giovedì 4 ottobre 2012

La scomparsa del popolo

di Alberto Asor Rosa



L'ondata di indignazione e di condanna seguita alla pubblicazione dei dati (certo impressionanti) sulla corruzione regionale laziale - molto commendevole, anche se in ritardo - ha lasciato in ombra un tentativo di analisi sociale del fenomeno.
Prima di lasciar la parola agli esperti, esporrei la mia tesi: e cioè che degrado, deperimento dei valori e corruzione (non più eccezionale, ormai, ma endemica, diffusa e resistente) affondino le radici in un vero e proprio spappolamento socio-economico del popolo italiano.

Io sono uno che, molti anni fa, ha creduto che dalla classe operaia sarebbero scaturite le nuove élite, destinate a guidare verso altri traguardi i destini nazionali. Ciò, come è evidente, non è accaduto: la classe operaia, oggi, lotta prevalentemente, e spesso con vera disperazione, per la propria fisica sopravvivenza. Ma non è neanche accaduto che le fonti tradizionali di formazione delle élite (i partiti, le classi sociali dominanti) abbiano continuato, come per un certo periodo era accaduto, a farlo. Dov’è stata la borghesia, c’è stata una borghesia in Italia in tutti questi anni?

È endemica l’assenza di compattezza e di consapevolezza da parte del popolo italiano (endemica in questo caso vuol dire: secolare). In Italia niente mai che abbia interpretato il ruolo di le peuple o di das Volk (magari anche con gli aspetti retorici e reazionari che essi a casa loro hanno talvolta assunto, ma al tempo stesso con gli innegabili vantaggi che ne sono derivati, dentro e fuori i confini statuali). Fra la Liberazione e, grosso modo, gli anni ’70 ha sopperito l’azione dei grandi partiti di massa (sopperito, si badi bene, non sostituito). Quando tale azione è venuta meno, è cominciata l’opera di sfarinamento, su di un soggetto in partenza assai debole, di cui vediamo oggi gli esiti ultimi. Se le classi tradizionali e i cosiddetti “ceti intellettuali” (professionisti, insegnanti, persino imprenditori) si sono ritirati sullo sfondo, a contemplare, più allibiti che critici, più passivi che attivi, lo sfascio dilagante, cosa resta al centro della scena?

Recentemente si è tornati a parlare, anche a sinistra, anche dai miei vecchi sodali operaisti, di popolo. Ma la categoria, e soprattutto la realtà, ne sono profondamente mutati. Popolo è concetto nobile, non merita d’essere banalmente assimilato all’uso che se ne fa nelle pur giuste polemiche antipopuliste.

All’inizio del degrado ci sono la crisi della politica e la catastrofe dei partiti di massa fra gli anni ’80 e i ’90. Le ha aperto la strada, e proprio nello specifico senso che stiamo usando, la precorritrice, devastante avventura craxiana. Poi è intervenuta, partendo esattamente da lì dentro (anche in senso strettamente sociologico) e fornendo al tempo stesso alla populace una miriade di modelli assolutamente simpatetici e imitabili, la lunga fase berlusconiana. Infine, più recentemente, è sopravvenuta, in maniera forse inaspettata ma non irrilevante, una forte componente neo-veterofascista: il fascismo, quello autentico, è sempre stato portatore di una disponibilità corruttiva profonda.

Il risultato è stato devastante: il popolo italiano si è disgregato in una serie di frammenti, spesso contrapposti fra loro e ognuno alla ricerca della propria personale, individuale e/o settoriale ricerca di affermazione, di denaro e di potere (esiste anche una variante localistica di tale dissoluzione, gravida tuttavia anch’essa di fattori di corruttela: il leghismo ne rappresenta il frutto e l’interprete più autentico).

Dallo spappolamento e dalla scomposizione della “figura popolo”, e di coloro che per un certo periodo di tempo avevano più o meno legittimamente preteso di assumerne la rappresentanza, è emerso un nuovo ceto sociale, il residuo immondo che sopravvive quando tutto il resto è stato digerito e consumato. Il vero, grande protagonista della corruzione italiana è questo ceto sociale, una classe tipicamente interstiziale, frutto dello spappolamento o dell’emarginazione o del volontario mutismo delle altre, priva assolutamente di cultura e di valori, ignara di progetto, deprivata all’origine e secolarmente di ogni potere, oggi famelicamente alla ricerca di un indennizzo che la risarcisca della lunga astinenza (oltre che i consigli regionali riempie freneticamente gli outlet, inonda le autostrade di Suv, aspira ad una visibilità da ottenere con qualsiasi mezzo, non teme per questo né il grottesco né l’osceno, parla una lingua che non è più l’italiano ma una sua bastarda, ridicola caricatura). Insomma, come in un incubo notturno il sogno berlusconiano ha preso corpo.

Tale classe, non solo promossa ma anche furibondamente corteggiata da alcuni, ma anche autopromossa in numerosi altri casi, ha cominciato a invadere la politica nazionale, si affaccia qua e là nei gruppi dirigenti di taluni partiti, siede ormai in abbondanza nelle aule parlamentari. Ma ha preso già direttamente il potere in numerose realtà regionali, sotto e sopra la linea delle palme, a testimonianza del fatto che il fenomeno è effettivamente nazionale, non locale. La precisazione che a questo punto ne facciamo induce forse a pensare che l’istituzione regionale abbia a che fare con la crescente affermazione di tale classe in politica e nella gestione del potere in Italia? Non avrei dubbi a rispondere affermativamente.

In un Paese come il nostro dove le peuplenon è quasi mai realmente esistito e l’idea di nazione è sempre stata così fragile e precaria (può esistere una nazione senza un popolo? può esistere un popolo senza una nazione?), la regionalizzazione ha aggravato le resistenze al processo unitario e ha spinto in avanti un ceto politico improvvisato e parassitario. Siamo ancora in tempo: invece di abolire le province, che sono innocue, bisognerebbe abolire le Regioni e tornare allo Stato unitario (meno ceto politico, enormemente meno spese, rafforzamento utile e conseguente dell’istituzione comunale, l’unica veramente italiana).

Se queste considerazioni fossero minimamente fondate, ci vorrebbe ben altro per battere l’abominevole classe emergente che una campagna (del resto molto, molto tardiva) di moralizzazione, diciamo così, di tipo pecuniario. Bisogna combattere e cancellarla in re, cioè nei suoi motivi sostanziali di sopravvivenza e di... fioritura. La situazione è tanto grave che persino una parte del movimento soi disant d’opposizione assume modi, linguaggi e richieste dell’abominevole classe (Grillo, ovviamente, ma non solo). Ricomporre il popolo, pur nella diversità delle opinioni politiche, dandogli una prospettiva strategica che punti innanzi tutto all’isolamento, alla sconfitta e alla cancellazione dell’abominevole classe emergente, è il compito di questo grande momento che sta di fronte ai nostri politici sani: moralità, sì, ma al tempo stesso contegno e cose e sostanza – insomma, la riforma intellettuale e morale, ma accompagnata da un serio programma economico. Chi avrà il coraggio e la forza di assumerselo fino in fondo?

mercoledì 3 ottobre 2012

Il Pdl di Berlusconi si dissolve: manette, ruberie e scissioni. Così muore un partito













Un partito muore così. Tra manette, ruberie, faide, minacce di scissioni, parlamentari inerti e smarriti. Sopra tutti e tutto aleggia lo spettro di un Capo indeciso e che non ha più voglia, costretto al silenzio dai suoi fedelissimi. La dissoluzione del Pdl è una frana continua. Verso il carcere, verso destra, verso il centro, verso il montismo, persino verso il nascenterenzismo. Ovunque. L’arresto di Franco Fioritoscolpisce un memorabile epicedio per il partito degli onesti mai nato: “Meglio il carcere che il Pdl”. Che si può parafrasare in mille modi.

PRIMO CASO: “Meglio un nuovo Msi che il Pdl”. È la convinzione che agita da mesi Ignazio La Russa, tuttora triumviro in carica del Pdl. La Russa, Maurizio Gasparri, Giorgia Meloni e GianniAlemanno si vedranno oggi a pranzo, il terzo nel giro di dieci giorni. L’ideona dell’ex ministro della Difesa è di fare una scissione morbida con la benedizione di Berlusconi. Una creatura almirantiana, legge e ordine, intruppando di nuovo Francesco Storace (forse anche i fliniani Briguglio e Bocchino) e consegnandola a Giorgia Meloni, che La Russa immagina come una Marine Le Pen italica. Dal Pdl al Msi, evitando accuratamente An, invenzione finiana. Alcuni sono entusiasti, tipo Massimo Corsaro e Fabio Rampelli. Altri tiepidi: è il caso di Maurizio Gasparri, per anni coleader con l’amico “Ignazio” di Destra Protagonista, l’ex correntone di centro di An. Dice però la Meloni: “Non vedo alcuna scissione all’orizzonte”. Al contrario dei neomissini, l’ex rautiano duro e puro Gianni Alemanno, primo sindaco nero della Capitale, vorrebbe guardare più al centro. E soprattutto non chiude alla prospettiva di un Monti-bis, odiatissimo invece da La Russa. Prima che esplodesse lo scandalo dei fondi alla Regione Lazio, il sindaco aveva due interlocutori forti: la governatrice Renata Polverini, sponsor del progetto civico “Città nuove”, e l’Udc di Pier Ferdinando Casini. Oggi è isolato e con un incubo in più: ricandidarsi a sindaco nella primavera del 2013, in contemporanea con le politiche, e non avere il paracadute di un seggio sicuro alla Camera. Per questo sono ancora forti le voci sulle sue dimissioni anticipate dal Campidoglio, per abbinare comunali e regionali entro la fine dell’anno. Così anche in caso di sconfitta, Alemanno rientrerebbe poi in gioco per il Parlamento. In fondo il tormentone della complessa scissione degli ex An è una questione di posti. Oggi, per limitarci a Montecitorio, i deputati del Pdl sono 209. Per il 2013 la previsione non supera i 130 e a La Russa, Berlusconi, ha già detto che non concederà più di venti seggi. Una miseria.
“MEGLIO MONTI e il centro che il Pdl”. La seconda declinazione dello strepitoso sfogo di Franco-ne Batman ha varie sfumature. La prima riguarda Beppe Pisanu, ufficialmente ancora nel Pdl, che con Casini e Fini forma la Triade del Monti dopo Monti. “Parassiti”, li ha definiti Giuliano Ferrara. Ma la fuga verso il centro è il pallino di tanti che sentono svanire la certezza di un seggio sicuro. L’ultimo caso è quello dell’ex ministra Stefania Prestigiacomo, che ha liquidato il Pdl come “una guerra tra piccoli gruppi di potere”. Sì, proprio lei che era al telefono con Luigi Bisignani, il faccendiere pregiudicato della P2 e della P4. Già, Bisignani e Gianni Letta. In Transatlantico, i falchi del Cavaliere nemici del gruppo Letta fanno l’elenco dei deputati doppiogiochisti rimasti in quota alla lobby già P4. Da un lato una finta fedeltà a B., dall’altro la tentazione di riciclarsigrancoalizionisti e sdoganarsi verso lidi centristi. Basta leggere, per esempio, le continue dichiarazioni di un’altra ex ministra, Mariastella Gelmini. Mara Carfagna, invece, smentisce ogni indiscrezione che la riguarda: “Apprendo dai giornali la notizia che me ne andrei”. Almeno per il momento. Il fronte più pericoloso, però, è stato aperto ieri dal ciellino Mario Mauro su Avvenire, quotidiano dei vescovi italiani. Mauro, presidente dei parlamentari europei del Pdl, ha chiesto di non perdere più tempo, di andare oltre Berlusconi e di trovare un nuovo leader. Maurizio Lupi, vicepresidente della Camera e altro ciellino di rango, prova a disinnescare così la mina Mauro: “L’unica cosa che decifro è la candidatura di Alfano”. In realtà, anche dentro Comunione e Liberazione, ormai stufa del berlusconismo, sta mettendo radici il progetto di una lista civica nazionale per Monti per superare il fatidico bipolarismo muscolare di questo ventennio. La terza e ultima variante del “meglio il carcere che il Pdl” è surreale, da fantapolitica: “Meglio Renzi che il Pdl”. Racconta Marcello de Angelis, deputato del Pdl e direttore del Secolo d’Italia: “È la sindrome di chi sta fuori dalla partita. Non hai il tuo uomo in campo e fai il tifo per l’avversario del tuo nemico. Sento tanti miei colleghi pronunciarsi entusiasti per Renzi”. Questa sindrome sta contagiando soprattutto i pidiellini un tempo sostenitori di Montezemolo uomo nuovo del centro-destra. Come Isabella Bertolini, da mesi ai margini del suo quasi ex partito. Magari Renzi perde le primarie e fa qualcosa di nuovo, fuori dal Pd. Persino Michaela Biancofiore, irriducibile berlusconiana, è stata sentita spendersi per il sindaco di Firenze.
“MEGLIO il carcere che il Pdl”. Da Palazzo Grazioli, B. assiste in silenzio al funerale del Pdl. Promette azzeramenti, simboli e nomi nuovi (almeno 40 sulla sua scrivania) e fa dire a chi lo vede quotidianamente: “Non ha voglia di candidarsi”. Poi, però, fa trapelare che il suo nome vale da solo il 9 per cento. È scisso tra populismo e montismo. Un partito muore così.


domenica 30 settembre 2012

Un Paese sull'orlo di una crisi di nervi



Negli scontri di Madrid tra i manifestanti e la Polizia davanti al Parlamento c'era qualcosa di nuovo. Le immagini non trasmettevano solo le cariche, le manganellate, i corpi di persone incoscienti trascinate di peso a cui ormai siamo abituati, ma un clima daguerra civile. I manifestanti avanzavano indifferenti ai colpi, non si curavano delle conseguenze, delle denunce e della galera. Non erano black block, ma gente normale con la faccia rassicurante del vicino di casa senza più niente da perdere. Avevano la stessa faccia dell'operaio dell'ALCOA che a Roma si diceva disposto a morire piuttosto che rinunciare al posto di lavoro che gli consente di mantenere la famiglia o la disperazione dei lavoratori dell'ILVA che sanno di barattare un misero stipendio con la salute e con la morte dei loro stessi figli. Non sono solo le aziende italiane a chiudere o a fuggire in Europa per sopravvivere, anche le multinazionali se ne vanno o tagliano il personale come la Fnac e la McDonald. Licenziano centinaia di persone, un numero che ormai non viene nemmeno preso in considerazione dai media, non fa più notizia.
La rabbia spagnola è contro le misure del governo, contro una povertà che si credeva superata per sempre, contro la politica della BCE, non è rivolta contro le ruberie dei politici, contro uno Stato predone e arrogante, contro leggi disegnate su misura dai parlamentari per rubare nella legalità. Rajoy e il suo predecessore Zapatero non sono accusati di truffa, malversazioni, corruzione, appropriazione indebita. Eppure, negli occhi degli spagnoli alla Puerta del Sol che gridavano "No nos rapresentan!" o "La voce del popolo non è fuorilegge", c'era una rabbia che mi ha ricordato la folla fuori dal palazzo diCeaucescu prima che fuggisse in elicottero diretto verso la sua fine. In Italia i politici hanno persino lo stomaco, dopo decenni di silenzio, al presagire dei forconi alle porte, di dichiarare di voler urgentemente una legge anti corruzione, di cambiare la legge elettorale, di ridurre gli stipendi dei politici, di abolire i vitalizi parlamentari. Meretrici pitturate che si fingono vergini per proporre un nuovo matrimonio ai cittadini. Nessuno ammette le proprie colpe, nessuno lascia la poltrona spontaneamente senza l'intervento della magistratura, nessuno denuncia il collega corrotto, nessuno rinuncia all'ultimo euro rubato "a norma di legge" alla collettività. Intanto il corpaccione dell'Italia si muove sempre più lentamente, ondeggia, barcolla. Si tiene ancora in piedi, ma senza ragione apparente, come un vecchio ubriaco prima di collassare, all'improvviso. Rigor Montis è tornato dagli Stati Uniti con in tasca il reincarico, mentre coloro che hanno affossato, l'Italia negli ultimi decenni si propongono senza pudore come salvatori sugli schermi televisivi intervistati dai loro servi. La rabbia italiana potrebbe fare impallidire quella spagnola. Dio fa impazzire coloro che vuole perdere.

Povera Italia, svuotata da corrotti e banchieri




La lettera che il faccendiere Valter Lavitola voleva inviare meno di un anno fa a Silvio Berlusconi, certifica quello che tutti sapevamo, anche se adesso tanti faranno finta di cadere dalle nuvole: che nella storia recente di questo Paese non c’è stato niente di trasparente e niente è stato fatto secondo le regole della democrazia.
Adesso è sotto gli occhi di tutti la verità sulla caduta del governo Prodi. Non fu provocata dalla litigiosità della coalizione come hanno raccontato i giornali per anni, ma molto più volgarmente dai soldi sborsati per comprare senatori senza dignità né onore, gentaglia molto peggiore di chi si vende negli onesti quartieri a luci rosse.
Con gli stessi mezzi sono stati affrontati i dissensi interni alla maggioranza fino a che, nel dicembre 2010, siamo arrivati addirittura alla compravendita dei voti nei corridoi di Montecitorio ridotti a un suq, con tanto di prezzario ufficiale noto a tutti. Grazie a quella vergogna rimasta impunita, Berlusconi si salvò e restò al governo, purtroppo per tutti noi, in un anno cruciale per l’economia italiana.
Se oggi ci troviamo in questa situazione disperata è dunque per colpa di una vicenda politica inquinata e snaturata dalla corruzione, dalla compravendita dei parlamentari, dagli scandali pilotati per azzoppare gli avversari e dalla complicità di chi guardava dall’altra parte pur di non accorgersi di cosa avveniva. La crisi della democrazia e delle istituzioni di questo Paese non è nata ieri, ma è datata a quasi vent’anni fa.
Per tirare l’Italia fuori da questa melma ci vorrebbe uno scatto morale paragonabile a quello con cui i padri della Repubblica seppero uscire dal fascismo. Serve un bagno risanatore di democrazia e di trasparenza, come ai tempi dell’Assemblea costituente. Ci vuole una fase di grande ed entusiasta partecipazione diretta dei cittadini alla rinascita del Paese, come nella Resistenza e subito dopo. Questo è quello per cui ci battiamo noi dell’Italia dei Valori. Niente di più e niente di meno.
Invece vediamo tutti i giorni nuove manovre per spogliare gli elettori del diritto a decidere da chi vogliono essere governati. Assistiamo a un tentativo sfacciato di rendere i cittadini ancora meno partecipi della vita pubblica e meno padroni del loro destino di quanto non siano stati negli ultimi vent’anni.
Significa purtroppo che, anche se il grande corruttore non sta più a palazzo Chigi, non siamo ancora all’uscita del tunnel. Non rivedremo la luce, nemmeno dal punto di vista della crisi economica, fino a che la democrazia italiana, svuotata prima dal governo dei corruttori e poi da quello dei banchieri, non rinascerà grazie allo slancio dei lavoratori, dei cittadini onesti e di chi, come noi, vuole rappresentare quell’Italia pulita.

A. Di Pietro