sabato 19 marzo 2011

Caccia francesi in volo sopra la Libia



Primi bombardamenti sui veicoli

Iniziate le operazioni internazionali. Gli aerei si trovano a 100 chilometri da Bengasi. Distrutti quattro tank dell'esercito lealista. Il rais minaccia i leader occidentali: "Vi pentirete per questa ingerenza"
Sarkozy: "Gheddafi eviti il peggio e rispetti il cessate il fuoco". Obama: "Interverremo con urgenza"


I paesi della coalizione hanno deciso: Gheddafi deve rispettare il cessate il fuoco per evitare che la situazione precipiti. Il presidente francese: "I caccia bombarderanno i tank libici". L'Italia ha schierato i suoi tornando a Trapani. I jet stanno sorvolando il cielo sopra Bengasi.La città dei ribelli, questa mattina, è stata attaccata dalle forze lealiste. E questo nonostante ieri il ministro degli Esteri avesse annunciato un cessato il fuoco totale in rispetto degli accordi internazionali. Così non è stato (leggi l'articolo). L'obiettivo del rais era quello di riconquistare le città prima del summit parigino tra Lega Araba, Unione europea e Stati Uniti. Ad attaccare saranno Gran Bretagna, Francia, Norvegia e Canada e in seconda battuta Usa e Paesi arabi. L'azione militare potrebbe cominciare con un bombardamento di missili Cruise per neutralizzare le difese aeree libiche, bombardamenti ravvicinati delle piste di decollo. Ci sarebbero circa 15 obiettivi gia' individuati. Lo stesso presidente americano Barack Obama ha detto che "la coalizione è pronta a intervenire con urgenza" (leggi l'articolo). Posizione altrettano netta quella del segretario di Stato Hillary Clinton che ha invitato il rais a cessare immediatamente il fuoco


LA RISOLUZIONE DELL'ONU: ECCO LA BOZZA
LO SCENARIO DI GUERRA: LA MAPPA INTERATTIVA DEL MUNDO
IL MINISTRO LA RUSSA: "RUOLO DECISIVO DELL'ITALIA" (VIDEO)

LA CRONACA ORA PER ORALAMPEDUSA SCOPPIA, I CITTADINI IMPEDISCONO GLI ATTRACCHI
COSI' GHEDDAFI E' DIVENTATO PADRONE DEL PAESE
SARKOZY, LA LIBIA E LE PRESIDENZIALI 
Commenti (590)
il fatto quotidiano.it

    L'urlo degli italiani

    Domani alle 14.30 a Roma, in piazza Navona (guarda il programma), apriremo la campagna referendaria per cancellare la legge sul legittimo impedimento, uno scudo giudiziario ad personam per Silvio Berlusconi, e per abolire le norme che permettono al governo di tradire la volontà popolare, riaprendo le centrali nucleari bocciate dal referendum del 1987. Il pomeriggio sarà trasmesso in diretta sul canale 872 di Sky e in streaming sul blog e su www.italiadeivalori.it.

    L’Italia dei Valori ha raccolto due milioni di firme per ripristinare il principio per cui la legge è uguale per tutti e per consentire ai cittadini di decidere loro se vogliono correre il rischio di una catastrofe come quella che si sta verificando a Fukushima in cambio di un’energia obsoleta e che costa moltissimo come quella nucleare.
    L’Idv è impegnata al 100% anche sul fronte degli altri due referendum, quelli che chiedono ai cittadini se vogliono che l’acqua resti un bene comune a disposizione di tutti oppure se vogliono privatizzarla e farla diventare un bene di mercato da mettere in vendita, promossi dal Forum italiano dei movimenti per l’acqua.
    Sul palco insieme a noi dell’Italia dei Valori ci saranno anche esponenti della cultura, dello spettacolo e della ricerca, così come politici di altri partiti: perché noi abbiamo sì raccolto le firme, ma il referendum non è “nostro”. E’ di tutti i cittadini che credono nella uguaglianza di fronte alla legge e che non vogliono il nucleare. Non c’è bisogno di essere dell’Italia dei Valori o del centrosinistra per credere che quando la legge non è uguale per tutti non si può più parlare di democrazia, o per contrastare una follia come il tornare al nucleare proprio quando tutti stanno pensando di abbandonarlo.
    Spero che in piazza Navona ci siano moltissime persone, e sono convinto che sarà così. Solo una grande mobilitazione dal basso potrà contrastare la strategia delle disinformazione e il muro di silenzio col quale i governo e i suoi molti servitori sperano di contrastare slealmente e alla faccia della democrazia i referendum. Ma la mobilitazione è fondamentale anche per impedire che il governo provi a uscire dal vicolo cieco in cui si è infilato col ritorno al nucleare con un ennesimo trucchetto.
    Non ci vuole molto a capire cosa sta succedendo. Fino a due giorni fa i ministri Romano e Prestigiacomo erano pronti a mordere chiunque gli chiedesse di fermarsi un attimo a riflettere invece di continuare a correre verso il burrone come cavalli ciechi.
    All’improvviso tutto è cambiato. All’improvviso tutti questi signori vogliono riflettere e prendere un po’ di tempo. Tutti spiegano di essere preoccupati per la sicurezza dei cittadini mentre fino a ieri giuravano che non c’era nessunissimo problema. Se avessero davvero aperto gli occhi e cambiato idea, noi saremmo i primi a esserne felici. Ma non credo che sia così. E’ stata proprio la ministra Prestigiacomo a svelare involontariamente il gioco: si è fatta pizzicare mentre diceva che bisogna mollare il nucleare sennò si perdono le elezioni.
    Però quello che pensano di fare non è ritirare la legge e rinunciare al loro folle progetto, ma solo bloccare tutto per un po’, in modo da far passare la nottata e scavallare il referendum per poi ricominciare come prima.
    Sarebbe l’ennesima presa in giro e noi dobbiamo fare capire a Berlusconi, già da domani in piazza Navona, e al suo governo che gli italiani si sono stufati di essere presi in giro. Per evitare il referendum sulle centrali nucleari c’è solo un modo limpido onesto e trasparente: ritirare definitivamente la legge. Seppellire di nuovo e una volta per tutte il nucleare in Italia.


    venerdì 18 marzo 2011

    Così il governo uccide lo Stato di diritto”.


    La denuncia di Giuseppe Bianco, sostituto procuratore della Repubblica a Firenze

    Intervista a Giuseppe Bianco di Ilaria Donatio
    Perché questa riforma è stata definita punitiva per i cittadini?L’Italia è l’unico paese al mondo ad aver deciso che il problema di questa epoca è la giustizia e non la crisi economica. Il monopolio dell’informazione diventa anche monopolio della formazione delle menti di milioni di persone: la rappresentazione del reale è stravolta. Ad ogni modo, il vero pericolo non si trova in questo megaprogetto futuribile ma nelle pieghe nascoste di altre leggi già approvate ed in vigore.
    Per esempio, appena pochi giorni fa tutti hanno riportato le denunce del Procuratore Generale della Corte dei Conti sull’enormità degli sprechi. Ma nessuno ha detto che una legge del 2009 ha depotenziato la Corte, stabilendo che dinanzi ai rilievi della Corte, fatti per “gravi irregolarità gestionali”, il ministro competente può cavarsela semplicemente comunicando al Parlamento ed alla stessa Corte “le ragioni che impediscono di ottemperare ai rilievi formulati dalla Corte”. Può opporre la ragion politica, insomma.
    In Gran Bretagna i rilievi della Corte dei Conti sono discussi in apposite sessioni del Parlamento con l’obbligatoria presenza del ministro interessato che deve rispondere, pena le dimissioni.
    In Italia, invece, il ministro è stato autorizzato per legge a non rispondere nemmeno.

    Un altro esempio?

    In uno dei tanti pacchetti sicurezza è stata inserita una norma che ha eliminato di fatto la possibilità tecnica di ricorrere al cosiddetto procedimento per decreto penale, che era un rito speciale che consentiva di definire i procedimenti per reati bagatellari (reati con pene inferiori a 2 anni, ndr) senza fare l’ennesimo processo. Il risultato è stato un ulteriore aggravio processuale. Nessuno lo dice. Qualche giorno fa la Procura di Agrigento ha dovuto iscrivere 6mila tunisini sul registro degli indagati: risultato? Sono 6mila processi in più grazie all’inutile reato di clandestinità. Da dove vengono tutti questi processi se non da una legislazione incomprensibile?

    Su "Il Foglio" dell’11 marzo, veniva sottolineata l’utilità di questa riforma nella direzione di una migliore organizzazione dell’attività giudiziaria. Questo, secondo l’autore del pezzo – Carlo Stagnaro che confrontava dati a livello internazionale – deve avvenire tramite “incentivi corretti per gli attori del sistema: per esempio separando le carriere della magistratura inquirente e giudicante allo scopo di rimuovere eventuali conflitti di interesse”. Che ne pensa?I meccanismi di ipnosi collettiva rischiano di drogare il dibattito. È surreale: il rapporto giudici-pm non ha niente a che fare col concetto di “conflitto di interessi” ma con quello della comune cultura giurisdizionale. Fin dal 2000 una raccomandazione del Consiglio d’Europa suggerisce a tutti gli stati europei di consentire un interscambio costante delle varie funzioni in modo che lo stesso pubblico ministero si formi nella cultura delle garanzie e dell’imparzialità del giudice. È nell’interesse di tutti che il magistrato inquirente venga nutrito dello stesso abito mentale di quello giudicante, che sia indipendente nella valutazione delle prove, che sia capace di fare da freno anche ad iniziative investigative orientate alla ricerca di un colpevole, quale che sia, per tacitare “i moti di viscere” della folla. Sono momenti storici che abbiamo già vissuto.

    Sempre secondo il pezzo pubblicato su "Il Foglio", che cita il rapporto “European Judicial Systems” della European Commission for the Efficiency of Justice, la giustizia sarebbe tutt’altro che sottofinanziata in Italia: la spesa per abitante è pari a 47 euro per i tribunali e 20 euro per i pubblici ministeri: e rispetto all’Europa sarebbero in linea con la media la prima, nettamente superiore l’altra. Lei come commenta questi dati?I dati del rapporto CEPEJ vanno letti tutti: la spesa è maggiore semplicemente perché l’Italia è il Paese europeo col maggiore carico penale, che è esattamente il doppio di quello francese. La legislazione di questi anni è orientata verso il panpenalismo assoluto. Anziché esser messi in condizione di dedicarci ai grandi fenomeni criminali, siamo obbligati a fare processi penali per qualsiasi cosa, si introducono continuamente nuovi microreati, si tagliano le risorse. Per cinque anni il ministero Castelli ha ritardato i concorsi di assunzione, col risultato che per fronteggiare un carico di lavoro sempre più pesante, oggi, abbiamo 1200 magistrati in meno, con un deficit ormai cronico. Ed ora che la giustizia è in coma, la responsabilità viene scaricata sulle spalle dei giudici, con una propaganda che ci accusa sistematicamente di lavorare poco e male. Di qui, le proposte di riforma della responsabilità civile. La distorsione logica è evidente.

    Chi è il giudice? 
    Il giudice non fa l’ingegnere, decide i contenziosi. Ed è un potere dello Stato, non è un professionista privato.
    Che si tratti di un litigio condominiale o di un divorzio piuttosto che del processo Parmalat, la magistratura deve sempre attribuire delle responsabilità. Ogni atto del magistrato incide sugli interessi di qualcuno. Anche quando si archivia si delude chi ha fatto la denuncia.
    Rosario Livatino – magistrato siciliano assassinato dalla mafia – era contrario al principio della responsabilità diretta dei magistrati, appunto, perché si rischierebbe un giudizio di danno per ogni provvedimento preso. Ecco perché la legge Vassalli impone un filtro e consente l’azione di danno solo alla fine dei tre gradi. La verità è che il vero risultato di queste riforme sarà quello di moltiplicare le possibilità di sostituire il giudice sgradito con meccanismi automatici lasciati totalmente nelle mani degli indagati: una specie di giustizia rimessa completamente nelle mani di Bertoldo che non si deciderà mai a scegliere l’albero o il giudice naturale. Una riforma di questo tipo bloccherebbe l’intera giurisdizione, sicuramente bloccherebbe quella impegnata contro i portatori di interessi forti.

    Morale?
    L’architettura dello stato democratico risponde al principio della cupola del Brunelleschi, con delle istituzioni di controllo che con la loro assoluta autonomia fanno da contrappeso alle istituzioni della rappresentanza e della decisione politica. L’equilibrio è stabile ma delicato. Se l’autonomia del potere giudiziario viene meno, l’intera volta rischia di cadere.
    L’esempio della Corte dei Conti è emblematico. Sono in crisi tutte le forme di vigilanza liberale del potere. D’altronde c’è chi è arrivato perfino a sostenere che l’unica legittimazione del potere politico è la semplice vittoria elettorale mentre il principio fondamentale dello Stato di diritto è che tutti i poteri dello stato – anche quelli elettivi – sono subordinati appunto al diritto, che è un concetto molto più ampio del semplice voto popolare e della stessa legge. Insomma, ci sono enormi rischi di involuzione autocratica. E una magistratura che denuncia simili rischi non fa una invasione di campo.
    Perchè denunciare pericoli così gravi vuol dire solo non abdicare alla nostra coscienza critica di uomini liberi e portare almeno un contributo di ragionevolezza tecnica. Prima che sia troppo tardi. 

    La memoria tradita del Risorgimento

    “L’Italia è solo un’espressione geografica” sosteneva il conte Klemens Wenzel Nepomuk Lothar von Metternich-Winneburg-Beilstein (dal 1813 anche principe). “L’Italia è fatta, bisogna ora fare gli italiani”, dichiarò il patriota e scrittore Massimo Taparelli marchese d’Azeglio, quando decenni di sovversione rivoluzionaria mazziniana e garibaldina, e di abilità diplomatica cavouriana, umiliarono il cinismo del cancelliere dell’impero austro-ungarico. Che viene riportato agli onori della riabilitazione, paradossalmente e vergognosamente, proprio durante le celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia: non da qualche grande storico in vena di rivisitazioni geopolitiche ma dall’ignorante berciare del padre di un “trota” e di schiamazzanti patrioti dell’evasione fiscale.

    Spettacolo avvilente, reso possibile però anche da uno sfondo storico-antropologico: la “Nazione”, la “Patria”, gli italiani l’hanno sempre sentita assai poco. Perché non è mai divenuta identità comune, e anzi è stata spesso immiserita nella retorica propagandistica di governi e regimi, infangata per spedire milioni di giovani come carne da cannone in due “inutili stragi”.

    L’identità di un Paese nasce dalla memoria condivisa. E una memoria condivisa è sempre e soltanto una memoria scelta. Non può essere mai costituita da “tutto il passato”, che è ovviamente contraddittorio, impregnato di lacerazioni e conflitti, frutto di valori antagonistici fino alla guerra civile. “Notre héritage n’est précédé d’aucun testament”, ha scritto uno dei più grandi poeti del novecento, René Char, esprimendo la verità dell’identità storica nella sua forma più essenziale e irrecusabile. Di che cosa essere eredi lo si sceglie, discriminando nel contraddittorio e incompatibile intreccio di eventi che ci hanno preceduti quelli che hanno per noi valore simbolico perché fondativo.

    L’Italia democratica può diventare “Nazione” o “Patria” solo se sceglie di essere davvero erede di entrambi i due unici eventi fondativi del suo passato. Il Risorgimento, e quel secondo Risorgimento (come tale vissuto da tanti che vi sacrificarono la vita) che fu la Resistenza antifascista. Fino a quando queste due rotture storiche, e i valori che ne sono all’origine, non saranno interiorizzati come la propria comune eredità dai cittadini della penisola, fino a quando ogni nuova generazione, in famiglia, nella scuola, attraverso il tubo catodico, non crescerà sentendosi figlia del Risorgimento e della Resistenza, non ci saranno italiani e non ci sarà Italia, e il conte Klemens von Metternich avrà ogni agio di ghignare nella tomba.

    Ma la memoria, per essere condivisa, non deve escludere nessuno. Deve accomunare tutto il passato, affratellare vincitori e vinti, replicano gli storici più o meno di regime, più o meno accademicamente titolati o improvvisati, i Mieli, i Romano, i Galli della Loggia, i Pansa. I garibaldini, dunque, ma anche i lazzaroni del cardinal Ruffo, i partigiani ma anche i giovani repubblichini di Salò, arriva a farnetica re qualcuno. Al contrario. Nessuna identità nazionale, dunque nessuna “Patria”, potrà mai nascere su valori che reciprocamente si escludono. Il confronto con la vicina Francia può essere illuminante.

    Ogni edificio pubblico porta la scritta, spesso in lettere dorate, “Republique française: liberté, egalité, fraternitè”. Esclude cioè dalla memoria condivisa le masse che si rivoltarono contro la rivoluzione, i contadini che per la Vandea morirono, coraggiosamente e anche eroicamente, come è ovvio. L’identità della Nazione, della Patria, quella del “vive la France!” con cui il generale De Gaulle concludeva ogni suo discorso, viene riconosciuta esclusivamente nel testamento della rivoluzione, tanto che se ne adotta la bandiera e di un canto di insurrezione si fa l’inno nazionale. La rivoluzione è l’unica memoria comune, l’altra sarebbe solo memoria del tradimento della Nazione, benché della rivoluzione faccia parte il Terrore, la cui condanna è resa topograficamente esplicita: non una via o una piazza sono intitolate a Robespierre.

    Identico discorso per la Resistenza. Il governo collaborazionista di Vichy è il tradimento per antonomasia, benché il maresciallo Petain venga insediato legalmente dal voto maggioritario di un parlamento liberamente eletto. De Gaulle, uomo di destra se ve ne fu uno, ha imposto l’equazione Resistenza eguale Patria e rifiuto della Resistenza eguale tradimento, e questa memoria condivisa ha avuto una tale efficacia che a tre generazioni di distanza la destra francese anche più becera preferisce (durerà?) perdere le elezioni pur di non accettare il sostegno dei Le Pen.

    In Italia invece il Risorgimento è stato immediatamente edulcorato nella retorica. Il carattere eversivo, rivoluzionario, talvolta terroristico dei garibaldini e dei mazziniani è stato cancellato, benché Mazzini e Garibaldi fossero accomunati a Marx e Bakunin dalle polizie di tutto il mondo, e le divergenze reciproche non avessero mai a che fare con una introvabile “moderazione” dei primi. La memoria del Risorgimento come autentica epopea fondativa è stata infine distrutta dalla sua fascistizzazione in irredentismo, ignominia con cui si può accomunare un D’Annunzio a Pisacane. Ancora peggio con il secondo Risorgimento, la Resistenza antifascista. Evirata democristianamente nella retorica, viene ormai irrisa nel quotidiano codardo oltraggio dei media di regime.

    Come stupirsi, allora, che nella penisola sia assente la Nazione e la Patria? L’Italia sarà Nazione solo se e quando una autentica rivolta morale, politicamente vittoriosa, riuscirà a rendere senso comune i valori che dal Risorgimento alla Resistenza hanno dato vita alla nostra Costituzione.







    di Paolo Flores d'Arcais, il Fatto quotidiano, 16 marzo 2011

    La memoria tradita del Risorgimento

    “L’Italia è solo un’espressione geografica” sosteneva il conte Klemens Wenzel Nepomuk Lothar von Metternich-Winneburg-Beilstein (dal 1813 anche principe). “L’Italia è fatta, bisogna ora fare gli italiani”, dichiarò il patriota e scrittore Massimo Taparelli marchese d’Azeglio, quando decenni di sovversione rivoluzionaria mazziniana e garibaldina, e di abilità diplomatica cavouriana, umiliarono il cinismo del cancelliere dell’impero austro-ungarico. Che viene riportato agli onori della riabilitazione, paradossalmente e vergognosamente, proprio durante le celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia: non da qualche grande storico in vena di rivisitazioni geopolitiche ma dall’ignorante berciare del padre di un “trota” e di schiamazzanti patrioti dell’evasione fiscale.

    Spettacolo avvilente, reso possibile però anche da uno sfondo storico-antropologico: la “Nazione”, la “Patria”, gli italiani l’hanno sempre sentita assai poco. Perché non è mai divenuta identità comune, e anzi è stata spesso immiserita nella retorica propagandistica di governi e regimi, infangata per spedire milioni di giovani come carne da cannone in due “inutili stragi”.

    L’identità di un Paese nasce dalla memoria condivisa. E una memoria condivisa è sempre e soltanto una memoria scelta. Non può essere mai costituita da “tutto il passato”, che è ovviamente contraddittorio, impregnato di lacerazioni e conflitti, frutto di valori antagonistici fino alla guerra civile. “Notre héritage n’est précédé d’aucun testament”, ha scritto uno dei più grandi poeti del novecento, René Char, esprimendo la verità dell’identità storica nella sua forma più essenziale e irrecusabile. Di che cosa essere eredi lo si sceglie, discriminando nel contraddittorio e incompatibile intreccio di eventi che ci hanno preceduti quelli che hanno per noi valore simbolico perché fondativo.

    L’Italia democratica può diventare “Nazione” o “Patria” solo se sceglie di essere davvero erede di entrambi i due unici eventi fondativi del suo passato. Il Risorgimento, e quel secondo Risorgimento (come tale vissuto da tanti che vi sacrificarono la vita) che fu la Resistenza antifascista. Fino a quando queste due rotture storiche, e i valori che ne sono all’origine, non saranno interiorizzati come la propria comune eredità dai cittadini della penisola, fino a quando ogni nuova generazione, in famiglia, nella scuola, attraverso il tubo catodico, non crescerà sentendosi figlia del Risorgimento e della Resistenza, non ci saranno italiani e non ci sarà Italia, e il conte Klemens von Metternich avrà ogni agio di ghignare nella tomba.

    Ma la memoria, per essere condivisa, non deve escludere nessuno. Deve accomunare tutto il passato, affratellare vincitori e vinti, replicano gli storici più o meno di regime, più o meno accademicamente titolati o improvvisati, i Mieli, i Romano, i Galli della Loggia, i Pansa. I garibaldini, dunque, ma anche i lazzaroni del cardinal Ruffo, i partigiani ma anche i giovani repubblichini di Salò, arriva a farnetica re qualcuno. Al contrario. Nessuna identità nazionale, dunque nessuna “Patria”, potrà mai nascere su valori che reciprocamente si escludono. Il confronto con la vicina Francia può essere illuminante.

    Ogni edificio pubblico porta la scritta, spesso in lettere dorate, “Republique française: liberté, egalité, fraternitè”. Esclude cioè dalla memoria condivisa le masse che si rivoltarono contro la rivoluzione, i contadini che per la Vandea morirono, coraggiosamente e anche eroicamente, come è ovvio. L’identità della Nazione, della Patria, quella del “vive la France!” con cui il generale De Gaulle concludeva ogni suo discorso, viene riconosciuta esclusivamente nel testamento della rivoluzione, tanto che se ne adotta la bandiera e di un canto di insurrezione si fa l’inno nazionale. La rivoluzione è l’unica memoria comune, l’altra sarebbe solo memoria del tradimento della Nazione, benché della rivoluzione faccia parte il Terrore, la cui condanna è resa topograficamente esplicita: non una via o una piazza sono intitolate a Robespierre.

    Identico discorso per la Resistenza. Il governo collaborazionista di Vichy è il tradimento per antonomasia, benché il maresciallo Petain venga insediato legalmente dal voto maggioritario di un parlamento liberamente eletto. De Gaulle, uomo di destra se ve ne fu uno, ha imposto l’equazione Resistenza eguale Patria e rifiuto della Resistenza eguale tradimento, e questa memoria condivisa ha avuto una tale efficacia che a tre generazioni di distanza la destra francese anche più becera preferisce (durerà?) perdere le elezioni pur di non accettare il sostegno dei Le Pen.

    In Italia invece il Risorgimento è stato immediatamente edulcorato nella retorica. Il carattere eversivo, rivoluzionario, talvolta terroristico dei garibaldini e dei mazziniani è stato cancellato, benché Mazzini e Garibaldi fossero accomunati a Marx e Bakunin dalle polizie di tutto il mondo, e le divergenze reciproche non avessero mai a che fare con una introvabile “moderazione” dei primi. La memoria del Risorgimento come autentica epopea fondativa è stata infine distrutta dalla sua fascistizzazione in irredentismo, ignominia con cui si può accomunare un D’Annunzio a Pisacane. Ancora peggio con il secondo Risorgimento, la Resistenza antifascista. Evirata democristianamente nella retorica, viene ormai irrisa nel quotidiano codardo oltraggio dei media di regime.

    Come stupirsi, allora, che nella penisola sia assente la Nazione e la Patria? L’Italia sarà Nazione solo se e quando una autentica rivolta morale, politicamente vittoriosa, riuscirà a rendere senso comune i valori che dal Risorgimento alla Resistenza hanno dato vita alla nostra Costituzione.







    di Paolo Flores d'Arcais, il Fatto quotidiano, 16 marzo 2011

    Celentano: la trappola radioattiva


    Caro Direttore,
    settantamila case distrutte, un milione di sfollati e cinquemila dispersi in quel florido Giappone che nel giro di 6 minuti è improvvisamente precipitato nel buio più scuro. Ma soprattutto migliaia di radiazioni sulla testa dei giapponesi. Ora io non vorrei neanche parlare del clamoroso fuori-tempo (non solo musicale) esternato da Chicco Testa, ospite della bravissima Lilli Gruber dalla voce affascinante. Non vorrei ma come si fa, poi la gente pensa davvero che lui parli per il bene dei cittadini. «Gli impianti nucleari hanno dimostrato di tenere botta». Ha detto il nostro Chicco ormai appassito per mancanza di clorofilla e quindi non più in grado di catturare quell'ENERGIA SOLARE di cui un tempo si nutriva.
    «Chi trae spunto dalla tragedia del Giappone per dare vita a una polemica politica è uno sciacallo». Ha sentenziato. Dopo neanche un'ora esplode la centrale nucleare di Fukushima. Un tempismo davvero sorprendente quello del Chicco. Ma la cosa più incredibile che più di tutti impressiona, è lo stato di ipnosi in cui versano gli italiani di fronte ai fatti sconcertanti di una politica che non è più neanche politica. Ma piuttosto un qualcosa di maleodorante e che di proposito vorrebbe trastullarci in uno stato confusionale. Dove sempre di meno si potrà distinguere il bene dal male, le cose giuste da quelle ingiuste. Sparisce quindi quel campanello d'allarme che ci mette in guardia quando c'è qualcosa che non quadra nei comportamenti di un individuo. Un qualcosa che detto in una parola si chiama SOSPETTO. E di sospetti sul nostro presidente del Consiglio, tanto per fare un esempio, ce ne sono abbastanza.
    E così nel bel mezzo di una tragedia come quella che sta vivendo il Giappone, dove fuoco e acqua stanno distruggendo tante vite umane, senza contare l'aspetto più insidioso dovuto alle radiazioni liberatesi nell'aria, il nostro presidente del Consiglio non demorde. Ha subito fatto annunciare dai suoi «CicchittiPrestigiacomini» e dai piccoli insidiosi Sacconi, che il progetto sul nucleare in Italia andrà avanti. L'orientamento popolare contro le centrali nucleari decretato dal referendum fatto 24 anni fa, fu chiarissimo. Ma per Berlusconi non basta: «Chi se ne frega della SOVRANITÀ POPOLARE!». L'unica sovranità che conta per lui è il Potere di guidare gli uomini in una sola direzione come se fossero degli automi.
    Tra i vari tg, talk show e quello che si legge sui giornali, ho seguito con un certo interesse il cammino politico del terzo polo. Si spera sempre di intravedere quel «CHE» di trasparenza mai assaporata che per ora, a quanto pare, possiedono in pochi. Uno di questi è Antonio Di Pietro. Ma il governo cerca di ostacolarlo. Le ottocentomila firme raccolte da Di Pietro contro le centrali atomiche e il legittimo impedimento, saranno oggetto di un referendum che «si farà», ha detto il ministro Maroni allievo di Berlusconi. Ma a giugno. Quando la gente va al mare.
    E questo naturalmente vale anche per il milione e quattrocentomila firme raccolte dal Forum italiano Movimenti per l'acqua, di cui nessuno parla tranne il loro sito che gentilmente vi indico - www.acquabenecomune.org - per i due quesiti referendari contro la privatizzazione di questo prezioso bene comune.
    Una trappola radioattiva quindi per chi non vuole essere schiacciato dalla bevanda nucleare. Ora il mio potrebbe sembrare un appello, ma non lo è. È una preghiera. Una preghiera che non è rivolta ai politici. «LORO NON SANNO QUELLO CHE FANNO». Per cui mi rivolgo a tutti quelli che invece li votano i politici. Di destra, di sinistra, «STUDENTI», leghisti, fascisti e comunisti, per il vostro bene, non disertate il referendum. Questa volta sarebbe un suicidio. Dobbiamo andare a votare anche se il governo spostasse la data del referendum al giorno di Natale. Non sia mai che prendiate sotto gamba questi referendum: saremmo spacciati.
    La natura, come vedete, si è incazzata. Gli esperimenti nucleari nel Pacifico, le trivellazioni nei fondali del Golfo del Messico, milioni di ettari di bosco incendiati per favorire la cementificazione abusiva, i tagli alla cultura ridotta ormai in pezzi. Tutte cose, per cui la NATURA «sta perdendo la pazienza». Come vi dicevo ho seguito con un certo interesse il cammino politico del terzo polo. E Casini che fino a prima della tragedia di questi giorni ha sempre parlato in modo equilibrato, subito dopo il terremoto, intanto che le radiazioni cominciavano a liberarsi nell'aria e trecentomila persone venivano evacuate dalle loro case, ci ha tenuto a ribadire, con una certa fierezza, il suo parere favorevole al nucleare, facendo quasi un rimprovero al governo per non aver ancor iniziato i lavori.
    Caro Casini, che tu fossi un nuclearista convinto lo sapevamo tutti e io rispetto la tua opinione, anche se è orribile. Ma dirlo proprio in questo momento, non pensi che tu abbia dato una sberla sui denti al tuo elettorato? Tralasciando il piccolo particolare che l'Italia è uno dei Paesi a maggior rischio sismico, come tu sai, le radiazioni sono pericolose non soltanto perché si muore, ma per il modo di come si muore. Una sofferenza di una atrocità inimmaginabile. E poi non si è mai in pochi a morire. Specialmente quando la catastrofe raggiunge dimensioni come quella che sta vivendo la povera gente in Giappone. E non venirmi a dire che le centrali nucleari di terza generazione sono più sicure della seconda, e che ancora più sicure della terza saranno quelle di quarta, disponibili per altro nel lontano 2030. La verità è che tu e Berlusconi siete degli IPOCRITI MARCI. Lo sapete benissimo che per quanto sicure possono essere le centrali atomiche, anche di decima o di undicesima generazione, il vero pericolo sono soprattutto le SCORIE RADIOATTIVE, che nessuno sa come distruggere e che già più di mezzo mondo ne è impestato.
    SCORIE collocate in contenitori sui piazzali delle centrali, a cui, tra l'altro, si aggiungono elevatissimi costi economici, sociali e politici richiesti dalla necessità di sorvegliare questo micidiale pericolo per un tempo praticamente INFINITO. Lo sapete benissimo e ciò nonostante continuate a INGANNARE i popoli promettendo loro quel falso benessere che serve solo a gonfiarvi di Potere e ad arricchire le vostre tasche. Mi dispiace ma non c'è niente da imparare dal terzo polo, come non c'è niente da imparare da tutta la classe politica. L'unica buona notizia che galleggia in questo mare di annegati e che mi ha sorprendentemente colpito, è ciò che di veramente buono sta facendo il sindaco Matteo Renzi nella sua Firenze. Finalmente uno che ha intuito cosa c'è nel cuore della gente. E che ha il coraggio di dire no alla cementificazione facile con la quale, secondo i malvagi, si costruirebbe per il bene dei cittadini. Bravo Matteo! Forse tu hai capito tutto e magari ancora non ti rendi conto di quanto sia importante ciò che hai capito.
    Adriano Celentano

    giovedì 17 marzo 2011

    Come ormone mette un calcio in coda dello spermatozoo

    E 'faticoso essere uno spermatozoo. Dopo aver fatto la lunga distanza nuotata fino tube di Falloppio, lo spermatozoo deve poi mandare su di giri la coda per spingere se stesso attraverso il rivestimento di elevato spessore gelatinoso dell'uovo. Il progesterone, ormone femminile, uscito dall'uovo, richiede la coda per passare da un movimento di nuoto regolare a un sfogliando frenetico, ma esattamente come è stato sconcertante. I ricercatori hanno ora dimostrato che l'ormone agisce direttamente su una proteina di superficie dello spermatozoo, una scoperta che potrebbe suggerire nuovi contraccettivi non ormonali.
    Per 10 anni, i ricercatori hanno sospettato che il progesterone, che rilascia l'uovo in quantità enorme, è responsabile per l'asimmetrico, i movimenti della coda dello spermatozoo whiplike che danno la coppia sufficiente per penetrare l'ovulo. Perché sperma rispondere al progesterone in pochi secondi, gli scienziati hanno pensato che l'ormone deve legarsi ad una proteina di superficie e non uno all'interno delle cellule, che sarebbe necessario più tempo per il progesterone da raggiungere.
    Nel 2001, i ricercatori speravano di aver trovato il recettore del progesterone quando hanno scoperto che gli uomini infertili e topi a volte avevano mutazioni che ha interrotto una proteina, chiamata CatSper, che traghetti ioni di calcio dentro e fuori di sperma. Questo canale del calcio cosiddetto si trova esclusivamente all'interno code spermatozoi ', ma lavorare sapere se risponde al progesterone dimostrato un esercizio più spinoso del previsto. Gli spermatozoi sono cellule non facile lavorare con-per una cosa, non stare fermo.
    Ora, due gruppi di ricerca hanno finalmente collegato progesterone per CatSper inserendo un elettrodo piccolo in singolo spermatozoo, una tecnica solitamente riservato per misurare i segnali elettrici nei neuroni. Inindipendente studi appaiono in linea Nature di oggi, i gruppi hanno documentato il cambiamento in corso all'interno di uno spermatozoo in quanto il progesterone provoca carica positiva ioni di calcio a passare in cella.E perché un canale ionico di lavoro produce una impronta caratteristica elettrica, i ricercatori sono stati in grado di utilizzare i loro elettrodi per dimostrare che CatSper era responsabile per aver lasciato nel calcio.
    Tale lavoro potrebbe infine spiegare perché alcuni uomini il cui sperma non rispondono al progesterone sono bassa fertilità, dice Steve Publicover, fisiologo presso l'Università di Birmingham nel Regno Unito, che non è stato coinvolto nei due studi. Publicover rileva che tale svolta è stato possibile perché le squadre perfezionato il controllo elettrico di sperma. Solo due o tre laboratori in tutto il mondo può fare questo, egli conferma.
    La scoperta potrebbe rivelarsi importante per spiegare il 40% dei casi di infertilità maschile per cui non si conosce causa di fondo, spiega Benjamin Kaupp, un biofisico presso il Centro di Alti Studi Europei e della ricerca a Bonn, in Germania, che ha guidato una delle due squadre. "Se possiamo identificare le molecole coinvolte, possiamo guardare per vedere se la causa della sterilità di un uomo è perché uno o più di queste molecole non funziona correttamente," dice. Sulla base di questo lavoro, ad esempio, i medici potrebbero valutare se lo sperma di un uomo è insensibile al progesterone a causa di problemi con CatSper.
    Polina Lishko, fisiologo presso l'Università di California, San Francisco, che è un membro della squadra che ha fatto la connessione progesterone-CatSper, suggerisce un risultato diverso dalla ricerca. Current contraccettivi ormonali femminili sono, a seconda del progesterone o di estrogeni, e causare effetti collaterali quali aumento di peso. Lishko CatSper sostiene che "offre una grande opportunità per sviluppare un contraccettivo nonhormone".Una volta che i ricercatori hanno localizzato dove si lega il progesterone al canale CatSper, possono cercare molecole che potrebbe bloccare questa interazione, rendendo sterile sperma, spiega. "Canali CatSper verificano solo nelle code degli spermatozoi, [tale] contraccettivo non avrebbe alcun effetto sulle femmine e solo perturbare lo sperma maschile", Lishko dice.
    tradotto da Science