lunedì 24 dicembre 2012

Libertà è partecip/Azione diretta: Un anarchico dimenticato - Nestor Machno

Libertà è partecip/Azione diretta: Un anarchico dimenticato - Nestor Machno: Nestor Machno nasce a Huljaj Pole nel distretto di Aleksandrovsk in Ucraina, il 27 ottobre 1889. Discendente da una famiglia di umili co...

BUON NATALE !!!

Gesëebende Kersfees
Een Plesierige Kerfees
Gezur Krislinjden
Rehus-beal-ledeats
I'd milad said oua sana saida
Idah Saidan Wa Sanah Jadidah
Feliz Navidad Y felices año Nuevo
Shenoraavor Nor Dari yev Pari Gaghand
Tezze Iliniz Yahsi Olsun
Selamat Hari Natal
Heughliche Winachten un 'n moi Nijaar
Zorionak eta Urte Berri On!
Shuvo Naba Barsha
Vesele Vanoce
Boas Festas e Feliz Ano Novo
Nedeleg laouen na bloavezh mat
Tchestita Koleda; Tchestito Rojdestvo Hristovo
Bon Nadal i un Bon Any Nou!
Yukpa, Nitak Hollo Chito
Feliz Navidad
Kung His Hsin Nien bing Chu Shen Tan
Gun Tso Sun Tan'Gung Haw Sun
Feliz Navidad y próspero Año Nuevo
Sung Tan Chuk Ha
Nadelik looan na looan blethen noweth
Pace e salute
Rot Yikji Dol La Roo
Mitho Makosi Kesikansi
Sretan Bozic
Prejeme Vam Vesele Vanoce a stastny Novy Rok
Glædelig Jul
Christmas-e- Shoma Mobarak
Mo'adim Lesimkha. Chena tova
Rehus-Beal-Ledeats
Jutdlime pivdluarit ukiortame pivdluaritlo!
Gajan Kristnaskon
Ruumsaid juulup|hi
Gledhilig jol og eydnurikt nyggjar
Cristmas-e-shoma mobarak bashad
Zalig Kerstfeest en Gelukkig nieuw jaar
Maligayan Pasko
Hyvaa joulua
Joyeux Noel
Legreivlas fiastas da Nadal e bien niev onn
Noflike Krystdagen en in protte Lok en Seine yn it Nije Jier!
Bo Nada
Nollaig chridheil agus Bliadhna mhat ùr!
Nadolig Llawen
Shinnen omedeto. Kurisumasu
Kala Christouyenna!
Barka da Kirsimatikuma Barka da Sabuwar Shekara!
Mele Kalikimaka
Shub Naya Baras
Mithag Crithagsigathmithags
Selamat Hari Natal
Merry Christmas
Nollaig Shona Dhuit, o Nodlaig mhaith chugnat
Ojenyunyat Sungwiyadeson honungradon nagwutut, Ojenyunyat osrasay
Gledileg Jol
Buon Natale o Buone feste natalizie e Buon Anno nuovo
Natale hilare et Annum Faustum
Prieci'gus Ziemsve'tkus un Laimi'gu Jauno Gadu!
Linksmu Kaledu
Wjesole hody a strowe nowe leto
Sreken Bozhik
Selamat Hari Natal
LL Milied Lt-tajjeb
Nollick ghennal as blein vie noa
Meri Kirihimete
Shub Naya Varsh
Prejeme Vam Vesele Vanoce a stastny Novy Rok
Merry Keshmish
God Jul o Gledelik Jul
Pulit nadal e bona annado
Vrolijk Kerstfeest en een Gelukkig Nieuwjaar! or Zalig Kerstfeast
Bon Pasco
Bikpela hamamas blong dispela Krismas na Nupela yia i go long yu
Christmas Aao Ne-way Kaal Mo Mobarak Sha
En frehlicher Grischtdaag un en hallich Nei Yaahr!
Feliz Navidad y un Venturoso Año Nuevo
Wesolych Swiat Bozego Narodzenia or Boze Narodzenie
Boas Festas e Feliz Natal
Mata-Ki-Te-Rangi. Te-Pito-O-Te-Henua
Bellas festas da nadal e bun onn
Sarbatori vesele
Pozdrevlyayu s prazdnikom Rozhdestva is Novim Godom
Hristos se rodi
Buorrit Juovllat
La Maunia Le Kilisimasi Ma Le Tausaga Fou
Bonu nadale e prosperu annu nou
Nollaig chridheil huibh
Subha nath thalak Vewa. Subha Aluth Awrudhak Vewa
Vesele Vianoce o Sretan Bozic. A stastlivy Novy Rok
Vesele Bozicne. Screcno Novo Leto
Feliz Navidad
God Jul and (Och) Ett Gott Nytt År
Maligayamg Pasko. Masaganang Bagong Taon
Sawadee Pee Mai
Nathar Puthu Varuda Valthukkal
Froehliche Weihnachten
Neekiriisimas annim oo iyer seefe feyiyeech
Noeliniz Ve Yeni Yiliniz Kutlu Olsun
Srozhdestvom Kristovym
Kellemes Karacsonyi unnepeket
Naya Saal Mubarak Ho
Chung Mung Giang Sinh
E ku odun, e ku iye 'dun
Cestitamo Bozic

domenica 23 dicembre 2012

Il colpo di stato di Mario Monti

Paolo Becchi

  Il governo Monti è destinato a «passare alla storia» più di quanto non lo sia il decennio berlusconiano appena trascorso. Ciò che, infatti, è avvenuto con il conferimento dell’incarico ad un tecnico di Bruxelles non è stato che un "coup d’état" deciso da «poteri forti» in parte estranei al nostro Paese e guidato dal presidente della Repubblica.

  Certo non un colpo «alla sudamericana», un golpe, con tanto di ingresso di fucili e militari nell’emiciclo del Parlamento. «Colpo di Stato», del resto, non indica di per sé un rivolgimento violento, quanto un’«esecuzione che precede la sentenza», come lo definì il libertinoNaudé, che coniò l’espressione a metà del Seicento.

  Cosa significa? E cosa è accaduto in Italia, in questi mesi? Semplicemente quello che tutti (o quasi) si ostinano a negare. È accaduto che, con una manovra di palazzo, è stata realizzata la transizione costituzionale dalla Seconda alla Terza repubblica, da un sistema politico bipolare ad un ridimensionamento del potere dell’Assemblea a favore del presidente della Repubblica, dal parlamentarismo ad un presidenzialismo ancora da definire nei suoi contorni istituzionali, ma di fatto già all’opera con questo «governo del presidente». Non vi è infatti alcun dubbio sul fatto che il capo dello Stato da «custode della Costituzione» si è trasformato in guida politica dello Stato.

  Si doveva, ovviamente, iniziare con l’eliminazione di Berlusconi, il quale - a dispetto delle apparenze - è stato in Italia colui che ha compiuto, e parimenti portato alla sua dissoluzione, il potere parlamentare: mai il nostro Parlamento era stato più potente e, nel contempo, più bloccato. Il rovesciamento di questo potere è cominciato con un tentativo di erosione dall’interno: Gianfranco Fini. Si è poi tentato con l’assalto alla vita privata del capo del Governo, ma anche questo si è rilevato insufficiente. Berlusconi è stato, infine, sconfitto, per una sorta di quelle ironie della storia che sono tutt’altro che infrequenti, sul reale campo dal quale dipendeva: gli affari. Si è puntato alla rovina del fondamento economico del suo potere, attaccando le sue aziende e l’intera economia del Paese con lo spread aumentato ad arte (lo spread è iniziato a salire dai primi giorni di luglio, 244. È poi ridisceso, senza mai tornare ai valori di luglio, ad agosto, 298. Poi non si è più fermato. Punto massimo, la seconda settimana di novembre, 553). 

  Berlusconi non ha reagito. Giulio Cesare lo avrebbe fatto se, come racconta Svetonio, ai giovani indebitati consigliava: «Per il vostro caso il rimedio è la guerra civile». Ma, se in Cesare - come scrive ancora Svetonio - «c’erano molti Marii» (multos Marios inesse), in Berlusconi ce n’era solo uno, di Mario: Monti. 

  Monti sapeva benissimo che la sua entrata in campo poteva avere successo solo se lo spread continuava a salire: e infatti lo spread è salito. Ed il «colpo di Stato» è riuscito. Il potere parlamentare è stato portato al punto in cui si è rovesciato in modo indolore, con il suo stesso consenso. Si è così perfezionato il potere esecutivo, il quale è sorto in modo parassitario e antidemocratico come parassitario è, del resto, la base su cui poggia: l’aristocrazia finanziaria, la quale - a differenza della borghesia industriale - nelle sue forme di guadagno e nei suoi piaceri non è che «la riproduzione del sottoproletariato alla sommità della società borghese», come aveva genialmente intuito Carlo Marx

 Strane corrispondenze della storia, quando Marx descrive i poteri della Francia di Luigi Filippo, in cui «l’indebitamento dello Stato era l’interesse diretto della frazione della borghesia che governava e legiferava per mezzo delle Camere. Il disavanzo dello Stato era infatti il vero e proprio oggetto della sua speculazione. Dopo quattro o cinque anni un nuovo prestito offriva all’aristocrazia finanziaria una nuova occasione di truffare lo Stato che, mantenuto artificiosamente sull’orlo della bancarotta, era costretto a contrattare coi banchieri alle condizioni più sfavorevoli”.

  Certo, dobbiamo sostituire la parola «borghesia» (in Italia, del resto, c’è mai stata una borghesia?). Ma per il resto, dunque, niente di nuovo o quasi sotto il sole. Finora banchieri e finanzieri (Monti & Company) si erano limitati a governare indirettamente, nascondendosi dietro la maschera della rappresentanza dei politici, oggi hanno preso il posto ufficiale di questi ultimi: sono loro non più a ispirare, ma a governare.

  Bisognava però almeno salvare le apparenze. Con un atteggiamento tipico di tutti i «catilinari», la preoccupazione maggiore di Monti è stata quella di conquistare il potere con mezzi legali. In un’opera di Brecht, anche il capo di una banda di gangster comanda ai suoi seguaci: «Il lavoro dev’esse legale». A ben vedere, è tutto già spiegato nel pamphlet avanguardistico del 1931 di Curzio Malaparte, “Tecnica del Colpo di Stato”. Con la repentina nomina a senatore a vita (Paolo Emilio Taviani, nella Prima Repubblica, ci impiegò un anno e mezzo, il tecnico un paio di ore) Monti ha potuto, oltre che garantirsi l’immunità a vita, legittimarsi quale espressione, in qualche modo, della stessa Assemblea. Ed è così che il Parlamento diventa complice necessario del colpo di Stato: accetta il fatto compiuto, e lo legalizza formalmente. Come nella strategia bonapartista - cito ancora Malaparte - l’«obiettivo tattico» resta la conquista dello Stato attraverso il Parlamento, ossia attraverso la legalità (la farsa, a questo punto, del voto di fiducia, bulgaro, tipico dei regimi totalitari). Deve cadere un’ultima illusione: quella del presunto «stato di necessità» che avrebbe reso indispensabile questo colpo di Stato, come se si trattasse di una misura per la salus rei publicae (ndr: la salute della cosa pubblica). Come spiegava Malaparte, le circostanze favorevoli al colpo di Stato moderno non sono necessariamente di natura politica o sociale: nell’epoca della tecnica, il colpo di Stato è un problema eminentemente tecnico.

  Nel nostro caso, «tecnico» non significa di «tattica insurrezionale », ma che la riuscita di un colpo di Stato dipende dal coordinamento tecnico di decisioni prese al livello di quei poteri forti invisibili, impalpabili, ma onnipresenti, che ormai intervengono nella vita dei popoli quando e come vogliono. Nel momento in cui il potere politico si livella su quello finanziario, il colpo di Stato diventa sempre possibile, e a tal punto facile da realizzarsi che quasi nessuno se n’è reso conto(*).

n.b.: perché, se le cose le scrive un filosofo del diritto su un quotidiano vanno bene, mentre se le scrivo io, per Pigi Battista sul Corriere sono il più grande complottista del secolo

venerdì 21 dicembre 2012

Musica dietro le sbarre - micromega-online - micromega

I Sex Pistols, arrestati in massa per la loro performance beffarda nei confronti della Regina. Poi ancora le Pussy Riot, Patty Pravo, David Bowie e tanti altri racconti. Nel libro “Jailhouse rock. 100 musicisti dietro le sbarre” due attenti osservatori del carcere si focalizzano su un aspetto ai più sconosciuto. In un momento in cui nelle galere nostrane regna l’inciviltà.

di Giacomo Russo Spena
I numeri della vergogna. Oggi in carcere ci sono 67mila detenuti, solo 47mila i posti a disposizione. Celle da cinque metri quadri per tre persone. Condizioni igieniche pessime. Un tasso di sovraffollamento pari al 142,5 per cento (oltre 140 detenuti ogni 100 posti), mentre la media europea è del 99,6. Ad un mese dalla fine dell'anno, 93 sono i detenuti morti in carcere, di cui 50 per suicidio. E pensare che Voltaire misurava la civiltà di un Paese dalle sue carceri. L’Italia in tal senso è barbara e cieca.

Di fronte a tale emergenza non si riescono a prendere misure adeguate come l’abrogazione di quelle leggi causa del sovraffollamento: la Bossi-Fini sull’immigrazione, la Fini-Giovanardi sulle droghe e la ex-Cirielli sulla recidività in primis. Poco o niente ha risolto il ministro Severino. E intanto Marco Pannella è in fin di vita chiedendo l’amnistia e più in generale ponendo l’attenzione sul dramma carcerario. Proprio due persone dell’associazione Antigone che si battono contro la vergogna della patrie galere hanno focalizzato un aspetto specifico della prigione: ma davvero esistono anche cento musicisti che hanno varcato la soglia del carcere? Viene da chiederselo, leggendo il libro “Jailhouse rock. 100 musicisti dietro le sbarre”, di Patrizio Gonnella e Susanna Marietti (Arcana Editrice). 

“Non c’è mestiere più rischioso di quello del musicista”, si legge nel retro della copertina. E non solo dalla musica rock, l’ambiente trasgressivo per antonomasia del nostro mondo, provengono le storie qui raccolte. Anche il jazz, il blues, il country, il soul, la dance music e perfino la musica leggera hanno visto dietro le sbarre autorevoli rappresentanti. Uno spaccato, quindi, particolare e mai analizzato del carcere.

I due autori raccolgono cento storie tra le tantissime che potevano raccontare. La scelta incrocia vari e differenti fattori, così da riportare un panorama variegato di avvenimenti. Epoche musicali diverse e diversi Paesi, tipologie di reato variopinte, modalità di esecuzione della pena differenti. La tromba di Chet Baker lasciata a svernare nel carcere di Lucca, dove il grande jazzista la suonava nel chiuso della cella. “La sera, quando la città si faceva silenziosa, questa musica riempiva l’aria. Le persone andavano sotto le mura della prigione per ascoltarla. Ci fu addirittura un appassionato, proprietario di un negozio di musica da quelle parti, che si appostò con un mangianastri e registrò un bootleg”. L’attivista Joan Baez, arrestata durante una protesta contro la guerra in Vietnam, mentre tentava di impedire ai giovani di arruolarsi. È nella prigione dove fu rinchiusa che conobbe il suo futuro marito.

Ozzy Osbourne, cui la moglie aveva nascosto i vestiti per impedirgli di uscire a comprare alcol, che fu arrestato in abito da donna mentre faceva la pipì sul monumento nazionale texano per eccellenza, l’Alamo. Il grande musicista nigeriano Fela Kuti, padre dell’afrobeat e attivista contro il potere militare. I Sex Pistols, arrestati in massa per la loro performance beffarda nei confronti della regina. E ancora i tre Beatles su quattro che hanno conosciuto la galera, le Pussy Riot che la conoscono ancora oggi, Roberto Murolo che ha visto la carriera bloccata da un’accusa infondata di pedofilia, Patty Pravo che cantava le sue canzone per allietare le compagne di Rebibbia.

Fino ai drammatici episodi che hanno coinvolto i cantautori sudamericani nei tempi delle dittature. Il più drammatico, quello di Victor Jara imprigionato nello stadio di Santiago il giorno del golpe di Pinochet e lì dentro torturato a morte.
“Jailhouse rock” attraversa i decenni e i continenti, tra eventi tragici e accadimenti ironici. Le storie che racconta si tirano l’una con l’altra nella lettura, per la curiosità che insorge attorno ai grandi personaggi che hanno per protagonisti nel momento a volte canzonatorio e a volte troppo serio del loro incontro con la giustizia. Sullo sfondo di questi racconti, si legge la storia con la esse maiuscola, quella che ha attraversato il nostro mondo dal dopoguerra a oggi, fuori della musica e al suo interno, con le trasformazioni e il ruolo sociale che essa ha nel tempo acquisito, perso, trasformato.

Questo libro nasce da una trasmissione radiofonica che porta il medesimo titolo, in onda settimanalmente su Radio Popolare e giunta ormai alla sua terza stagione. Una trasmissione musicale, ma anche una trasmissione attenta a quel che accade dietro le sbarre. E non soltanto alle rockstar. Patrizio Gonnella e Susanna Marietti sono da molto tempo impegnati con l’associazione Antigone nella tutela dei diritti umani all’interno delle carceri. Alla trasmissione collaborano due redazioni di detenuti che lavorano dentro Roma Rebibbia e Milano Bollate. Ogni settimana realizzano un giornale radio dal carcere (Grc) in onda all’interno di “Jailhouse rock”. Da Bollate, inoltre, una band di detenuti esegue in ciascuna puntata una cover dell’artista di volta in volta trattato. Una collaborazione virtuosa, che in una trasmissione allegra e musicale è riuscita a dare voce a chi di solito si usa far stare in silenzio.

Monti, Berlusconi e la società senza stato - micromega-online - micromega

Monti, Berlusconi e la società senza stato - micromega-online - micromega

sabato 8 dicembre 2012

Pappa & ciccia



Per vent’anni Berlusconi ha preso per i fondelli gli italiani. Gli è andata bene e ci vuole riprovare. Bisogna essersi allenati per anni a raccontare balle e a dire il contrario di quello che si era detto il giorno prima per azzerare l’orologio e provare a passare come nemico del governo Monti e delle leggi con cui ha messo l’Italia in ginocchio. La verità è proprio l’opposto. Tutte le peggiori leggi di Monti sono o in continuità con quelle che aveva già fatto Berlusconi, come l’attacco alla scuola pubblica e la cancellazione del contratto collettivo di lavoro, oppure sono leggi che Berlusconi voleva fare, ma non ne ha avuto la forza, come la cancellazione dell’articolo 18. Il governo Monti è figlio di Berlusconi, in tutti i sensi. L’ex presidente del Consiglio ha permesso che nascesse l’esecutivo dei tecnici, dopo aver perso la faccia in giro per il mondo. Era troppo compromesso, infatti, sia per restare al governo sia per andare alle elezioni subito. E’ inutile che adesso lui e i suoi maggiordomi ci vengano a raccontare che lo hanno fatto per senso di responsabilità.
Per un anno il Pdl ha votato tutte le leggi di Monti contro i lavoratori e contro il ceto medio, senza che sia stata sollevata mezza protesta. Non c’è tassa, non c’è pensione rinviata di anni, non c’è diritto cancellato che non portino la firma di Berlusconi Silvio, vicino a quella di Monti Mario. Il Pdl non ci ha pensato per niente. Anzi, come ha detto oggi in aula Alfano, fosse stato per loro quelle leggi dovevano essere ancora più dure e più ingiuste. In compenso Berlusconi ha impedito a Monti di fare anche il poco di buono che avrebbe potuto fare. Sulla politica economica, infatti, non è che ci si potesse illudere troppo. Era il governo dei banchieri e della finanza, ovvio che facesse leggi pensando solo ai vantaggi delle banche e dei finanzieri. Ma sulla giustizia e contro i privilegi della Casta qualcosina, fosse stato per lui, forse Monti l’avrebbe fatta. Se non ha fatto assolutamente niente, se ha varato una legge contro la corruzione che farebbe ridere se non facesse piangere, se le sue norme sull’incandidabilità dei condannati servono solo a fare candidare proprio tutti, cani e porci, la colpa è del ricatto a cui è stato sottoposto da parte di Berlusconi e dell’intero Pdl. Adesso, arrivati alla fine della legislatura e con tutti i danni già fatti, Berlusconi sostiene di essere il nemico delle politiche di Monti. Ma ci faccia il piacere, come direbbe Totò.
Il futuro di questo Paese si gioca davvero sulla continuità o discontinuità con l’attuale esecutivo. Per questo noi dell’Italia dei Valori confermiamo che appoggeremo solo chi si impegnerà a cambiare drasticamente strada. Ma una cosa credo che sia chiara a tutti gli italiani: con il peggio del governo Monti il Pdl è stato pappa e ciccia, dal primo all’ultimo giorno.

sabato 20 ottobre 2012

D’Alema story



Il lìder Maximo ha annunciato che non si ricandiderà (se Bersani vince le primarie), ma allo stesso tempo ha rivendicato la sua storia politica e personale. Che di sinistra, per la verità, ha ben poco.

di Massimiliano Boschi 


D'Alema non si candiderà alle prossime elezioni, ma chiede rispetto: "se si deve dire a una persona 'guarda bisogna avvicendarsi', lo si fa con garbo" ha dichiarato ieri dagli schermi di La7. A dire il vero da Nanni Moretti (Piazza Navona 2002), in poi non sono mancate le richieste e dopo 10 anni magari qualcuno si è spazientito. Comunque gli elettori Pd stiano tranquilli, D'Alema ha già chiarito che per lui è già pronto un ruolo "extraparlamentare". Insomma, se Bersani vince sia primarie che elezioni, D'Alema torna a fare il ministro. D'altra parte come si fa a lasciare disoccupato un leader con il suo curriculum. 

Ne ha fatta di strada da quando nel settembre 1988 (24 anni fa), mentre dirigeva "L'Unità" invitava i militanti alla “dura opposizione contro il sistema", quando descriveva un'Italia "assai meno libera che dieci anni fa", un'Italia a "rischio di regime". (“Corriere della sera “2/9/1988). 
Come si può fare a meno di un uomo che, pur dopo aver perso la consultazione tra i militanti del Pds, contro Walter Veltroni (1994), venne comunque eletto segretario del partito? 

Come dimenticare che Massimo D'Alema è stato il primo (e unico...) presidente del Consiglio proveniente dal Pci, eletto senza investitura popolare ma con l'aiuto di Francesco Cossiga. 
D'Alema, infatti, è stato presidente del Consiglio quasi di due anni, nonostante il bis (primo mandato fino al 22/12/1999, secondo fino al 25 aprile 2000). Fu costretto a dimettersi perché certo del successo alle elezioni regionali dichiarò che in caso di sconfitta avrebbe lasciato la poltrona. Una notizia che, evidentemente, ribaltò i sondaggi.

Dei suoi due governi si ricorda che "accentuando i doveri del ruolo, ha messo a disposizione della Nato le basi per la guerra del Kosovo, mentre gli Stati Uniti e l' Inghilterra non l'avevano neanche informato che stavano per bombardare l' Iraq". (Enzo Biagi sul "Corriere della Sera del 4/2/1999, dove D'Alema è definito "Indeciso a tutto"). Ma va menzionata anche la gestione del Caso Ocalan: "Non so dove sia ora Ocalan, ne' mi interessa. Mi occupo della sicurezza dell'Italia". (19 gennaio 1999). Un mese dopo verranno mostrate a tutto il mondo le immagini di Ocalan nelle carceri turche, incappucciato, maltrattato e con evidenti segni di percosse. E, per finire, fu grazie al suo governo che vennero approvate le prime leggi sui contratti di lavoro "atipici". 

Negli anni successivi D'Alema è stato soprattutto attento a stare lontano dalle manifestazioni popolari della sinistra, per esempio nel settembre 2002: quando disertò la manifestazione dei Girotondi a Piazza San Giovanni a Roma, per recarsi a Reggio Emilia alla Festa dell’Unità. (L'annuncio della "diserzione" venne fatto ad un’altra festa di partito, quella dell’Udeur). 
Al leader Pci, pds, ds, pd, sono sembrati più congeniali altri contesti, tra cui i salotti (uso cucina) di Bruno Vespa, piazze più "ordinate", come quella di San Pietro in occasione della canonizzazione di Escrivà de Balaguer, fondatore dell’Opus Dei, e le presentazioni dei libri di Cicchitto.
Infine, non vanno dimenticati i successi relativi alla "Commissione Bicamerale per le riforme" e la sua lungimiranza rispetto alla scelta dei suoi uomini. 

Da Francesco Boccia, che sconfitto a sorpresa nelle primarie del 2005 da Nichi Vendola, tornò a presentarsi cinque anni dopo rimediando una scoppola devastante, a Filippo Penati, sostenuto pubblicamente e più di una volta da D'Alema, fino a che non sono intervenute le recenti inchieste giudiziarie. 

Ma D'Alema non è solo lungimirante ed intelligente, gode anche di relazioni importanti, come quella con l'ambasciatore statunitense a cui, dopo 14 anni di berlusconismo rivelò che: "la magistratura è la più grande minaccia per lo Stato" (cablogramma “wikileaks” 160750 inviato il 3/7/2008). Ad un simile statista vorreste garbatamente chiedere di farsi da parte?


di Massimiliano Boschi

mercoledì 17 ottobre 2012

Povertà, Caritas: “Aiuti per la sopravvivenza a + 44,5%. Welfare incapace”



La povertà aumenta e coinvolge sempre più persone. Negli ultimi tre anni, dall’esplosione della crisi economica, c’è stata un’impennata degli italiani che si sono rivolti ai centri Caritas e che ormai sono il 33,3% del totale. La fotografia di un’Italia che fatica ad andare avanti e soffre è nel Rapporto povertà2012 curato dalla Caritas, nel quale si specifica che gli aumenti più consistenti riguardano le casalinghe(+177,8%), gli anziani (+51,3%) e i pensionati(+65,6%). Le richieste di aiuto sono per lo più legati a povertà economica, lavoro e casa. C’è una vera esplosione di richieste di aiuto delle fasce più deboli della popolazione e sotto accusa finisce il sistema di welfare, in quanto si legge “c’è una ‘‘evidente incapacità” dell’attuale sistema di farsi carico delle nuove forme di povertà, delle nuove emergenze sociali derivanti dalla crisi economico-finanziaria”.
Più italiani che stranieri. Il rapporto segnala come gli interventi per fornire beni materiali per la sopravvivenza sono aumentati, nei primi sei mesi del 2012, del 44,5% rispetto al 2011. Secondo il rapporto, la richiesta di aiuti economici ai centri diocesani (dati 2011) è molto più diffusa tra gliitaliani (20,4%) rispetto a quanto accade fra gli stranieri (7,4%). Questi ultimi, invece, chiedono più lavoro (17% contro 8,9% italiani) e soprattutto più orientamento (13,4% contro il 3,6%). Secondo i curatori del rapporto, la richiesta di sussidi economici è più alta fra gli italiani a causa dell’età media più anziana rispetto agli immigrati e alla conseguente maggiore diffusione di disabilità o altre patologie tra i nostri connazionali. Quanto agli aiuti erogati dai Centri, si confermano al primo posto beni e servizi materiali, sia nei confronti degli italiani che degli stranieri, mentre i sussidi economiciforniti ancora una volta riguardano molto più gli italiani (23,8%) che gli immigrati (6,9%). Un dato che si spiegherebbe con il peggioramento delle condizioni economiche dei nostri connazionali. 
Perdita di lavoro. Chi si rivolge ai centri Caritas non è necessariamente un emarginato o un senzatetto. Da due anni e mezzo infatti diminuiscono in modo vistoso coloro che si dichiarano a reddito zero e vivono sulla strada. A chiedere aiuto sono più le donne (53,4%), i coniugati (49,9%), le persone con un domicilio (83,2%). Calano i disoccupati (-16,2%), gli analfabeti (-58,2%) e le persone senza dimora o con gravi problemi abitativi (-10,7% nei primi sei mesi del 2012 rispetto al 2011), a conferma di una progressiva normalizzazione sociale dell’utenza Caritas che sempre meno coincide con la grave marginalità sociale. Diversi i limiti evidenziati: la dispersione delle misure economiche su un gran numero di provvedimenti nazionali, regionali, locali, gestiti da enti e organismi di diversa natura, senza un coordinamento complessivo; l’estremo ritardo con cui vengono attivate le misure di sostegno economico, soprattutto quelle legate alla perdita del lavoro e alla perdita di autonomia psico-fisica. Ai quali si aggiunge l’estrema varietà nella definizione del livello di reddito della famiglia, necessario per poter usufruire di determinate prestazioni e il forte carattere categoriale di gran parte delle misure di sostegno economico o di agevolazione tariffaria degli enti locali: “Le soglie e i criteri di accesso alle varie opportunità assistenziali sono estremamente diversificate, creando dei vicoli ciechi spesso difficili da prevedere all’avvio dell’iter di richiesta della misura”.
Negazione dei diritti. Infine, il progressivo restringimento delle disponibilità finanziarie nel settore socio-assistenziale sta determinando la chiusura o la negazione repentina dei diritti ad una serie di fasce sociali che, fino a poco tempo fa, beneficiavano dell’intervento. L’effetto complessivo, sottolinea il rapporto, è quello di “un vero e proprio percorso a ostacoli, dotato di irrazionale logica, in cui la presenza di barriere e veti incrociati rende quasi impossibile l’esigibilità dei diritti e la fruizione tempestiva del servizio, anche in presenza di oggettive situazioni di bisogno”.  A livello complessivo, come negli anni si conferma scorsi la presenza di una quota maggioritaria di stranieri rispetto agli italiani (70,7% contro 28,9% nel 2011), ma questi ultimi sono aumentati in misura esponenziale negli ultimi due anni (nel 2009 erano il 23,1%) e del 15,2% tra il 2011 e i primi sei mesi del 2012, quando hanno raggiunto il 33,3%. La maggiore incidenza degli immigrati raggiunge valori massimi nel Centro e Nord Italia, mentre, a causa di un elevato numero di poveri italiani, appare più bassa nel Mezzogiorno. 
Sei milioni di pasti.  Secondo il rapporto sono oltre 6 milioni i pasti erogati in un anno, pari a una media di 16.514 al giorno, nelle 449 mense sparse su tutto il territorio nazionale. Numeri che danno un’idea del fenomeno delle persone, in Italia, che non riescono a soddisfare in modo autonomo unbisogno fondamentale come è quello alimentare. Tante le cifre sui servizi offerti dalla Caritas: 27.630 i volontari e 2.832 i Centri di ascolto che si fanno carico di un vasto bisogno sociale di persone e famiglie, italiane e straniere. Quasi 5 mila i servizi socio-assistenziali e le attività di contrasto alla povertà realizzate dalla Chiesa in Italia e più di 3.500 i centri di distribuzione di beni primari (cibo, vestiario, etc.) nelle diocesi. Ed è interessante anche notare come le Caritas diocesane abbiano istruito 3.897 pratiche per il “Prestito della speranza“, un’iniziativa anticrisi promossa da Caritas e Abi (associazione delle banche). Oltre 26 milioni di euro la cifra complessiva richiesta. Ma le diocesi italiane hanno promosso anche altri 985 progetti anti-crisi, di cui 137 nell’ambito del microcredito per le famiglie e 61 in quello per le imprese.

Allarme rosso



di  Sergio Cararo





La Banca Centrale Europea preme sui governi affinchè adottino nuove misure strutturali che favoriscano maggiore "flessibilità salariale".

Allarme! Un nuovo diktat è nell’aria. Un rapporto della Bce ritiene che l'adeguamento salariale nei paesi dell'Eurozona è stato relativamente limitato nonostante la gravità della recessione e l’aumento della disoccupazione. Tradotto in soldoni: i salari sono troppo alti e vanno abbassati. 
In un tale contesto secondo la Bce "una risposta flessibile delle retribuzioni dovrebbe essere un'importante priorità". I tecnocrati di Francoforte argomentano il loro nuovo diktat ai governi con motivazioni che mettono i brividi. 
Secondo l’analisi della Bce durante la crisi i salari reali sono aumentati nell'area euro, presumibilmente come riflesso di uno spostamento dell'occupazione verso lavori a salario più alto, i quali sarebbero maggiormente tutelati. In un altro riquadro viene messo a confronto l'andamento della disoccupazione nell’Eurozona con quello negli Usa: complessivamente l'aumento dei senza lavoro nei paesi europei è stato più contenuto: 4 punti percentuali contro i 4,8 punti degli Usa. Ma all’inizio del 2010 in entrambe le aree veniva registrato un tasso di disoccupazione attorno al 10 per cento, da allora gli andamenti si sono discostati: calo negli Usa mentre nell'area euro hanno continuato a salire. E così oggi nell'Eurozona i disoccupati superano l'11% mentre negli Stati Uniti sono attorno all'8%. Anche perché la stessa Bce rileva che l'area dell'euro ha perso 4 milioni di occupati tra 2008 e fine 2011, non solo ma "l'occupazione è diminuita ulteriormente nella prima metà del 2012 - si legge poi nel capitolo sulla situazione nel mercato del lavoro - mentre la disoccupazione ha continuato ad aumentare". 

Questa valutazione preliminare serve alla Bce per giungere alle considerazioni sui salari e sulle "rigidità" nel mercato del lavoro dell’Eurozona. Tenuto conto dell`intensità della crisi, “la risposta dei salari nell’area dell`euro sembra essere stata piuttosto contenuta - si legge - per effetto della generale rigidità salariale”. In questo quadro secondo la Bce serve più flessibilità sui salari anche per agevolare la necessaria riallocazione settoriale che prelude alla creazione di posti di lavoro e alla riduzione della disoccupazione. E chiaramente questo richiede ulteriori e significative “riforme del mercato del lavoro nei paesi dell`area”, riforme che i tecnocrati di Francoforte ritengono “un elemento fondamentale per una solida ripresa economica nelle economie”, che dovrebbe altresì facilitare ulteriori effetti di propagazione positivi relativi alla correzione e prevenzione degli squilibri macroeconomici, il riequilibrio dei conti e la stabilità finanziaria. La Bce poi cita come esempi positivi (sic!) i paesi europei in cui le “riforme” sono state già fatte, e tra questi figurano anche Italia e Spagna che "recentemente hanno adottato riforme del mercato del lavoro al fine di accrescere la flessibilità e l`occupazione". Ma i risultati ci dicono esattamente il contrario in entrambi i paesi.

martedì 16 ottobre 2012

Benvenuti nel capitalismo reale

di Marco D'Eramo, il manifesto, 11 ottobre 2012 

Mannaggia alla bomba atomica! Senza questo piccolo particolare, la recessione mondiale sarebbe già alle nostre spalle. Infatti le altre crisi gravi sono state sanate solo quando è scoppiata una bella guerra: l'esempio più indiscutibile è la Grande Depressione degli anni '30 superata solo grazie alla Seconda guerra mondiale.

La ragione è semplice: di solito della guerra percepiamo solo la messe umana che miete, ma dal punto di vista economico i milioni di morti sono marginali; quel che conta è che la guerra distrugge un'immane quantità di edifici, prodotti, macchinari, in definitiva di capitale; e quindi crea la necessità di una nuova accumulazione, grazie alla ricostruzione materiale. Tanto che, dopo la guerra, a vivere i miracoli economici più rigogliosi di solito sono proprio i paesi più rasi al suolo, perché i nuovi impianti sono più moderni mentre gli stati più risparmiati si tengono anche le fabbriche più desuete e vengono scavalcati. Joseph Schumpeter aveva in mente proprio la guerra quando parlava della «distruzione creatrice» come caratteristica essenziale del capitalismo.

Però non tutte le guerre vanno bene. Quella in Iraq è sì costata agli Usa migliaia di miliardi di dollari, ma senza apportare alcun beneficio all'economia statunitense, proprio perché non ha richiesto un massiccio aumento della produzione, non ha mobilitato la popolazione, non ha messo in campo quel connubio di spesa illimitata (per armi e materiale bellico) da un lato e razionamento (dei consumi privati) dall'altro che costituisce tutto l'appeal dell'economia di guerra. La guerra consente infatti ai governi di mandare a quel paese i diktat dei "mercati", rende non solo lecito, ma necessario spendere ed espandere il debito pubblico in nome di una causa superiore. Nessuno criticherà un governo se sfora per difendere la patria. Le guerre locali a questo scopo non servono, ci vogliono vere e proprie guerre mondiali. E' col capitalismo che nasce la nozione di "guerra mondiale": la prima fu quella dei Sette anni (1756-1763) che decise il destino coloniale di interi continenti, dal Canada all'India; mondiali furono le guerre napoleoniche (anche Bonaparte, come Rommel, pensò di andare a fiaccare la potenza inglese in Egitto, e come Von Paulus finì impantanato in Russia); mondiali furono le due grandi guerre del secolo scorso.

Sono proprio queste guerre mondiali - conflitti totali tra grandi potenze - che l'arma atomica ha reso impossibili. Il capitalismo si trova così prigioniero dell'impossibilità di ricorrere alla soluzione bellica. Una prigionia tanto più asfissiante quanto più è totalitaria la dittatura dei mercati e quanto più risulta incrollabile la fede superstiziosa negli effetti salvifici dell'austerità. Durante la guerra fredda i propagandisti occidentali coniarono un'immagine assai efficace per descrivere la dittatura materiale e ideologica cui erano sottoposti i paesi del Patto di Varsavia: "socialismo reale" fu chiamata. Termine di straordinaria comunicativa perché diceva tutto senza dire: di fronte alle promesse di un "radioso sol dell'avvenire", nella sua realtà attuale e quotidiana il socialismo era solo sorveglianza del Kgb o della Stasi, penuria materiale, censura, file davanti ai negozi di generi di prima necessità, oppressione totale (o totalitaria) sotto un tallone nello stesso tempo poliziesco e ideologico (un pensiero unico sovietico diremmo oggi). Quel che caratterizzava il socialismo reale era che non potevi sfuggire, non potevi andartene, non potevi né cambiarlo, né ricusarlo. Ci pensavano i carri armati dei "paesi fratelli" a ricordarlo.

Una volta spazzato via il socialismo reale e delegittimato il socialismo immaginato, l'ironia della storia vuole che oggi ci accorgiamo di vivere nel "capitalismo reale". Anche noi siamo topi in gabbia che non possiamo sfuggire né allo spread né agli interessi del debito; anche per noi non c'è rifugio per quanto lontano dove non ci raggiungano gli esattori del nostro debito: ci rincorrerebbero anche su Marte. Anche noi dobbiamo vivere nella penuria: i greci anziani devono privarsi della sanità e gli spagnoli giovani del lavoro, per ottemperare agli ordini dei nostri "banchieri fratelli", cui per imporre i diktat non servono più carri armati, ma ispettori finanziari. Anche noi siamo strangolati dall'ideologia.

Ed è straordinario come tutti facciano finta di credere all'idea che l'austerità serva a qualcosa mentre invece è solo la corda a cui impiccarci. Perché, se superstizione è una fede immotivata, anzi contraddetta nell'esperienza, allora la fiducia nel potere terapeutico dell'austerity (come è più bello dirlo in inglese!) è una superstizione che non ha niente a invidiare a San Gennaro. Le ricette prescritte oggi da Bruxelles e da Francoforte ai paesi "sviluppati" del sud Europa sono identiche a quelle che per decenni il Fondo monetario internazionale (Fmi) e la Banca mondiale hanno imposto agli stati del Terzo mondo: decenni di austere terapie monetariste non hanno mai fatto prosperare nessun paese, ma tutti li hanno lasciati stremati, impoveriti, socialmente più feroci.

D'altra parte anche un bambino capirebbe che uno stato NON è una famiglia: una famiglia in difficoltà stringe la cinta e forse ne esce; ma se in uno stato tutti stringono la cinta, nessuno consuma più, le industrie non hanno più clienti, la produzione e le vendite crollano, le tasse che lo stato percepisce precipitano, tanto che in questi anni di lacrime e sangue il debito greco è aumentato, non diminuito, e anche quello italiano si è avviato sulla stessa china.

Nell'ultimo numero di Harper's Magazine, in un articolo intitolato The Austerity Myth, Jeff Madrick scrive che l'ideologia dell'austerità «va considerata una superstizione tanto quanto una teoria economica... Dall'Odissea al Vecchio Testamento, l'abnegazione è stata la reazione tradizionale a circostanze difficili. Sacrificio è la parola d'ordine che mobilita in guerra, come digiunare è la pratica centrale in molte religioni. L'auto-sacrificio è anche, triste a dirsi, profondamente attraente come risposta ai problemi economici. Suona giusto - una forma di penitenza e di machismo... Il problema è che anche se l'austerità può funzionare per gli individui raramente funziona per le economie».

I riti dell'austerità inflittici dalla Germania e dalle Borse diventano allora l'equivalente mercantile delle processioni autoflagellanti del Medioevo, delle penitenze cui si sottoponevano i pietisti per salvarsi l'anima. Con la differenza che magari i flagellanti il paradiso lo trovarono (il contrario non è dimostrabile), mentre noi la ripresa economica ce la possiamo sognare. Da ex consulente di Goldman Sachs (la più potente banca mondiale) è normale che Monti sia un piazzista di questa superstizione. Più problematico è che la stessa fede cieca animi molti esponenti del Partito democratico. Forse il dirigente che più somiglia al moschettiere Aramis (non solo per i baffetti) è stato per una volta nel giusto quando ha detto che costoro «si faranno male». Il guaio è che lo fanno anche a noi.

domenica 14 ottobre 2012

Romanzo Quirinale, the end di Marco Travaglio


Finalmente, dopo tre mesi di sanguinose accuse fondate sul nulla, anzi sul falso, la Procura di Palermo può difendersi alla Corte costituzionaledal conflitto di attribuzioni scatenato dal presidente Napolitano.
La questione, come i nostri lettori ben sanno, nasce dalle telefonate (quattro, si apprende ora) fra il capo dello Stato e Nicola Mancino, indirettamente e casualmente intercettate sui telefoni di quest’ultimo, coinvolto nelle indagini sulla trattativa Stato-mafia. Secondo il Quirinale, incredibilmente spalleggiato dall’Avvocatura dello Stato, la Procura avrebbe dovuto procedere all’“immediata distruzione delle intercettazioni casuali del Presidente” perché The Voice è inintercettabile e financo inascoltabile. La Procura non le ha fatte trascrivere né utilizzate, giudicandole penalmente irrilevanti, e si è riservata di chiederne la distruzione al gip secondo la legge: cioè in udienza alla presenza degli avvocati dei 12 imputati che possono ascoltarle ed eventualmente chiedere di usarle per esercitare i diritti di difesa. La cosa ha fatto saltare la mosca al naso a Napolitano e ai suoi cattivi consiglieri, terrorizzati dal rischio che un avvocato, dopo averle ascoltate, ne divulgasse il contenuto. Che, per motivi misteriosi (almeno per noi cittadini), deve restare un segreto di Stato. Di qui il conflitto con cui Napolitano, tramite l’Avvocatura, chiede alla Consulta di censurare i pm di Palermo per un delitto da colpo di Stato: “lesione” e “menomazione delle prerogative costituzionali del Presidente della Repubblica” perpetrata sia con “la valutazione sulla rilevanza delle intercettazioni ai fini della loro eventuale utilizzazione”, sia con “la permanenza delle intercettazioni agli atti del procedimento”, sia con “l’intento di attivare una procedura camerale” regolata dal contraddittorio tra le parti.
A lume di Codice, ma soprattutto di logica e di buonsenso, abbiamo più volte scritto che la pretesa del Colle è insensata. Ora l’insensatezza è autorevolmente confermata dalla memoria della Procura, firmata dall’ex presidente dell’Associazione dei costituzionalisti italiani Alessandro Pace e dagli avvocati Serges e Serio. I quali, prim’ancora di avventurarsi nell’interpretazione delle presunteprerogative del Presidente, dimostrano come il Quirinale e l’Avvocatura abbiano sbagliato indirizzo: ammesso e non concesso che le telefonate andassero distrutte subito, non poteva farlo la Procura, visto che quel potere è affidato in esclusiva al giudice. Cioè: eventualmente il conflitto andava sollevato contro il gip. Non solo: se, come ammette la stessa Avvocatura per conto del Colle, le intercettazioni furono “casuali” quindi involontarie, come si può sostenere che erano “vietate”? S’è mai vista una norma che vieta qualcosa di involontario e casuale? Per questi due motivi preliminari il conflitto è “inammissibile”, con buona pace della Consulta che s’è affrettata a dichiararlo ammissibile.
Poi è anche infondato, per diversi motivi di merito. Intanto i pm dovevano valutare quel che dicevaMancino, a meno di regalargli un’”immunità contagiosa” derivante dal fatto che parlava con Napolitano. E poi nessuna norma costituzionale né procedurale ha mai stabilito la non intercettabilità indiretta (e nemmeno, in via assoluta, quella diretta) del capo dello Stato. Che non è un monarca assoluto, infatti è immune solo nell’esercizio delle sue funzioni. Dunque la prerogativa invocata dal Colle non esiste. Ergo i pm non hanno leso alcunché. Anzi avrebbero violato il principio costituzionale del contraddittorio e i diritti delle difese se avessero obbedito al Colle. A questo siamo: a un presidente della Repubblica (e del Csm) che istiga la magistratura a violare la legge e la Costituzione. A sua insaputa, si capisce.

giovedì 4 ottobre 2012

La scomparsa del popolo

di Alberto Asor Rosa



L'ondata di indignazione e di condanna seguita alla pubblicazione dei dati (certo impressionanti) sulla corruzione regionale laziale - molto commendevole, anche se in ritardo - ha lasciato in ombra un tentativo di analisi sociale del fenomeno.
Prima di lasciar la parola agli esperti, esporrei la mia tesi: e cioè che degrado, deperimento dei valori e corruzione (non più eccezionale, ormai, ma endemica, diffusa e resistente) affondino le radici in un vero e proprio spappolamento socio-economico del popolo italiano.

Io sono uno che, molti anni fa, ha creduto che dalla classe operaia sarebbero scaturite le nuove élite, destinate a guidare verso altri traguardi i destini nazionali. Ciò, come è evidente, non è accaduto: la classe operaia, oggi, lotta prevalentemente, e spesso con vera disperazione, per la propria fisica sopravvivenza. Ma non è neanche accaduto che le fonti tradizionali di formazione delle élite (i partiti, le classi sociali dominanti) abbiano continuato, come per un certo periodo era accaduto, a farlo. Dov’è stata la borghesia, c’è stata una borghesia in Italia in tutti questi anni?

È endemica l’assenza di compattezza e di consapevolezza da parte del popolo italiano (endemica in questo caso vuol dire: secolare). In Italia niente mai che abbia interpretato il ruolo di le peuple o di das Volk (magari anche con gli aspetti retorici e reazionari che essi a casa loro hanno talvolta assunto, ma al tempo stesso con gli innegabili vantaggi che ne sono derivati, dentro e fuori i confini statuali). Fra la Liberazione e, grosso modo, gli anni ’70 ha sopperito l’azione dei grandi partiti di massa (sopperito, si badi bene, non sostituito). Quando tale azione è venuta meno, è cominciata l’opera di sfarinamento, su di un soggetto in partenza assai debole, di cui vediamo oggi gli esiti ultimi. Se le classi tradizionali e i cosiddetti “ceti intellettuali” (professionisti, insegnanti, persino imprenditori) si sono ritirati sullo sfondo, a contemplare, più allibiti che critici, più passivi che attivi, lo sfascio dilagante, cosa resta al centro della scena?

Recentemente si è tornati a parlare, anche a sinistra, anche dai miei vecchi sodali operaisti, di popolo. Ma la categoria, e soprattutto la realtà, ne sono profondamente mutati. Popolo è concetto nobile, non merita d’essere banalmente assimilato all’uso che se ne fa nelle pur giuste polemiche antipopuliste.

All’inizio del degrado ci sono la crisi della politica e la catastrofe dei partiti di massa fra gli anni ’80 e i ’90. Le ha aperto la strada, e proprio nello specifico senso che stiamo usando, la precorritrice, devastante avventura craxiana. Poi è intervenuta, partendo esattamente da lì dentro (anche in senso strettamente sociologico) e fornendo al tempo stesso alla populace una miriade di modelli assolutamente simpatetici e imitabili, la lunga fase berlusconiana. Infine, più recentemente, è sopravvenuta, in maniera forse inaspettata ma non irrilevante, una forte componente neo-veterofascista: il fascismo, quello autentico, è sempre stato portatore di una disponibilità corruttiva profonda.

Il risultato è stato devastante: il popolo italiano si è disgregato in una serie di frammenti, spesso contrapposti fra loro e ognuno alla ricerca della propria personale, individuale e/o settoriale ricerca di affermazione, di denaro e di potere (esiste anche una variante localistica di tale dissoluzione, gravida tuttavia anch’essa di fattori di corruttela: il leghismo ne rappresenta il frutto e l’interprete più autentico).

Dallo spappolamento e dalla scomposizione della “figura popolo”, e di coloro che per un certo periodo di tempo avevano più o meno legittimamente preteso di assumerne la rappresentanza, è emerso un nuovo ceto sociale, il residuo immondo che sopravvive quando tutto il resto è stato digerito e consumato. Il vero, grande protagonista della corruzione italiana è questo ceto sociale, una classe tipicamente interstiziale, frutto dello spappolamento o dell’emarginazione o del volontario mutismo delle altre, priva assolutamente di cultura e di valori, ignara di progetto, deprivata all’origine e secolarmente di ogni potere, oggi famelicamente alla ricerca di un indennizzo che la risarcisca della lunga astinenza (oltre che i consigli regionali riempie freneticamente gli outlet, inonda le autostrade di Suv, aspira ad una visibilità da ottenere con qualsiasi mezzo, non teme per questo né il grottesco né l’osceno, parla una lingua che non è più l’italiano ma una sua bastarda, ridicola caricatura). Insomma, come in un incubo notturno il sogno berlusconiano ha preso corpo.

Tale classe, non solo promossa ma anche furibondamente corteggiata da alcuni, ma anche autopromossa in numerosi altri casi, ha cominciato a invadere la politica nazionale, si affaccia qua e là nei gruppi dirigenti di taluni partiti, siede ormai in abbondanza nelle aule parlamentari. Ma ha preso già direttamente il potere in numerose realtà regionali, sotto e sopra la linea delle palme, a testimonianza del fatto che il fenomeno è effettivamente nazionale, non locale. La precisazione che a questo punto ne facciamo induce forse a pensare che l’istituzione regionale abbia a che fare con la crescente affermazione di tale classe in politica e nella gestione del potere in Italia? Non avrei dubbi a rispondere affermativamente.

In un Paese come il nostro dove le peuplenon è quasi mai realmente esistito e l’idea di nazione è sempre stata così fragile e precaria (può esistere una nazione senza un popolo? può esistere un popolo senza una nazione?), la regionalizzazione ha aggravato le resistenze al processo unitario e ha spinto in avanti un ceto politico improvvisato e parassitario. Siamo ancora in tempo: invece di abolire le province, che sono innocue, bisognerebbe abolire le Regioni e tornare allo Stato unitario (meno ceto politico, enormemente meno spese, rafforzamento utile e conseguente dell’istituzione comunale, l’unica veramente italiana).

Se queste considerazioni fossero minimamente fondate, ci vorrebbe ben altro per battere l’abominevole classe emergente che una campagna (del resto molto, molto tardiva) di moralizzazione, diciamo così, di tipo pecuniario. Bisogna combattere e cancellarla in re, cioè nei suoi motivi sostanziali di sopravvivenza e di... fioritura. La situazione è tanto grave che persino una parte del movimento soi disant d’opposizione assume modi, linguaggi e richieste dell’abominevole classe (Grillo, ovviamente, ma non solo). Ricomporre il popolo, pur nella diversità delle opinioni politiche, dandogli una prospettiva strategica che punti innanzi tutto all’isolamento, alla sconfitta e alla cancellazione dell’abominevole classe emergente, è il compito di questo grande momento che sta di fronte ai nostri politici sani: moralità, sì, ma al tempo stesso contegno e cose e sostanza – insomma, la riforma intellettuale e morale, ma accompagnata da un serio programma economico. Chi avrà il coraggio e la forza di assumerselo fino in fondo?

mercoledì 3 ottobre 2012

Il Pdl di Berlusconi si dissolve: manette, ruberie e scissioni. Così muore un partito













Un partito muore così. Tra manette, ruberie, faide, minacce di scissioni, parlamentari inerti e smarriti. Sopra tutti e tutto aleggia lo spettro di un Capo indeciso e che non ha più voglia, costretto al silenzio dai suoi fedelissimi. La dissoluzione del Pdl è una frana continua. Verso il carcere, verso destra, verso il centro, verso il montismo, persino verso il nascenterenzismo. Ovunque. L’arresto di Franco Fioritoscolpisce un memorabile epicedio per il partito degli onesti mai nato: “Meglio il carcere che il Pdl”. Che si può parafrasare in mille modi.

PRIMO CASO: “Meglio un nuovo Msi che il Pdl”. È la convinzione che agita da mesi Ignazio La Russa, tuttora triumviro in carica del Pdl. La Russa, Maurizio Gasparri, Giorgia Meloni e GianniAlemanno si vedranno oggi a pranzo, il terzo nel giro di dieci giorni. L’ideona dell’ex ministro della Difesa è di fare una scissione morbida con la benedizione di Berlusconi. Una creatura almirantiana, legge e ordine, intruppando di nuovo Francesco Storace (forse anche i fliniani Briguglio e Bocchino) e consegnandola a Giorgia Meloni, che La Russa immagina come una Marine Le Pen italica. Dal Pdl al Msi, evitando accuratamente An, invenzione finiana. Alcuni sono entusiasti, tipo Massimo Corsaro e Fabio Rampelli. Altri tiepidi: è il caso di Maurizio Gasparri, per anni coleader con l’amico “Ignazio” di Destra Protagonista, l’ex correntone di centro di An. Dice però la Meloni: “Non vedo alcuna scissione all’orizzonte”. Al contrario dei neomissini, l’ex rautiano duro e puro Gianni Alemanno, primo sindaco nero della Capitale, vorrebbe guardare più al centro. E soprattutto non chiude alla prospettiva di un Monti-bis, odiatissimo invece da La Russa. Prima che esplodesse lo scandalo dei fondi alla Regione Lazio, il sindaco aveva due interlocutori forti: la governatrice Renata Polverini, sponsor del progetto civico “Città nuove”, e l’Udc di Pier Ferdinando Casini. Oggi è isolato e con un incubo in più: ricandidarsi a sindaco nella primavera del 2013, in contemporanea con le politiche, e non avere il paracadute di un seggio sicuro alla Camera. Per questo sono ancora forti le voci sulle sue dimissioni anticipate dal Campidoglio, per abbinare comunali e regionali entro la fine dell’anno. Così anche in caso di sconfitta, Alemanno rientrerebbe poi in gioco per il Parlamento. In fondo il tormentone della complessa scissione degli ex An è una questione di posti. Oggi, per limitarci a Montecitorio, i deputati del Pdl sono 209. Per il 2013 la previsione non supera i 130 e a La Russa, Berlusconi, ha già detto che non concederà più di venti seggi. Una miseria.
“MEGLIO MONTI e il centro che il Pdl”. La seconda declinazione dello strepitoso sfogo di Franco-ne Batman ha varie sfumature. La prima riguarda Beppe Pisanu, ufficialmente ancora nel Pdl, che con Casini e Fini forma la Triade del Monti dopo Monti. “Parassiti”, li ha definiti Giuliano Ferrara. Ma la fuga verso il centro è il pallino di tanti che sentono svanire la certezza di un seggio sicuro. L’ultimo caso è quello dell’ex ministra Stefania Prestigiacomo, che ha liquidato il Pdl come “una guerra tra piccoli gruppi di potere”. Sì, proprio lei che era al telefono con Luigi Bisignani, il faccendiere pregiudicato della P2 e della P4. Già, Bisignani e Gianni Letta. In Transatlantico, i falchi del Cavaliere nemici del gruppo Letta fanno l’elenco dei deputati doppiogiochisti rimasti in quota alla lobby già P4. Da un lato una finta fedeltà a B., dall’altro la tentazione di riciclarsigrancoalizionisti e sdoganarsi verso lidi centristi. Basta leggere, per esempio, le continue dichiarazioni di un’altra ex ministra, Mariastella Gelmini. Mara Carfagna, invece, smentisce ogni indiscrezione che la riguarda: “Apprendo dai giornali la notizia che me ne andrei”. Almeno per il momento. Il fronte più pericoloso, però, è stato aperto ieri dal ciellino Mario Mauro su Avvenire, quotidiano dei vescovi italiani. Mauro, presidente dei parlamentari europei del Pdl, ha chiesto di non perdere più tempo, di andare oltre Berlusconi e di trovare un nuovo leader. Maurizio Lupi, vicepresidente della Camera e altro ciellino di rango, prova a disinnescare così la mina Mauro: “L’unica cosa che decifro è la candidatura di Alfano”. In realtà, anche dentro Comunione e Liberazione, ormai stufa del berlusconismo, sta mettendo radici il progetto di una lista civica nazionale per Monti per superare il fatidico bipolarismo muscolare di questo ventennio. La terza e ultima variante del “meglio il carcere che il Pdl” è surreale, da fantapolitica: “Meglio Renzi che il Pdl”. Racconta Marcello de Angelis, deputato del Pdl e direttore del Secolo d’Italia: “È la sindrome di chi sta fuori dalla partita. Non hai il tuo uomo in campo e fai il tifo per l’avversario del tuo nemico. Sento tanti miei colleghi pronunciarsi entusiasti per Renzi”. Questa sindrome sta contagiando soprattutto i pidiellini un tempo sostenitori di Montezemolo uomo nuovo del centro-destra. Come Isabella Bertolini, da mesi ai margini del suo quasi ex partito. Magari Renzi perde le primarie e fa qualcosa di nuovo, fuori dal Pd. Persino Michaela Biancofiore, irriducibile berlusconiana, è stata sentita spendersi per il sindaco di Firenze.
“MEGLIO il carcere che il Pdl”. Da Palazzo Grazioli, B. assiste in silenzio al funerale del Pdl. Promette azzeramenti, simboli e nomi nuovi (almeno 40 sulla sua scrivania) e fa dire a chi lo vede quotidianamente: “Non ha voglia di candidarsi”. Poi, però, fa trapelare che il suo nome vale da solo il 9 per cento. È scisso tra populismo e montismo. Un partito muore così.