partire dall'orario di lavoro e dalla conciliazione». Le donne delle Acli denunciano «le difficoltà ancora esistenti», ma rivendicano con orgoglio i «benefici» della partecipazione femminile al mondo del lavoro «per l'intera comunità nazionale».
ll miglior augurio che possiamo fare, dice Susanna Camusso, leader della Cgil, è che «cambiare si può». «Lo dimostra il 13 febbraio, quando le piazze italiane hanno detto che le donne non sono a disposizione né subiscono, hanno un grande orgoglio di sé e una rivendicazione di dignità».

Un'indagine di Ipsos Public Affairs per conto del sito web alfemminile.com vede speranze per il futuro: forse, tra vent'anni la situazione cambierà. Ma essere donna è più difficile che essere maschio.
Ne sa qualcosa Tiziana Ferrario che proprio alla vigilia dell'8 marzo riceve quello che considera «il regalo più bello dopo mesi di dolorosa solitudine e umiliazione come donna». Così la giornalista del Tg1 commenta la decisione del Tribunale di Roma che ha rigettato il reclamo proposto dalla Rai contro l'ordinanza che il 28 dicembre scorso aveva disposto il suo reintegro nelle mansioni di conduttrice del Tg1 e di inviata per i grandi eventi.

«150 anni: donne per un'Italia migliore» è il tema della cerimonia per la celebrazione istituzionale della Giornata Internazionale della Donna al Quirinale. Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, vuole sottolineare il ruolo delle donne nel Risorgimento, il loro contributo all'unificazione linguistica e culturale della nazione, alla conservazione del patrimonio culturale e civile, alla trasmissione dei valori alle giovani generazioni.
Michelle Bachelet, oggi a capo di Un Women, neonata organizzazione delle Nazioni Unite per ridurre le differenze di genere e accrescere il ruolo della donna nel mondo lancia un appello: «È tempo di realizzare le promesse sulle pari opportunità», «non possiamo permetterci di aspettare altri cento anni».

Se è vero come scriveva Simone de Beauvoir che «non si nasce donne: si diventa», dentro la società (almeno nel nostro paese), nonostante alcune buone intenzioni e certi proclami, siamo di fronte a un'evoluzione bislunga e rallentata.
Basta dare un'occhiata alla ricerca 'Le donne nelle istituzioni rappresentative dell'Italia repubblicana: una ricognizione storica e critica', presentato alla Camera. Dalla quale emerge che sono ancora troppo poche le donne in Parlamento: 21 donne facevano parte della Costituente nel 1946, nel 1948 le senatrici erano l'1,7% e il 6,19 le deputate, nel 2008 il 18,32% sono le senatrici e il 20,95 % le deputate. «I sistemi politici nei quali le donne sono sotto-rappresentate sono da ritenersi sistemi democratici incompiuti», si legge nel rapporto, per il quale, nonostante un «sostanziale» aumento della presenza femminile in Parlamento, «le donne si trovano oggi ad esigere diritti già ottenuti, anche se messi a rischio dalla crisi economica e svalutati per via di nuovi patti politici che le escludono dagli affari politici quanto privati».


Poveri noi, povera Italia

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Nell'ultimo saggio di Marco Revelli l'analisi di un Paese estremamente fragile, dove crescono paurosamente povertà e insoddisfazione. Un Paese nel cui ventre profondo domina un sentimento che serve a spiegare molti dei fenomeni sociali e politici ai quali stiamo assistendo: il rancore.

di Emilio Carnevali
È una sorta di rituale al quale deve sottoporsi più o meno ogni italiano che si reca all'estero, un po' come il controllo del passaporto allo sbarco di qualche aeroporto straniero. È la fatidica domanda: «Come è possibile che Mr. Berlusconi sia ancora lì al suo posto? Come fanno gli italiani a tollerare tutto questo?». Non è facile rispondere a questo interrogativo e, sopratutto, rispondere nel modo corretto, sfuggendo il fatale pericolo di una superficiale e accigliata presa di distanza – le braccia allargate del “buon democratico” incredulo per la “coglionaggine” dei propri concittadini - che elude la comprensione di movimenti sociali assai complessi ed articolati.

Per questo motivo risulta di estremo interesse l'analisi sviluppata da Marco Revelli in Poveri Noi (recentemente pubblicato da Einaudi), piccolo ma preziosissimo saggio nato dal lavoro della Commissione d'indagine sull'esclusione sociale che lo studioso piemontese ha presieduto fra il 2006 e il 2010. L'Italia raccontata da Revelli è un paese distante anni luce da quello ricco e gaudente che caratterizza l'autorappresentazione collettiva non solo nell'artefatto mondo dei reality televisivi.

È un paese fragile, dove cresce paurosamente l'esposizione alla povertà delle famiglie – sopratutto quelle con figli, nonostante la dilagante retorica familista che si risuona nella “narrazione ufficiale” - e dove i ceti medi con «aspettative da consumatori ricchi» ancora non hanno “metabolizzato” il cambiamento epocale che ne ha riconfigurato il ruolo sociale (avvento del post-fordismo, apertura internazionale dei mercati, fine del percorso ascendente del “lavoro” che ha caratterizzato il Novecento e le sue lotte).

«È in questo campo di forza disteso fra i poli opposti della rappresentazione e della realtà», spiega Revelli, «dell'aspettativa opulenta e dell'esperienza dell'indigenza e dell'inadeguatezza, che si condensa il rancore. Il sentimento, cioè, di un'attesa legittimamente tradita». È proprio il dilagare del rancore alla base di quell'«indurimento del carattere» che ha trasfigurato il volto del nostro Paese fino a renderlo quasi irriconoscibile, fra una crescente «intolleranza per le debolezze dei deboli» e un parimenti crescente «eccesso di tolleranza per i vizi dei potenti».

Secondo Revelli questo rancore si fonda sulla «sensazione di un'espropriazione indebitamente subita, la quale non trova tuttavia né il proprio oggetto né il proprio contesto, e neppur il linguaggio pubblico condiviso – tra i tanti linguaggi pubblici novecenteschi – capace di dare razionalità rivendicativa al discorso, quando il racconto prevalente è un altro. E non lascia altro spazio al senso d'ingiustizia subita, che la rielaborazione in solitudine, in un'invettiva senza parole la quale, proprio perché muta, richiede per alimentarsi sentimenti forti, elementari, 'caldi': odio, rancore, amore, terra, radici, fondamenti».

Da qui il fascino perverso che suscitano le prole d'ordine del neopopulismo, l'unica narrazione collettiva che appare in grado di parlare al ventre profondo della società nel quale trovano incubazione i sentimenti appena descritti. Ma quali sono gli elementi del populismo contemporaneo? Proviamo a sintetizzare il ragionamento svolto da Revelli attraverso una classificazione molto schematica.

1) La sostituzione del principio “novecentesco” dell'uguaglianza – principio ai giorni nostri sempre più disertato da società sempre più disuguali – con quello post-moderno della “distinzione” e del “distanziamento”. All'interno di questo nuovo paradigma il conflitto non si sviluppa più dal basso verso l'alto ma orizzontalmente, verso i pari grado, o meglio verso chi si trova solo poco al di sotto del proprio status materiale e simbolico: “Perché loro sì e noi no?”, è la domanda che riecheggia dalle borgate in rivolta verso gli insediamenti rom autorizzati dal comune o le varie ondate di migranti che competono con gli “autoctoni” sullo stesso segmento di lavoro non qualificato.

2) La riscoperta della territorialità, delle radici, del suolo dei padri come risposta all'atomizzazione della vita sociale, alla distruzione dei luoghi classici di aggregazione e ritrovo in periferie immolate ai grandi templi del consumo e alla loro inumana “urbanistica moto-televisiva” (a casa davanti alla televisione o in macchina al centro commerciale, tertium non datur). È questo il tribalismo post-moderno sul quale ha costruito le sue fortune un partito come la Lega Nord.

3) La proposta di un neocomunitarismo capace di sostituire alla retorica astratta dei diritti il caldo legame delle relazioni primarie («la parentela, il legame solidaristico a stretto raggio, ridotto al nucleo parentale, chiamato a riempire i vuoti lasciati da una statualità in ritirata», scrive Revelli).

Di qui il più generale riconfigurarsi dei legami sociali attraverso le dinamiche della “protezione” (dall'alto verso il basso) e della “fedeltà” (dal basso verso l'alto), l'«esasperazione di quella tendenza al 'familismo amorale' che appartiene endemicamente alla tradizione italiana, nella forma, ben conosciuta, di un sostanziale egoismo di gruppo e di una reiterata amnesia della dimensione pubblica».

Con lo stesso modello si spiega anche - ma qui ci allontaniamo dalla lettera del testo e procediamo secondo libere associazioni del tutto personali - la tolleranza verso il neofeudalesimo criminale che informa la gestione della pubblica amministrazione così come ci è stato rivelato dai recenti scandali della varie “cricche”.

E allo stesso modo si spiegano i clamorosi successi di tutte quelle campagne promosse da Berlusconi per proteggere la “roba” delle famiglie dalla indebita confisca che il Leviatano della burocrazia statale vorrebbe operare: si ricordino ad esempio la battaglia per l'abolizione dell'imposta di successione (principio eminentemente liberale definito come la «più odiosa di tutte le tasse» dal nostro presidente del Consiglio, per altro multimiliardario), per l'abolizione dell'Ici sulla prima casa (il santuario e il forziere della famiglia italiana per antonomasia), nonché la recente e tuttora in corso campagna contro l'imposta patrimoniale che i “comunisti” imporrebbero nel caso tornassero al governo, gli stessi comunisti che da sempre vogliono «mettere le mani nelle tasche degli italiani».

Ma il saggio di Revelli è anche un grande atto d'accusa nei confronti della sinistra, ovvero di quella parte politica che nella storia ha svolto proprio il ruolo di trasformare il legittimo rancore degli oppressi in una forza di emancipazione collettiva con obiettivi universali. Descrivendo la retorica lavorista che caratterizza il linguaggio politico della Lega, Revelli parla di «un residuo solido del lavorismo di ieri senza l'orizzonte del trascendimento che l'aveva animato. La ferocia del lavoro senza la speranza dell'emancipazione. La forza inerte della 'cosa' che sussume a sé la 'persona'. Aver chiuso quell'orizzonte, aver spento quella scintilla – o aver lasciato che ciò avvenisse – è il peccato capitale delle diverse sinistre politiche e sindacali di fine secolo. Su quello – più che sulla caduta del muro di Berlino – si misura la loro disfatta. La loro ‘uscita dalla storia’».