sabato 25 agosto 2012

Generazione Perduta:denunciateli, siate onesti










Siamo noi quelli della “generazione perduta” di cui parla Monti? Qual è il suo ragionamento in merito e quale il nostro? Non ci sembra di vedere, parafrasandolo, nessuna luce in fondo al tunnel. Anzi: tutti i provvedimenti dell’attuale governo confermano il gap italiano in tal senso. Siamo ancora in tempo? Come individuare colpe e rimedi della”mala education” dei vecchi verso i giovani nel sistema Italia? Del terrore del nuovo, dell’indipendente e del bravo come minaccia all’ordine precostituito e non come risorsa del paese? Perchè di questo si tratta. In questo articolo parleremo del sistema di reclutamento universitario, ma gli altri sistemi non ci sembrano funzionare diversamente. Il mondo politico, quello della sanità, quello delle imprese, quello, più in generale, del lavoro in Italia.
Ho pensato spesso, durante questa strana estate non di tregua, alla storia di Giambattista Scirè, il giovane storico catanese che ha denunciato l’irregolarità di un concorso universitario per un posto da ricercatore a tempo indeterminato ( http://www.unita.it/italia/universita-l-odissea-di-uno-storico-br-al-suo-posto-ci-va-un-architetto-1.432207 ), così spesso da volerlo incontrare, da volergli parlare. Per conversare insieme e riflettere ad alta voce. Proprio qualche giorno prima che Monti parlasse di noi, della nostra generazione perduta.
La tua storia l’abbiamo letta sui giornali un mese fa, cosa è cambiato da allora? Come si è evoluta?
La vicenda del “mio” concorso universitario è finita su tutti i giornali senza distinzioni di appartenenze politiche (Corriere della Sera, Repubblica, l’Unità, il Fatto quotidiano, il manifesto, Linkiesta, la Gazzetta del Sud, etc) sostanzialmente per due motivi: gli elementi contestati nel ricorso erano eclatanti (in particolare il profilo assolutamente incongruo al settore della candidata vincitrice, l’assenza del dottorato di ricerca nel suo curriculum, la distanza abissale tra il valore e il punteggio delle mie pubblicazioni e le sue) ; ho insistito all’inverosimile – sono un tipo abbastanza testardo – andando in molti casi contro gli stessi consigli di conoscenti e amici, nel volere denunciare pubblicamente i fatti. Voglio precisare una cosa però, Mila: io non sono e non voglio essere il Masaniello di turno. Sono solo una persona perbene. Significa che sento il bisogno di denunciare le cose che non vanno, per non essere connivente né complice. E’ un bisogno di certezza delle regole, di trasparenza delle procedure, di onestà che voglio riconoscere a me stesso ma rintracciare anche intorno a me. Si dice che il proprio paese è quello che riconosci. Devo riconoscermi nel mio paese, i miei valori siano quelli che si impongono anche intorno. Per questi motivi mi sono mosso e mi sto muovendo. Sono certo di avere ragione, in quel concorso, senza bisogno di chiamare in causa l’abusato “Merito”, bastava seguire le procedure corrette, le regole e perseguire l’onestà per darmi ragione. Null’altro. Lo devo al mio dovere di cittadino onesto, non a una malintesa “voglia di ribellione”. Voglio riconoscermi cittadino che segue le regole del vivere comune. E voglio che mi si riconosca come tale. Senza furbizie, cinismi o sarcasmi. Ne stiamo pagando un prezzo troppo alto. L’interrogazione parlamentare (ancora in attesa di risposta da parte del ministro Profumo), la lettera al presidente della Repubblica, le due ordinanze del Tar che hanno accolto il mio ricorso in fase cautelare, sono tutti capitoli di una “battaglia” che va oltre il caso specifico e la penalizzazione personale che ho subito, ma che investe il senso stesso di fare cultura, di intendere la ricerca storica, di interpretare il significato dei termini scuola e università. Nella fattispecie dei concorsi universitari, va affermato il principio che la discrezionalità della commissione non può essere assoluta, ma deve essere basata su elementi di valutazione oggetti, intangibili e assoluti. Per esempio vanno indicati dei requisiti minimi, a partire dal dottorato di ricerca, senza cui la partecipazione ai concorsi da ricercatore non dovrebbe essere possibile. In questa vicenda specifica, alla disciplina storica contemporaneistica viene inferto un vulnus difficilmente sanabile (ndr il concorso è stato vinto da una storica dell’Architettura, priva di pubblicazioni specifiche nelle tematiche della materia, non da uno storico con studi, ricerche e pubblicazioni nella disciplina, nonostante la classe di concorso fosse esplicitamente in Storia Contemporanea). Per entrare nel merito del mio caso, di fatto, è come se l’esito del concorso sancisse che chiunque si occupa di tematiche contemporanee è – di diritto – uno storico contemporaneista: non solo lo studioso di storia dell’architettura, ma anche quello della scienza, della moda, del diritto, della psicanalisi e così via. Tutti settori scientifico-disciplinari autorizzati alle incursioni in quella “caricatura” di disciplina che diventa la storia contemporanea.
Come si è evoluta la mia storia ad oggi? Mentre la stampa e l’opinione pubblica si sono fortemente schierati dalla mia parte, diciamo che la giustizia amministrativa mi impone di attendere un anno per avere l’esito della sentenza di merito (anche se il fatto che non abbia respinto ma abbia accolto i miei ricorsi è un fatto oggettivamente molto positivo, anche perché di solito in questi casi, statisticamente, i ricorsi vengono subito respinti già in fase cautelare). L’ambiente universitario, in generale, ha risposto col silenzio (per esempio colpisce quello della Sissco, società italiana per lo studio della storia contemporanea), a parte le prese di posizioni a mio sostegno, pubbliche e private, di alcuni autorevoli docenti (per esempio D’Orsi, Ginsborg, Marino, Lupo, Tranfaglia, Gotor e altri), e le molte testimonianze e e-mail di stima ricevute da parte di studenti sconosciuti, dottorandi e giovani colleghi, che sono il termometro più generale della situazione della società italiana: i potenti, a tutti i livelli, politico, economico, universitario, sono arroccati sulle loro posizioni di privilegio, mentre i giovani solidarizzano nei sacrifici, nelle ingiustizie, nelle difficoltà.
Cosa ho intenzione di fare nel frattempo? In attesa della sentenza, sperando di riuscire ad abbreviare i tempi della decisione tramite una richiesta dell’avvocato, penso di lavorare a una pubblicazione che mette insieme tutta una serie di concorsi truccati, irregolari o comunque molto sospetti, una specie di libro bianco dei concorsi, in modo da dar voce anche a tanti altri che hanno subito simili ingiustizie. Poi sto pensando ad un esposto in procura, secondo il parere di un esperto penalista, ci sono gli estremi per farlo, anche per far capire ai responsabili, a più livelli, di questa vicenda, che faccio sul serio e per dare un segnale forte di responsabilizzazione a tutto l’ambiente.

La Gelmini, nella sua riforma sull’università , aveva voluto, almeno nelle intenzioni dichiarate perché poi la realtà è un’altra, cercare di sanare il sistema di reclutamento di ricercatori e docenti negli atenei italiani, com’era prima? Com’è adesso? Cosa è cambiato?
Molto tempo fa il reclutamento universitario era affidato a concorsi nazionali con commissioni composte dai migliori docenti ordinari e selezioni serie e rigorose, poi a partire dagli anni ottanta tutto è stato affidato all’arbitrio e alla discrezionalità di concorsi locali fondati sull’affiliazione, la conoscenza, l’amicizia, spesso addirittura la parentela. La riforma Gelmini si è inserita nel contesto di una diminuzione drastica delle risorse e dei fondi che ha messo in ginocchio l’università italiana, penalizzando in particolare il sud e quelle università che avevano e hanno eccessivi costi burocratici e di personale, riducendo al minimo però l’attività di ricerca soprattutto dei più giovani che si trovavano fuori dal meccanismo di protezione, bloccando il turn-over. Sul fronte della trasparenza avrebbe dovuto prevedere, almeno sulla carta, il sorteggio delle commissioni per i concorsi e selezioni rigorosamente basate sul merito, quindi su fattori ed elementi oggettivamente riscontrabili, come le pubblicazioni e l’attività di ricerca certificabile svolta direttamente con l’università, invece il caso del “mio” concorso dimostra l’esatto contrario, cioè che il valore legale del titolo di studio cioè della laurea diventa un optional, che il dottorato di ricerca non è obbligatorio mentre in certi tipi di selezioni dovrebbe esserlo come in qualsiasi paese all’avanguardia, che le pubblicazioni di spessore possono essere tranquillamente accantonate da commissioni che hanno l’arbitrio più assoluto e che non vengono sorteggiate ma sono ancora nominate dai rettori, su imbeccata dei docenti dell’ateneo che vogliono piazzare qualcuno, insomma quello che è cambiato, purtroppo, è cambiato in peggio. Per esempio modificare in corsa i criteri di valutazione, pur attenendosi formalmente al bando, significa ritagliare il concorso su misura per il candidato prescelto che dovrà vincere. Questo meccanismo andrebbe assolutamente interrotto, così come l’arbitrarietà e la discrezionalità assoluta delle commissioni, peraltro in questo senso mi conforta una recente sentenza della cassazione su un concorso per l’avvocatura la quale ha messo per la prima volta in discussione proprio questo aspetto, il che mi fa ben sperare anche per la sentenza relativa al mio caso.
L’età media dei docenti ordinari in Italia è tra le più alte al mondo. Sono gli unici, insieme ai politici, a non volersene mai andare. Siamo un paese vecchio ed è, su scala internazionale, uno degli indicatori del declino del nostro paese.  Io sarei per un pensionamento coatto a 65 anni di tutti gli ordinari italiani. Mi hanno lanciato contro i molossi adducendo le “necessità della ricerca”. Ma io dico: chi vieta a un professore in pensione di continuare a fare ricerca? Andando in pensione  farebbe “spazio” alle menti giovani nel paese, pur nei limiti del blocco del turn over. Non per giovanilismo ma per giuste opportunità. Per necessità del paese. 
Sul pensionamento dei docenti più vecchi hai perfettamente ragione, nel senso che nessuno vieta che, andando in pensione e liberando il posto ai più giovani , essi possano continuare a fare attività di ricerca ed eventualmente anche didattica a costo zero – ma eventualmente in aggiunta ai nuovi assunti – , quindi sarebbe fortemente auspicabile questa soluzione, solo che ci si scontra proprio con quel muro di gomma, che poi è la “casta” dell’università, non tanto diversa da quella politica, nel senso che i docenti più anziani hanno interesse a rimanere a lungo al loro posto non solo e non tanto per conservarlo a se stessi, ma per garantire la selezione di persone a loro vicine, di piazzarle dentro, creare le lobbies, in modo da alimentare quel meccanismo chiuso ed autoreferenziale e in modo che anche le nuove leve agiscano sulla base degli stessi metodi di cooptazione fondati non su elementi oggettivi, cioè su titoli, pubblicazioni, stima professionale e della comunità scientifica, ma su amicizia, favori reciproci, scambi. Insomma le cosiddette clientele. Il punto è che tutti sanno come funzionano le cose, ma nessuno ha il coraggio e la forza psicologica ma anche mediatica di denunciare i soprusi e i favoritismi. Anche nel tuo partito, il PD, tutti a ridere o ad accusare i “rottamatori”, a dar loro dei rivoluzionari. Eppure basterebbe leggere e applicare le regole del vostro Statuto per dargli semplicemente ragione; sul rinnovamento e sul ricambio ci sono più di un articolo in quello Statuto, no? Nessuno lo rispetta. La parola è: malafede e paura.

Tutti parlano di merito in Italia. Parlo della classe dirigente (universitaria, economica, politica, culturale). Eppure io ho la certezza che tutto sto parlarne sia falso, sia ipocrita, è un modo per esorcizzarlo, visto che poi, nei fatti, il costume italiano è ormai allineato su pratiche antimeritocratiche di cooptazione, di nepotismo, di clientelismo. Non tanto durante gli studi, come malsanamente pensa qualcuno, perché nella scuola e nella formazione universitaria promossi e bocciati seguono le vie ordinarie e i voti sono regolarmente assegnati. Il problema è il dopo, ma, furbamente, non lo dice nessuno. Appena finiti gli studi, chi “inizia” la vita si trova un muro di “immeritocrazia” e di imbrigliamento coatto delle menti  più libere e capaci costruito proprio da coloro che cantano le lodi al “merito”. Inizia il ricatto del lavoro. Subito in modo più grave e pesante dalle menti migliori, viste non come una risorsa del paese ma come una minaccia alle posizioni costituite. Accade nelle università, accade nella politica, accade nella pubblica amministrazione, accade anche nelle istituzioni culturali. Il coraggio: si può dire che ci hanno trattato (parlo della “generazione perduta”,  noi che oggi abbiamo 30 – 40 anni, coloro che potevamo essere la nuova classe dirigente – culturale, accademica, politica-  e siamo esclusi da quasi tutto, sospesi tra il non più e il non ancora) per come ci siamo fatti trattare? Nel senso: la maggior parte dei nostri colleghi sono complici e conniventi con tutto ciò. Per paura, per abitudine, per sfiducia nel trionfo delle regolarità..eppure qualcuno potrebbe dire a ragione: la colpa è stata vostra che non vi siete ribellati, che non avete preteso la trasparenza, che vi siete accollati il ricatto …ma oggi risorse e finanziamenti scarseggiano per cui la promessa di qualche anno fa “aspetta toccherà anche a te” non ha certezza di essere mantenuta. Tu sei uno dei pochi a fare ricorso, a esserti ribellato, o pensi che i ricorsi stiano aumentando?
Sì è vero la colpa di come stanno andando le cose nell’università è soprattutto nostra, dei “giovani”, che si sono finora adeguati a certi meccanismi, li hanno accettati, avallati e spesso li giustificano anche in modo davvero inspiegabile. Riguardo alla mia vicenda ho dovuto assistere a ragionamenti incredibili per giustificare o in qualche modo “perdonare” le scelte della commissione. Bene, questo ragionamento fatto da gente precaria, da gente “giovane” (purtroppo in Italia a 36 anni si è considerati ancora tali) come me , onestamente, mi sembra inspiegabile. O meglio la spiegazione sta nella paura di essere tagliati fuori, di essere abbandonati a se stessi, di perdere i propri “padrini”, ma si tratta di un modo di ragionare di comodo, in difesa, no diverso da quello che accade in politica e dentro i partiti, invece bisogna giocare all’attacco per cambiare completamente le cose. Per questo trovo ridicolo e offensivo tutto questo parlare di “merito” che fanno da destra a sinistra. Il problema non è il “merito” o il premio al più bravo, sono astrazioni che diventano distrazioni. Il problema, e investe ogni angolo della società italiana, è il mancato rispetto delle procedure, la corruzione a tutti i livelli, la mancanza di trasparenza, l’insabbiamento, gli errori amministrativi e burocratici che nessuno paga. All’Università, nei fatti non esiste nessun regolamento, nessuna procedura di controllo che assicuri, non dico la promozione del merito (che mi sembra aria fritta) ma la semplice, sana regolarità dei mezzi di selezione. Le regole anzi vengono “adattate” e cambiate volta per volta, cucite addosso, anche durante un procedimento concorsuale. Quando basterebbe verificare in modo onesto le produzioni fatte, le ricerche in corso, tramite gli standards internazionali della comunità scientifica, della ricerca o dei risultati. Quando parliamo in modo così provinciale di merito facciamo ridere la classe scientifica internazionale. Non assicuriamo un concorso a un ricercatore che ne ha titoli e capacità, non promuoviamo il progresso di forze giovani e libere nella politica, nelle imprese, nella cultura, e ci affanniamo a trovare i modi con cui dare medagliette o premi ai ragazzi che sono primi nelle scuole? Sì, facciamo ridere. A meno che non ne riconosciamo la malafede assoluta: è più semplice dare una medaglietta o produrre la retorica del “primo” sganciata da ricadute effettive sul sistema, che rinunciare a posizioni consolidate favorendo il ricambio con forze migliori. Il ricambio implica la rinuncia a poteri consolidatissimi.
Il paese, l’opinione pubblica si confondono, plaudono, ovviamente, a questi provvedimenti “civetta” e inutili, non sapendo che nulla cambia così e l’unico merito che ti porta avanti è sempre quello italiano del familismo o del nepotismo amorale. Del clan, della lobby, dell’appartenenza. Il contrario insomma di quello a cui uno pensa se gli vengono in testa: scienza, progresso e libertà. Altro che atenei migliori e altro che competizione internazionale. Attualmente, per tornare al mio ambito, ora più che mai bisogna rendersi conto che l’università vede, nella precarietà degli accessi e delle condizioni di lavoro assolutamente ingiuste di sfruttamento , una gravissima minaccia all’indipendenza intellettuale della ricerca, poiché tutti, anche i più giovani, sono spinti a conformarsi alla volontà e alle decisioni dei poteri consolidati, dei docenti più forti e ambiziosi, quelli che poi risultano sempre eletti o nominati , basterebbe fare una statistica, nelle commissioni di concorso degli ultimi anni. Si dovrebbe, per esempio, vietare la possibilità che certi docenti, i soliti nomi, entrino sempre nelle commissioni, mettere una sorta di congelamento per un certo periodo se si è fatto parte di una commissione di concorso. Questo non risolverebbe il problema, perché comunque gli accordi sottobanco rimarrebbero, ma probabilmente lo allevierebbe. Inoltre i più giovani tendono a farsi condizionare anche dall’idea ormai passata ovunque che la cultura e la ricerca debbano per forza quantificarsi in termini di produttività, di mercato, di guadagno rigidamente economico, questo crea meccanismi che uniti alla paura di cui parlavo prima stanno demolendo il sistema universitario italiano, anche nei tanto bistrattati studi umanistici, un tempo preso a modello ovunque.

Come è il clima che hai intorno? Come ti considerano i colleghi? La notizia di un altro concorso “falsato” per cui è indagato in questi giorni addirittura un sottosegretario, Adelfio Cardinale (http://livesicilia.it/2012/08/09/concorsi-truccati-alluniversita-indagato-adelfio-elio-cardinale ),  come ti giunge?
Su Cardinale? Non mi stupisce. Mi stupisce, e non poco,  che nessuno ne pretenda le dimissioni da sottosegretario. Anche se semplicemente indagato c’è un rispetto dovuto alle istituzioni che in Italia è calpestato di continuo con la scusa della presunzione d’ innocenza non vi è mai nessun responsabile. Dovrebbe dimettersi già solo per lo scandalo. Penso anche all’assurdo caso dei tests sbagliati nel concorso di accesso al tirocinio per insegnanti. Come puoi accusare gli insegnanti di scarso livello qualitativo se non sei nemmeno in grado di selezionare regolarmente e con competenza quelli nuovi? Allucinante: un ministro serio doveva dimettersi anche in quel caso, di fronte a uno scandalo simile. E invece? Silenzio totale dal Consiglio dei Ministri del Merito. Silenzio anche dall’opinione pubblica. Per questo dico che mi sembrano tutti in malafede. Non pagheranno nemmeno i fior di “esperti” che hanno prodotto questa vergogna. Pagano i cittadini in termini di fiducia nelle istituzioni. Come far loro una colpa se si allontanano sempre di più e se l’ astensione dal voto cresce? Fa comodo avere un’opinione pubblica lontana e sfiduciata. Quelle che si diffondono e si impongono nell’animo dei cittadini a causa della deresponsabilizzazione generale su ogni cosa. Ecco le sconfitte democratiche serie. Cardinale sta lì, Profumo sta lì, nessuno si stupisce più del peggio che è sempre peggiore. E il peggio è disonestà. Se lo Stato la avalla è la fine. Se i cittadini se ne disinteressano e si “abituano” è la fine. Il clima che respiro intorno nell’ambiente universitario? E’ una cappa di silenzio (e spesso di omertà), anche se qualcuno fa sentire il suo appoggio, soprattutto privatamente. Devo dire di aver avuto consigli e solidarietà soprattutto dalle due fasce opposte di età, cioè da docenti ormai navigati, con grande esperienza, possibilmente in pensione che non fanno più parte del sistema o che hanno la forza morale e l’onestà intellettuale per criticarlo e metterlo seriamente in questione, e dai più giovani, cioè ragazzi e ragazze, studenti, dottorandi, che mi hanno scritto di andare avanti, di fare questa battaglia anche per loro, addirittura qualcuno mi ha detto che aveva pensato di lasciar perdere su consiglio di docenti e amici ma che poi dopo aver visto la risonanza della mia vicenda ha cambiato idea ed ha deciso di ricorrere, di contestare le irregolarità, di non pensare che sempre tutto è deciso e prestabilito da entità supreme, per non lasciare campo libero ai “soliti noti”. So di molti nuovi ricorsi che stanno montando. E’ bene che le nuove leve dell’università sappiano, per esempio, che dopo aver partecipato ad un concorso, il cosiddetto accesso agli atti per capire con quali criteri e come sono stati attribuiti i punteggi che hanno dichiarato il vincitore,  è un atto doveroso, può farlo chiunque senza bisogno di alcun avvocato, basta fare una richiesta scritta entro i tempi all’università che lo ha bandito, non è un atto rivoluzionario o il voler mettere il naso nell’operato delle commissioni, ma un diritto di chiunque ha partecipato, solo che nell’ambiente si cerca di dissuadere dal farlo proprio per coprire le irregolarità. Io mi sento di dire a tutti, giovanissimi studenti e giovani amici colleghi, che è giunto il momento di prendere posizione in modo chiaro e inequivocabile contro certi metodi, anche se provengono da ambienti e persone a noi vicini (come è stato il mio caso, anche per questo ha destato clamore e molti mi hanno dato del coraggioso ma anche del temerario), perché solo così è possibile giungere – lo so è un percorso lungo e non facile – all’università che davvero vogliamo. Io non ho paura delle ritorsioni, ma se siamo in tanti ad agire in questo modo – e se chi decide il bello e il cattivo tempo nell’università capirà che può essere in qualsiasi momento denunciato e attaccato pubblicamente, da più fronti e da tante persone, la paura di fare scelte difficili sarà ancora meno forte. L’unione fa la forza e quando si sa di essere nel giusto non si deve mai avere paura delle conseguenze delle proprie azioni. Questo principio credo valga su qualsiasi aspetto della vita di ognuno.

Nessuno degli atenei italiani è tra i primi cento posti degli atenei migliori al mondo, eppure i nostri ricercatori all’estero sono sempre i migliori, mentre in Italia queste forze non emergono, pensi che il nepotismo, la cooptazione e l’imbrigliamento delle forze più giovani possano essere tra i motivi? Esistono delle oasi?

Parliamo di galassie diverse e lontanissime. All’estero, o comunque in molti paesi stranieri, la ricerca universitaria e il ruolo di docente universitario (e spesso più in generale quello di insegnante, come sai bene) sono considerati importantissimi e imprescindibili per l’evoluzione delle società, non a caso all’importanza corrisponde una retribuzione elevata. La retribuzione elevata è la conseguenza dell’importanza sociale del ruolo, non la premessa. E’ sostanziale la precisazione. In Italia i ricercatori, precari o stabili che siano, sono considerati come l’ultima ruota del carro, vengono sottovalutati e sottopagati. Come anche gli insegnanti: la scusa è la scarsità di risorse. La verità è lo scarso riconoscimento dell’importanza del ruolo dell’istruzione, della cultura e della ricerca. Responsabilità? Una classe politica sorda, di bassissimo livello, cieca e a breve termine. Non si rende conto che la “ricchezza delle nazioni” (come frutto misurabile in chiave economica, ma anche civica, del livello scientifico e culturale) si misura esattamente nell’impegno e nel sostegno alla ricerca, alla cultura e all’educazione. Lo ripetiamo da mattino a sera e la risposta è sempre di tipo marginale, mai sostanziale: la medaglietta o il voto sono due esempi di marginalità ridicola nella risposta politica. Segno che non hanno capito nulla: ma come possono capirne se il livello medio è quello che conosciamo? A questo processo di decadenza e impoverimento culturale del paese e dell’università italiana hanno contribuito anni di disinteresse e di riforme fondate sulle parole d’ordine “taglio degli sprechi”, “esubero”, “razionalizzazione”, ma è stato solo un modo per depotenziare e far perdere di significato e di importanza il ruolo della cultura critica, proprio perché la politica voleva avere sempre più campo libero, voleva cittadini e studenti sempre meno attenti e sempre più sottomessi. Oggi, peggio ancora, non c’è nemmeno questo perseguimento. E’ molto più banale: non ne riconoscono l’importanza perché, semplicemente non sono né uomini di cultura, né uomini di scienza, né hanno gli strumenti per capirlo. E lo vediamo nell’arroganza priva di margini contrattuali con cui riescono ad imporre nel paese decisioni suicide per quel che riguarda scienza e coscienza. Indubbiamente se all’estero i ricercatori italiani trovano più spazio e sono considerati tra i più bravi e preparati e in Italia questo non accade il motivo è riconducibile proprio ai meccanismi di reclutamento oltre che all’impoverimento dell’offerta didattica: se ad insegnare vengono mandati non i più bravi ma gli amici e i conoscenti (quando non direttamente i parenti) è chiaro che le forze migliori sono costrette all’attesa, a cambiare prospettive lavorative, quando non direttamente alla fuga dal paese. Certo, sarebbe sbagliato generalizzare e dire che ovunque le università utilizzino metodi di dubbia moralità, esistono infatti sedi universitarie (poche per la verità) che fanno dell’eccellenza e del merito gli elementi se non esclusivi quanto meno più importanti: nel caso della storia contemporanea, i dipartimenti di Torino e di Bologna hanno rappresentato, sia per l’offerta dei corsi, sia per lo spessore dei docenti, dei modelli da seguire.

Altrove chi fa ricerca è pagato meglio, lo abbiamo detto, se ha autonomia di pensiero e indipendenza è premiato, non punito come “presuntuoso”, da noi le cose vanno come abbiamo scritto: perché non vai via? 
Devo dire che a volte lo scoramento e la delusione è tale che mi verrebbe davvero voglia di partire, ma poi ci rifletto e mi dico che sarebbe una sconfitta cocente, non solo per me, ma credo anche per il paese e per l’università. Anni fa partii dalla Sicilia per laurearmi e proseguire i miei studi universitari di specializzazione a Firenze e non fu facile perché sono molto legato alla mia terra, ma lo feci nella speranza di tornare. Lo stesso farei se dovessi decidere di andare all’estero, ma credo che sia dovere di ognuno di noi tentare di migliorare e cambiare le cose nell’oggi e nel nostro paese. Quanto meno occorre provarci fino alla fine. La fuga, a mio avviso, sarebbe comunque la soluzione più facile ed io sono sempre stato affascinato dalla complessità e dalle cose difficili da raggiungere.
La conversazione con Giambattista vira su altro, sull’ oggetto dei suoi studi, sulla politica, su temi specifici che interessano entrambi, sul suo prossimo libro, dedicato al gruppo parlamentare della sinistra indipendente. Non finiremmo mai di parlare e siamo come i clerici vagantes medievali, certi del valore della conoscenza e del sapere oggi come allora, quando quel sapere creò l’Europa che tutti inseguono senza saperne granché. Ci sentiamo però come degli anarchici, quando anarchici non siamo.  Siamo quelli che son tornati per rimanere. Io ho mollato, non faccio più ricerca, insegno a Palermo. Lui combatte a Catania e ha tutto il mio appoggio e sostegno. Forse nel mio caso il paese ci ha guadagnato un insegnante motivata, soddisfatta e fiera di quello che fa, piuttosto che un’esperta di arte barocca, ma quando guardo, come in questo istante, i libri della mia vita, nello scaffale accanto alla mia scrivania, subisco per intero il fallimento e il dolore di una vita che poteva essere diversa, perché la mia vita è quei libri. Anche se del fallimento ne ho fatto un’opportunità.
Oggi compio 45 anni e sono la Generazione Perduta, arrabbiata tanto da non volerne sentire parlare in modo inutile. Dico adesso a chi ha vent’anni, ascoltate Giambattista: denunciateli quando vi rubano il futuro in modo illecito. E’ inutile aspettare una legge che controlli,  punisca o verifichi in modo serio le irregolarità ovunque siano, non ve la faranno, non costoro. Fatelo voi.  Fatelo per l’Italia non per voi stessi. Non perché siete ribelli, ma perché siete onesti. 
Mila Spicola

giovedì 23 agosto 2012

Crisi mondiale d'Acqua nel 2012 Lanciato L'ALLARME!

Bilderberg: "Il salotto dei potenti ha deciso, pronti centinaia di Mld di euro per Monti Premier"

di Redazione Popolari Washington


Il Club Bilderberg (   http://it.wikipedia.org/wiki/Gruppo_Bilderberg  )  pronto ad investire centinaia di Mld per la campagna elettorale di Mario Monti a Premier
Nell'ultima riunione del Comitato direttivo, il Club Bilderberg per la prima volta ha deciso di entrare direttamente nella politica italiana, è pronto a mettere sul piatto centinaia di Mld per portare Mario Monti alle prossime elezioni politiche del 14-15 Aprile 2013. Il gruppo sta progettando una campagna elettorale senza precedenti, investimenti a tutto campo nella comunicazione globale, TV (Sky - RAI), Principali organi di stampa, agenzie di Stampa presenti sul web (Mediaset). Nessun gruppo di potere italiano potrà competere con la grande macchina Trilaterale. Nel Comitato Direttivo si è deciso anche la ripartizione degli investimenti usando come metro lo share (indice di ascolto), un metro diverso si è deciso per la TV di Rupert Murdoch per il quale sono previsti investimenti per oltre 50 Mld, in questo caso non si è basati sullo Share ma sul Target degli utenti, ha meno utenti ma di cultura medio alta con potere incisivo e decisionale sul voto. Altri 40 Mld saranno messi a disposizione della Rai di questi 30 mld solo alla prima rete nazionale. Anche per i principali quotidiani che favoriranno la vittoria di Mario Monti c'è un bel piatto da divedersi Repubblica (10 Mld) - Corriere della Sera (8 Mld), La Stampa e Il Giornale (2,5 Mld ciascuno), una bella fetta è pronta anche per il giornale della Confindustria Il Sole24 Ore e per il Secolo XiX (1 Mld ciascuno). Altri 25 Mld saranno investiti nella Agenzie di stampa che operano sul Web e tra queste quella che la farà da padrone sarà Mediaset con ben 15 Mld, (in totale ai gioielli di famiglia andranno 17,5 Mld), naturalmente con questo assegno staccato, Berlusconi è stato liquidato. Tra i progetti la conclusione della Torino - Lione e la relativa concessione, la privatizzazione della Rai e la cessione al Club Bilderberg. Il Club punta ad una maggioranza assoluta per Mario Monti e fare dell'Italia il primo Paese privilegiato del Club Bilderberg su cui dovrà investire l'alta finanza mondiale.


mercoledì 22 agosto 2012

ECCO DOVE E COME BERLUSCONI PRESE I SOLDI PER MILANO 2

Scritto da   

Parla Ezio Cartotto, ex esponente della Democrazia Cristiana milanese, e descrive l’ascesa di Berlusconi, partendo dalla Banca Rasini e arrivando alla costruzione di Milano 2, passando per la loggia P2 e Monte dei Paschi di Siena.
Il periodico “L’Espresso” riporta che Cartotto ha consegnato alla Procura di Firenze un baule pieno di documenti che dimostrerebbe la veridicità della tesi avanzata da Cartotto sull’ascesa di Silvio Berlusconi.

Cartotto era un consulente di Marcello Dell’Utri e ha assistito Berlusconi per superare gli ostacoli delle normative urbanistiche da poco in vigore, all’epoca della costruzione di Milano 2. Cartotto, secondo le sue dichiarazioni, fu molto vicino a Silvio Berlusconi, tanto da essere suo confidente di sfoghi e particolari che ora rivela ai pm della Procura e ai giornali.
Dell’Utri aveva portato Cartotto anche all’interno di Forza Italia, per riuscire a costruirla, vista la sua preparazione da politologo.
La posizione di Cartotto lo portò a dichiarare ai magistrati, già alla fine degli anni ’90 dei famosi “pacchi di soldi provenienti da Palermo negli anni ’70 e divisi con Dell’Utri”. Non fu data importanza alle sue dichiarazioni all’epoca, ma oggi potrebbero riacquistare peso.

Carlotto racconta la storia partendo proprio dalla banca milanese: “La banca fondata dai nobili Rasini fu acquistata nei primi anni ’70 da Giuseppe Azzaretto, affarista di Misilmeri, periferia di Palermo, in realtà era controllata da Andreotti, era la sua banca personale”. Carlotto dipinge Andreotti come amico stretto del proprietario della Banca Rasini: “Andreotti andava in vacanza tutti gli anni nella villa degli Azzaretto in Costa Azzurra”. 
Quando la banca passò di proprietà, fu acquistata da Nino Rovelli, “industriale legatissimo ad Andreotti”, nonché avvocato di Cesare Previti.
Proprio da quella banca partirono i primi finanziamenti per l’attività imprenditoriale di Slvio Berlusconi.
La “faccenda” di Milano 2, invece, implica anche altre finanziarie, soprattutto per l’aumento di capitale del progetto nel 1973: “Berlusconi figurava come dipendente della Edilnord e la società era controllata da finanziarie svizzere intestate a una domestica e a un fiduciario”.

Silvio DellUtrioMa come mai Cartotto ha questi documenti e, soprattutto, li ha conservati sino a oggi senza rivelarli?
Risponde direttamente nelle sue parole al periodico dicendo di aver conservato tutte le carte “per dimostrare che Berlusconi ha raccontato bugie fin dall’inizio”. La rottura del silenzio è dovuta a una ripicca: “Al processo di Palermo rivelai ai giudici che Dell’Utri mi aveva chiesto voti per Vito Ciancimino. Dell’Utri si arrabbiò e si lamento con Berlusconi”.

Cartotto è stato anche recentemente interrogato dai pm che indagano sulla trattativa Stato-Mafia. Visto che il consulente della Procura di Palermo degli anni ’90, Francesco Giuffrida, aveva riscontrato un trasferimento totale, in 8 anni, di 113 miliardi di lire alle holding Fininvest, è anche probabile che, viste le “conoscenze” di Cartotto, sia stato interrogato a riguardo.
Tuttavia, la DIA aveva intercettato l’ex DC il 25 novembre, quando cercò di contattare Berlusconi per fargli presente che era stato contattato dai pm, ma dovette accontentarsi di parlare con la segretaria” Credo che riguardino sempre quel famoso problema degli accordi tra la mafia, ecco… io non riesco a capire perché questi signori si ostinino a chiedere a me cose che io non sono assolutamente in grado di sapere. Né in un senso, né in un altro”.

A che gioco starà giocando Cartotto?

Tsipras, il Che della Grecia

3che
di Barbara Ciolli
Ha idee forti, carisma da vendere e il physique du rôle che, in Europa, gli è valso
 l'appellativo di «Che Guevara» della Grecia.
Alle elezioni del 6 maggio, il leader della Sinistra radicale (Syriza) Alexis Tsipras
 ha visto il suo partito schizzare dal 5% al 25%. E ad Atene è rimasto forse l'unico
politico a poter girare indisturbato in centro con la sua moto, o addirittura a piedi,
senza rischiare di essere aggredito a colpi di uova marce e insulti.
IL RIFIUTO A PAPANDREOU. E non solo perché, nel 2008, il 38enne astro nascente
dei comunisti fece la scelta fortunata di snobbare l'alleanza (e il futuro governo) con l'ex
premier socialista George Papandreou. «Ci releghereste in un angolo, con due o tre
ministeri inutili. Grazie mille, ma diciamo no», rispose con orgoglio il leader di Syriza al Pasok.
L'ASCESA DELL'INGEGNERE. Già allora, l'ascesa di questo giovane ingegnere no-global
 era vista come «pericolosa» da chi, anche a sinistra, faceva parte del sistema.
Così per neutralizzarlo, Papandreou aveva provato a lanciargli l'esca di una grande
 coalizione riformista. Inutile dire che il leader cresciuto nel vivaio del Partito comunista greco
Synaspismos e ora intenzionato a stracciare il memorandum dei controllori della Troika
 (Unione europea, Banca centrale europea e Fondo monetario internazionale) non abboccò.
Nei cinque di anni di recessione che hanno portato la Grecia al crollo del 7% del
Prodotto interno lordo (Pil), Tsipras è sempre rimasto fuori dai giochi, giudicando
 l'operato dei governi dall'esterno e mantenendo fede ai principi che, nel 2006,
 gli valsero un sensazionale 10,5% di preferenze nella corsa a sindaco di Atene.
IL FRONTE ANTI-LIBERISTA. Come nessun altro l'allora 30enne - che, nel 2004,
 aveva dato vita alla coalizione della sinistra radicale ed ecologista Syriza - era
 riuscito a convincere le piazze sull'urgenza di bloccare le riforme neo-liberiste,
foriere d'austerity. E sulla necessità di creare un fronte europeo comune, che,
attraverso il Social Forum, si schierasse compatto contro i potentati finanziari globali.
Con la crisi economica del 2009 e il crollo dell'Eurozona del 2012, in Grecia e non solo,
 il manifesto politico di Tsipras è diventato l'unica alternativa al diktat dei tagli alla spes
a e della demolizione dei diritti al lavoro, all'istruzione e alla sanità pubblica.
DIRETTO E DAI TONI DECISI. Padre di un figlio e compagno di Peristera Baziana -
sua vicina di banco al liceo e militante, pure lei, nei giovani comunisti -, sin dai comizi
studenteschi, Tsipras ci è sempre andato giù duro con i toni.

Forse perché, sui contenuti, non ha mai avuto dubbi. «Non credo negli eroi e nei salvatori.
 Ma credo nella lotta per i diritti. E nessuno ha il diritto di ridurre un popolo fiero come il nostro

in un tale stato di miseria e umiliazione», ha dichiarato il leader parlando del suo Paese precipitato
 in un «clima di pessimismo, depressione e suicidi di massa».
«LA STRADA DELL'INFERNO SOCIALE». Sul perché si sia arrivati alla «strada dell'inferno sociale»,
 il numero uno di Syriza ha le idee chiare e non da ora.
La Grecia, uno dei Paesi più piccoli e vulnerabili dell'Eurozona, è stata usata come
 «esperimento» da «banchieri globali, capitalisti e speculatori di Borsa», per imporre
lo «choc neo-liberista» agli Stati membri.
Per Syriza, dunque, nell'Ue è in corso una guerra tra «popoli e capitalismo»,
con Atene in prima linea. «Se l'esperimento continua, il modello sarà imposto a tutti.
Ma se riusciamo a fermarlo, sarà una vittoria non solo per la Grecia, ma per tutta Europa.
La sola, vera sconfitta è una battaglia non combattuta».
Sia chiaro, Tsipras non ce l'ha con la Germania, anche se sostiene che il governo della
cancelliera Angela Merkel ha «una responsabilità storica» nella crisi dell'Eurozona.
Né, populisticamente, ha mai chiesto l'uscita di Atene dall'euro.
«Non siamo contro l'Unione europea o contro l'unione monetaria. Vogliamo solo
convincere i nostri partner che il modo scelto per affrontare la crisi greca è totalmente
controproducente. È come gettare i soldi in un pozzo senza fondo», ha ribadito in campagna elettorale.
Quel che conta, per Tsipras, è tenere la schiena dritta, rifiutando qualsiasi forma di sottomissione
imposta dal ricatto della Troika.
LA FORZA DEI DEBITORI. È bene, infatti, ricordare a banchieri e governi alleati che,
 «in un prestito, la forza è anche dei debitori». «Se salta il memorandum», ha minacciato Tsipras,
«saltano anche i pagamenti degli interessi. John Maynard Keynes lo diceva molti anni fa.
Con il moltiplicarsi del debito, anche la persona che presta, cioè le banche, possono trovarsi in
una posizione difficile».
A più riprese, i leader tedeschi hanno minimizzato, dichiarando come, ormai, l'effetto domino
della Grecia «sia stato neutralizzato». «Ma poi ci sono il Portogallo, la Spagna, l'Italia... », ha ribattuto

 sicuro Tsipras. Che, di certo, non è uno che scherza.
Persino politici europei progressisti come il tedesco Martin Schulz, presidente del parlamento europeo,
 hanno espresso stima nei suoi confronti. Ma hanno anche ammesso di temerlo per alcune sue posizioni
 «rischiose».
LA LINKE TEDESCA DALLA SUA PARTE. I leader della Linke, la sinistra radicale tedesca,
hanno invece stretto la mano al «Che Guevara greco», nato, ironia della sorte, il 28 luglio
come il venezuelano Hugo Chávez, seppur qualche anno dopo.
Al suo fianco, nel Partito della Sinistra europea, c'è anche il segretario di Rifondazione comunista
 Paolo Ferrero. Perché, con «con Syriza che propone una modifica della politica economica a partire

dall'azzeramento del memorandum», siamo «dalla parte della soluzione», non «complici della catastrofe».
 E il «re è nudo».
da lettera43.it

martedì 21 agosto 2012

Il buco nero dell’evasione fiscale globalizzata



Abbiamo trovato il grisbi. Grazie alle ricerche compiute da James S. Henry, ex capo economista di McKinsey & co. , che ha scartabellato e scavato nella documentazione delle principali organizzzioni finanziarie internazionali  (cfr. il manifesto di qualche giorno fa), esiste un’enorme massa di denaro sottratta al fisco che fa capo in buona parte alle 91.000 persone più ricche del mondo, appena lo 0,01% della popolazione mondiale. Si tratta, secondo Henry, della bazzecola  di una somma che si stima dai 21 mila ai 32 mila miliardi di dollari  non dichiarati, ovvero una somma pari ai prodotti nazionali di Stati Uniti e Giappone messi insieme. L’esistenza di questa massa monetaria offshore o per meglio dire fuorilegge, falsa ovviamente qualsiasi statistica sia essa relativa alla disuguaglianza sociale che al cosiddetto debito, sia dei Paesi in via di sviluppo che di quello dei Paesi economicamente avanzati, tra i quali il nostro.



Il ruolo nefasto dei cosiddetti paradisi fiscali è stato costantemente denunciato da un’organizzazione come Tax Justice Network che si muove per la trasparenza nella finanza internazionale, la quale come è noto è invece basata sul segreto, tanto è vero che per qualificare buona parte di essa Luciano Gallino ha coniato la felice espressione di finanza-ombra.
Complici di questa canagliata mondiale sono ovviamente le solite banche e società finanziarie: Goldman Sachs. etc.
La circostanza che il nostro buon Presidente del Consiglio, che di alcune di queste organizzazioni ha fatto parte, e non come usciere o addetto alla vigilanza, proclami la necessità di una vera e propria guerra all’evasione fiscale, fa un pò sorridere e un pò indigna. Probabilmente si riferisce al carrozziere dietro l’angolo o al tassista. Non  a coloro che hanno imboscato somme dell’entità indicata per sottrarle alla tassazione. Fatto sta che, come correttamente evidenziato dal Fatto quotidiano, Monti, pur avendo trascorso, come è suo diritto, le sue vacanze in Svizzera ed avendone approfittato per incontrare la presidente, non ha cavato un ragno dal buco per quanto riguarda l’accordo sul rientro dell’evasione fiscale già stipulato dal Paese elvetico con altri Stati europei. Come mai? 
Qualcosa mi dice che, se vogliamo fare una lotta seria all’evasione fiscale, dobbiamo cambiare registro e governo.
Qualche considerazione più in generale. C’è chi attribuisce la crisi finanziaria ai fisici, come ha scritto in un ottimo intervento Francesco Sylos Labini. In realtà le competenze da attivare sono per certi versi quelle degli astrofisici. Quello  individuato da Henry, infatti, ha le caratteristiche di  un vero e proprio buco nero.
Scherzi a parte è evidente a questo punto a tutti che  l’elusione ed evasione fiscale assumono le dimensioni di enormi problemi globali. Altro che carrozziere all’angolo o negozianti di Cortina D’Ampezzo… i quali ovviamente devono pagare le tasse come tutti noi, possibilmente nel contesto di un sistema fiscale meno iniquo di quello attuale che persegue i pesci piccoli e piccolissimi e lascia scappare quelli grossi…. nello stile solito dei governi italiani e delle forze politiche che li sostengono, forti con i deboli e deboli con i forti…
Alcune proposte, sul piano europeo, per far fronte a questa situazione sono state formulate da un gruppo di economisti francesi, i cosiddetti economisti sgomenti e ci tornerò sopra prossimamente.
C’è da scommettere però che il governo Monti e le tre scimmiette ABC resteranno sordi di fronte a qualsiasi proposta di questo tipo. Ma occorre andare avanti. Ora che la refurtiva è stata perlomeno individuata, occorre recuperarla e mettere in condizioni di non nuocere i ladroni e la loro articolata e potente rete di complicità. A questa esigenza risponde il progetto dei giuristi democratici di dar vita a un tribunale internazionale sui crimini della finanza. Quello di perseguire tali crimini costituisce un  compito per tutti noi e in particolare per le nuove generazioni. A meno che non vogliano trascorrere un’esistenza davvero brutta, all’insegna di precariato e miseria crescenti, pur avendo il grande privilegio di ascoltare baggianate del tipo di quelle  che Monti ha pronunciato l’altro ieri nel covo di Formigoni &Co.

lunedì 20 agosto 2012

PERDIAMO TERRENO









Il cemento sta coprendo l'Italia: la superficie impermeabilizzata è in costante aumento: 500% in più in circa 50 anni. A lanciare l'allarme sono il Wwf e il Fai che nel dossier 'Terra Rubata' raccontano un Paese sommerso dall'asfalto

di GABRIELE SALARI
con un'analisi di ANTONIO CIANCIULLO

Una superficie artificializzata grande quanto il Friuli Venezia Giulia. Nonostante la stabilità demografica in 50 anni c'è stato un forte incremento del territorio urbanizzato: 8.500 ettari all'anno. Un aumento del 500% dal Dopoguerra ai primi anni Duemila. Siamo i primi produttori di cemento in Europa e il business alimenta anche la diffusione delle cave di calcare sui fianchi di colline e montagne

Cinquecento per cento. Di tanto è aumentata la superficie impermeabilizzata dal cemento o dall’asfalto in Italia tra il 1956 e il 2001. Questo crescente consumo di suolo è avvenuto a prescindere dallo sviluppo economico o demografico. Il caso del Molise, la cui popolazione ha una consistenza numerica pressoché costante dal 1861, è significativo: la superficie urbanizzata è passata dai circa 2.316 ettari del 1956 ai 12.030 del
2002, con una variazione positiva quindi di circa 9.700 ettari, pari a un consumo giornaliero di circa mezzo ettaro. Lo stesso si può dire però per tutta l’Italia dove la stabilità demografica contraddistingue gli ultimi decenni, ma dove, tra il 1991 e il 2001, l’Agenzia Ambientale Europea rileva un incremento di quasi 8.500 ettari l’anno di territorio urbanizzato (il doppio della media europea) e l’Istat ben tre milioni di ettari di territorio, un terzo dei quali agricolo, perso tra il 1990 e il 2005. Gli ultimi anni non sono serviti affatto a invertire questa tendenza.

L’allarme, lanciato da Fai e Wwf nel recente dossier “Terra Rubata”, arriva in un momento in cui a livello globale si riscontra la stessa tendenza. La Cina, ad esempio, cerca di accaparrarsi terreni agricoli in Africa per sopperire alle proprie necessità di produzione alimentare. È il suicidio dell’Italia agricola, giardino d’Europa, che ha rinnegato le proprie origini per inseguire l’industrializzazione e che ora, nell’epoca postindustriale, continua a disseminare il territorio di capannoni, invece di recuperare le aree dismesse ed evitare nuovo consumo di suolo.

In Italia è praticamente impossibile tracciare un cerchio di 10 chilometri di diametro senza incontrare un nucleo urbano, con tutto ciò che ne consegue, sia per l’isolamento dei francobolli di natura rimasti che, guardando le cose dal punto di vista opposto, quanto a difficoltà di individuazione di siti idonei per impianti come le discariche che dovrebbero sorgere lontano da un centro abitato.

La nostra economia incentrata sul Pil ha visto nel settore delle costruzioni un suo punto di forza e l’ultimo decennio non ha fatto eccezione, anzi: il 2007 è stato il nono anno consecutivo di sviluppo del settore in Italia, qualificandosi come l’anno in cui i volumi produttivi hanno raggiunto i livelli più alti dal 1970 ad oggi.

Felici di coprire l’Italia di cemento quindi e pazienza se quel suolo è perso per sempre, non potrà più tornare ad essere suolo agricolo. In un’epoca in cui non si prevede crescita demografica e in cui il paesaggio è forse una delle risorse più importanti del Paese, una scelta poco sensata. Anche l’IMU, introdotta dal federalismo fiscale, si conferma come un introito per i Comuni ancora proporzionale in larga parte alla quantità di edifici senza, almeno per ora, vincoli particolari di utilizzazione e quindi del tutto analoga all’ICI negli effetti nefasti sulla trasformazione del suolo.

In uno studio che ha riguardato circa la metà del territorio italiano, si è visto che l’area urbana si è mediamente moltiplicata di quasi 3 volte e mezza dal Dopoguerra ai primi anni 2000, con un aumento di quasi 600.000 ettari in circa 50 anni, cioè una superficie artificializzata pari quasi a quella dell’intera regione Friuli Venezia Giulia.

Il business del cemento, del quale siamo i primi produttori in Europa, alimenta anche la diffusione delle cave di calcare per cementifici che infliggono pesanti ferite al paesaggio,  visto che sorgono sui fianchi di colline e montagne, e risultano visibili a chilometri di distanza, assumendo il tipico aspetto di enormi cicatrici color bianco abbagliante. Eccezionale la situazione nel Casertano, con cave spesso fuorilegge a ridosso di centri abitati, come denuncia il dossier “Terra rubata”, che segnala come questo tipo di cave sia spesso in mano all’ecomafia.

La piaga dell’abusivismo edilizio nel Meridione amplifica a dismisura il fenomeno del consumo di suolo, sia in aree a forte vocazione agricola che in aree dove il buon senso (oltre che la legge Galasso) impedirebbe di costruire, come le pendici dei vulcani. Il Vesuvio è un caso emblematico anche perché a case e altri manufatti, si aggiunge la presenza di cave e discariche, a fronte di un territorio fertile in cui si coltivano diversi prodotti tipici. 

Gli operatori immobiliari hanno meno vincoli urbanistici, edificare costa di meno e il diffondersi dei centri commerciali aiuta ad incentivare le lottizzazioni. La geografia dell'Italia è in rapido cambiamento: non più piccoli centri storici tra vigne e uliveti, ma campagne dentro le città. Degli effetti ce ne accorgiamo durante le alluvioni

Quasi il 60% delle aree urbanizzate è collocato in aree pianeggianti, indubbiamente più comode per ciò che riguarda i collegamenti e più vantaggiose in relazione ai costi di costruzione. Sono bastati alcuni decenni di crollo dell’agricoltura nelle più piccole pianure italiane per provocarne il sacrificio. In pratica, si è consumato più suolo e in modo più estensivo dove questa risorsa era più disponibile e dove costava meno, anche quando i suoli utilizzati erano ad alta vocazione agricola.

“La speculazione legata ai cambi di destinazione d’uso delle aree agricole e all’edificabilità dei suoli ha generato spesso un intreccio tra costruttori e Amministratori pubblici che ha in molti casi stravolto ogni tentativo di seria programmazione e gestione territoriale” spiega Franco Ferroni, responsabile biodiversità del Wwf Italia. “Gli interessi dei grandi costruttori sono molto spesso coincidenti con quelli fondiari, chi costruisce case da tempo compra le terre su cui edificare e non sempre le comprano con l’edificabilità già sancita nei piani regolatori. Il guadagno in questo caso si moltiplica, e di molto”.

Basti considerare che in un’area di fondovalle di Umbria o Marche i terreni ad alta vocazione agricola possono avere costi ad ettaro di 15.000 - 20.000 euro che salgono facilmente a 70.000 - 90.000 euro ad ettaro se il terreno diventa edificabile con un centro residenziale o commerciale che sostituisce i seminativi.  O ancora, quanto può rendere di più un agrumeto della Costiera Amalfitana se invece che produrre il limone sfusato di Amalfi, il terreno viene impiegato come parcheggio dai turisti che affollano d’estate la località di mare?

Andando su e giù per lo Stivale si nota come si stia sfaldando il tessuto italiano fatto di piccoli centri storici immersi in orti e vigneti, campi e pascoli. I centri medioevali si svuotano di abitanti perché vengono considerati “scomodi” visto che spesso non si può posteggiare l’automobile sotto casa. Costruire su spazi verdi extra-urbani costa poi meno rispetto ai costi di recupero e di adeguamento del patrimonio immobiliare esistente e gli operatori immobiliari nei territori extra-urbani trovano minori vincoli urbanistici. Non solo, il diffondersi di grandi centri commerciali periferici  incentiva ulteriormente la nascita di lottizzazioni extraurbane e l’uso dell’automobile. Più case isolate e più centri commerciali portano alla necessità di più strade e quindi a una crescita esponenziale del consumo di suolo.

“Un’altra causa del fenomeno è rappresentata dalla possibilità per i Comuni di utilizzare fino al 50% degli oneri di urbanizzazione per pagare le spese correnti. In carenza di altre risorse questa norma ha incentivato da parte delle amministrazioni locali il cambio della destinazione d’uso dei terreni agricoli in aree edificabili anche in assenza di un reale fabbisogno, per aumentare le entrate nei propri bilanci e mantenere i servizi essenziali” spiega Ferroni.

I dati a disposizione indicano che in Pianura Padana il 9,9% della superficie è occupato da opere d’urbanizzazione, cave e discariche, con punte del 12,5% nelle aree dell’alta pianura e del 16,9% in corrispondenza delle colline moreniche. In Versilia e nelle pianure interne della Toscana, Umbria e Lazio il consumo di suolo per attività extra-agricole raggiunge il 10,6% della superficie. Vi sono aree in cui l’urbanizzato copre addirittura il 50% del suolo ed è la campagna a trovarsi all’interno dello spazio urbano e non viceversa. 

Accade per esempio nell’ampia regione che ha come vertici Bergamo-Lecco-Como-Varese-Milano oppure intorno a Bologna, da Parma a Cesena. “Negli ultimi 15 anni il diffondersi degli insediamenti si è proposto con forza anche in alcune zone della pianura irrigua che fino a un ventennio fa ne erano rimaste immuni e che da alcuni erano pensate come il possibile cuore verde della megalopoli padana” scrivono Stefano Bocchi e Arturo Lanzani in “Campagna e Città” (Touring Club Italiano).

Il problema è che stiamo assistendo a una “padanizzazione” delle nostre pianure in tutto il Paese. Nonostante già prima della crisi economica molti alloggi e molti capannoni industriali fossero  vuoti, si continua a costruirne degli altri e ogni città si sviluppa ormai lungo le principali strade di comunicazione fino a saldarsi con la città successiva. Questo lo si percepisce chiaramente percorrendo la superstrada da Perugia a Spoleto, nella Valle Umbra, oppure la Pontina, da Roma a Latina. Difficile capire dove finisce un centro abitato e ne inizia un altro: è la cancellazione della campagna.

L’impermeabilizzazione delle pianure produce effetti di cui ci accorgiamo in occasione delle alluvioni, visto che l’asfalto limita le aree di espansione naturale delle piene. Servirebbero dunque vincoli sulle modificazioni d’uso dei terreni agricoli, ma anche incentivi per chi intraprende l’attività agricola. Nel 2009, secondo le stime dell’Unione europea, mentre il reddito reale per lavoratore nel settore è sceso in media del 12%, in Italia il calo è stato di oltre il doppio. 

In Europa la campagna si difende

Mentre in Italia mancano i meccanismi di gestione e controllo del territorio, nel resto del Vecchio Continente si tenta di porre un limite al consumo. La prima è stata la Francia, con tre leggi negli anni 90. Poi la Gran Bretagna con le 'Green Belts', che impediscono alle città di saldarsi tra loro. La Germania si è posta un obiettivo: non più di 30 ettari al giorno entro il 2020

La Germania è stato uno dei primi paesi che si è occupato della tutela del paesaggio e ha fissato un limite quantitativo al consumo di suolo, dopo aver rilevato nel 2002 un tasso di crescita di 129 ettari al giorno (in Italia siamo oggi a 75 ettari).

Il limite, da raggiungere entro il 2020, è di 30 ettari al giorno e si sta cercando di raggiungerlo con una politica di riutilizzo dei suoli già impermeabilizzati, ad esempio, prevedendo una diversa tassazione sugli immobili a seconda che siano realizzati o meno su aree già urbanizzate.

Nel 1999 è entrata in vigore una vera e propria legge per il suolo, che vede l’inserimento della tutela dei suoli in tutte le regolamentazioni e norme di settore e l’inserimento del principio di prevenzione. Un approccio normativo così completo e puntuale è stato portato avanti con una contemporanea attività di ricerca e analisi per la misurazione del fenomeno. 

In Gran Bretagna, invece, si è riusciti a impedire che le città si saldassero tra di loro, grazie a un’intuizione del 1995: le Green Belts, le cinture verdi che circondano i centri urbani costringendoli in confini non valicabili per l’espansione edilizia. In quell’anno l’estensione delle Green Belts era di 1.556.000 ettari, circa il 12% del suolo inglese, mentre oggi siamo arrivati a una superficie di quasi 1.700.000 ettari. Un vero successo che ha consentito di proteggere la campagna e le attività che vi si svolgono, ma anche di conservare le caratteristiche specifiche delle città storiche con il loro contesto e aiutare la rigenerazione urbana, incoraggiando il riutilizzo di aree urbanizzate abbandonate.

Almeno il 60 % delle nuove abitazioni in Gran Bretagna devono essere realizzate su suolo già urbanizzato, intendendo aree ed edifici che sono stati abbandonati o sono in stato di degrado oppure utilizzati ma che potrebbero essere riqualificati. A sostegno di questa politica, il “National Land Use Database” viene aggiornato annualmente e contiene informazioni sui suoli già impermeabilizzati ed edificati in Inghilterra.

Anche in Francia tre diverse leggi, entrate in vigore alla fine degli anni Novanta si occupano della gestione del territorio, mentre in Italia manca ancora questo tipo di meccanismi di pianificazione e perfino il Catasto delle aree percorse dal fuoco, previsto dalla legge quadro sugli incendi 353/2000, per impedire l’edificazione nei boschi dati alle fiamme, è uno strumento che molti Comuni non applicano, facendo mancare così un ulteriore argine al consumo di suolo.


La logica di Mr. Spock - Stiglitz e Gallegati



"C'è sempre un'alternativa", come disse Spock. Il trucco che stanno usando è farci credere che non esistano alternative all'euro e alla crescita del PIL. Beppe Grillo
Intervento di Joe Stiglitz e Mauro Gallegati

"Cosa accadrà in caso di default ed abbandono dell’euro? Come uscire dalla crisi sfruttando l’opportunità del cambiamento? Non proponiamo nuove strategie di crescita, ma un diverso modo di vivere e produrre. A tal fine, individuiamo una strategia dal basso (da noi tutti abitanti questo Pianeta) ed una dall’alto.
La diminuzione del tasso di profitto del settore reale nei Paesi avanzati ha generato un'espansione del settore finanziario che ha garantito la tenuta del sistema fino allo scoppio della bolla immobiliare nel 2007. La crescita del profitto ha portato alla necessità di reinvestire i risparmi accumulati. Il rallentamento dell’economia realenei Paesi avanzati ha implicato una fuoriuscita di risorse da questo settore non più remunerativo, incentivando la delocalizzazione produttiva e l’investimento finanziario in attività sempre più rischiose e complesse. L’iniezione di liquidità effettuata a più riprese dalle banche centrali americana ed europea non ha sortito rilevanti effetti positivi sull’economia reale dei Paesi occidentali, mentre le banche hanno ripreso a speculare grazie alla maggiore liquidità a disposizione, accrescendo i propri profitti. Il salvataggio delle banche, con la conseguente socializzazione di perdite private, è importante per la salvaguardia del risparmio del ceto medio. Però non è da escludere un’azione di indirizzo pubblico da parte dello Stato che ha investito risorse per salvare il sistema. Inoltre, il salvataggio bancario non è in grado di risolvere da solo l’attuale crisi. Infatti, non influisce sul problema di fondo, cioè una divergenza tra una produttività crescente e una capacità di acquisto stagnante o calante. In aggiunta, il salvataggio delle banche da parte degli Stati ha fatto lievitare il debito pubblico, già elevato in alcuni Paesi come l’Italia. Quindi un problema è diventato ridurre il peso del debito pubblico rispetto al prodotto interno.
La strada che i governanti europei stanno seguendo è quella dell’austerità, alcuni hanno proposto il ripudio del debito e l’uscita dall’Euro. Il ritorno alle monete nazionali renderebbe nuovamente disponibile ai singoli Paesi lo strumento della politica monetaria per garantire il debito pubblico mediante l’intervento della propria banca centrale. Questa strategia può presentare una serie di criticità. La principale è checolpirebbe pesantemente il ceto medio, lo stesso che ora sta pagando i sacrifici richiesti dalla strategia di austerità.Questo gruppo di persone verrebbe colpito sia direttamente che indirettamente. Direttamente, dato che i titoli di Stato sono la forma di risparmio principale dei piccoli risparmiatori (l’incidenza dei titoli di Stato italiani nel portafoglio di un grande imprenditore che può permettersi di investire all’estero o portare le proprie attività in Lussemburgo o alle Isole Cayman è minima rispetto all’incidenza sul portafoglio di un piccolo risparmiatore). Il default dovrebbe quindi essere “selettivo”, per colpire solo i titoli posseduti da alcuni soggetti (ad esempio, le istituzioni finanziarie estere) e ripagarli invece se posseduti da altri (ad esempio, lavoratori e pensionati). Al danno diretto si aggiungerebbero una serie di danni indiretti. L’uscita dall’Euro propedeutica ad una svalutazione della moneta (una nuova lira o un euro dei PIGS?), che faccia recuperare competitività al Paese, porterebbe nell’immediato ad una probabileimpennata dell’inflazione (le materie prime quali petrolio e gas, sarebbero molto più care) e ad un peggioramento del potere d’acquisto e degli standard di vita. Inoltre, anche l’effetto benefico sulle esportazioni nel medio periodo potrebbe non avere la stessa ampiezza ottenuta dalla svalutazione del 1992, quando la competizione di prezzo dei Paesi emergenti non aveva raggiunto i livelli degli anni 2000, dopo l’ingresso della Cina nel WTO. Un default implicherebbe una perdita di credibilità sui mercati internazionali che, per un certo periodo, eviterebbero di finanziarci (se non a tassi elevatissimi). La mancanza di credito e di investimenti potrebbe acuire la recessione. Infine, l’uscita dall’Euro dell’Italia sarebbe probabilmente causa dell’archiviazione dell’esperienza della moneta unica, il che potrebbe implicare la fine del processo di integrazione europea, poggiato principalmente su basi economiche.
L’attuale modello di sviluppo, basato sull'utopica credenza di una crescita senza fine, che non distingue beni da merci, genera insostenibili disuguaglianze e provoca sempre più forti criticità ambientali. Bisognerebbe puntare all’innovazione, alla cultura ed ai servizi, beni prevalentemente immateriali, ma che spesso hanno un forte legame con i territori. Ciò che proponiamo come un abbozzo per un nuovo modo di vivere si può riassumere nella frase: "Lavorino le macchine, noi godiamoci la vita". A tal fine occorre ripensare e ridisegnare in modo integrale la vita umana dominata dall’imperativo dell’accumulo di denaro, della produzione e dell’acquisto di merci. Ma in tutti i continenti, in tutte le nazioni, oltre al malessere dovuto ad un tale modello di vita, stanno emergendo fermenti creativi che spingono in altre direzioni: i movimenti delle popolazioni di Centro e Sud America contro lo sfruttamento dei suoli e delle acque, il microcredito nato in Asia e affermatosi anche nel mondo occidentale, i Gruppi di Acquisto Solidale che mettono al centro i principi di eticità e sostenibilità, ricostruendo la relazione tra il consumatore, spesso urbanizzato, e i produttori, i Movimenti per la decrescitache propongono cambiamenti dal basso, azioni pratiche per stili di vita sobri e sostenibili, a chi sperimenta una vita senza petrolio nelle "transition town".
Ci sono comportamenti di cittadini/consumatori/produttori, che potrebbero innescare soprattutto in questa situazione di crisi il virus del cambiamento, ma anche nuovi punti di vista di governi che stanno ricercando indicatori più adatti del PIL per misurare il benessere di una nazione. Nel Bhutan il "Gross National Happiness", L’Ecuador e la Bolivia che mettono il "buen vivir" nelle loro Costituzioni, l’Australia con "Measures of Australia’s progress", il "Canadian Index of Wellbeing". Misure che dovrebbero esser differenti da Paese a Paese. Ricordava Fuà [1]: "Un singolo modello di sviluppo e di vita (oggi quello concentrato sulla crescita delle merci) viene proposto ed accettato come l’unico valido; bisognerebbe invece apprezzare che ogni popolazione cerchi la via corrispondente alla sua storia ai suoi caratteri, alle sue circostanze e non si senta inferiore ad un’altra per il solo fatto che quella produce più merci." Poiché viviamo un momento di transizionetra un’economia delle merci ed un’economia dei servizi occorrerà inventare nuovi lavori, magari a ritmi più umani, dematerializzando le nostre produzioni. Per il nostro Paese, un’indicazione ci può venire dal recentissimo Rapporto 2012 sull’Industria culturale in Italia: "L’Italia che verrà", di Unioncamere, Fondazione Symbola e Regione Marche. I settori coinvolti da questa indagine, sono quelli classici dei Beni culturali: architettura, design, industrie creative e culturali che, in contro tendenza, mostrano il livello dell’occupazione (il 5,6% del totale degli occupati) salito dello 0,8%, a fronte di un arretramento medio dello 0,4% (periodo 2008-2011). Allargando il campo ad altri settori dell’unicità italiana, produzioni agricole tipiche, il turismo legato alla capacità attrattiva della cultura, le attività legate al recupero del patrimonio storico, attività di formazione collegate, gli occupati salgono al 18,1% degli occupati a livello nazionale. Ritornando alla frase di Fuà, non sarebbe il caso di individuare nel valore aggiunto del settore cultura, alla sua unicità, in quello del suo indotto e dei comparti meno formali che ad esso possono essere legati, la nostra vera fonte di ricchezza? I tempi del cambiamento sono lunghi. Un'accelerazione può venire solo dall’alto. In questa prospettiva, ci si dovrà attrezzare per utilizzare gli incrementi di produttività per lavorare di meno, redistribuire il reddito via fiscalità (vedi J.E.Stiglitz, The price of inequality Norton, 2012), promuovere la progressiva introduzione del reddito di cittadinanza e della partecipazione agli utili di impresa. Solo se riusciremo a cambiare il modo di vivere di oggi avremo un domani. Ma per far ciò abbiamo tutti bisogno di un movimento che aiuti a renderci consapevolie che cambi il modo di far politica. Come provano a fare gli Indignados, gli Occupy Wall Street e il M5S ". Joe Stiglitz e Mauro Gallegati