sabato 15 settembre 2012

L’Altrapolitica può vincere



di Paolo Flores d'Arcais, da Il Fatto quotidiano

I partiti del fronte unico conformista di Napolitano e Monti sono in grande ambascia, i sondaggi dei diversi istituti demoscopici annunciano unanimi che alle prossime elezioni il primo “partito” sarà quello che l’establishment esorcizza e insulta come “antipolitica”, ma in realtà è solo buona volontà di Altrapolitica in contrapposizione ai disastri della Casta. 

Le intenzioni di voto per Grillo e Di Pietro, sommate, superano infatti ormai quelle del Pd, da un anno vincitore “in pectore”, che con l’attuale legge elettorale si prenderebbe il 55 % dei seggi alla Camera. In realtà i voti per l’Altrapolitica sono già molti di più, poiché nel conteggio non compaiono quelli di una eventuale lista di società civile legata alle lotte degli ultimi 15 anni e promossa dalla Fiom, voti che in buona misura stentano a convergere su M5S e Idv, ma che rifiutano ormai Sel, Pcd’I e altre Rifondazioni. 

Nel paese il mood anti-Casta e il bisogno di Altrapolitica, benché non perfettamente coincidenti, sono del resto maggioranza schiacciante, visto che l’insieme dei partiti ha da mesi nei sondaggi il gradimento stabile di un miserando 5 %. Per questo il fronte unico conformista di Napolitano e Monti vuole a tambur battente una legge elettorale peggiore del Porcellum: per impedire che il prossimo Parlamento rispecchi questa travolgente volontà di svolta. Ma i marchingegni di leggi truffa non basteranno più. Il peso del “partito” dell’Altrapolitica alle urne non può che aumentare. L’esasperazione e la collera di decine di milioni di italiani contro tutte le nomenklature partitocratiche, è tale che ormai si esprimerà nel voto anche se Grillo e Di Pietro non si emendassero dai difetti macroscopici qui più volte segnalati. Ed è giusto così. 

La Casta tenta di correre ai ripari scimmiottando l’Altrapolitica, cercando di ricucirsi una verginità di società civile e di “nuovo” a forza di retorica e di “rottamazioni”. Ma che credibilità possono avere i Montezemolo e i Renzi, o i Passera e i Bonanni unti dal cardinal Bagnasco? La potenza di fuoco del monopolio mediatico sarà dispiegata oltre ogni indecenza, ma l’organicità di questi signori alla Casta, di cui vogliono semplicemente scalzare i vertici per prenderne il posto, è troppo smaccata perché l’equivoco possa durare. 

Il fronte unico conformista può vincere solo se l’Altrapolitica (dal M5S all’Idv, dai movimenti alla Fiom, dalle testate libere agli intellettuali pubblici) nei prossimi mesi peccherà ancora più “fortiter”, per atti e / o omissioni, piccinerie di bottega in primis.

Caro Beppe, se stai da solo questi ti fregano




“Se in futuro ci fosse la possibilità di coordinare e coagulare il dissenso intorno a una proposta politica costruttiva, noi non solo parteciperemmo, ma ne saremmo promotori”. Questo è quanto ho affermato in un’intervista pubblicata oggi dal “Fatto quotidiano”.
Onorevole Di Pietro, i sondaggi danno M5S e Idv insieme al 25 per cento. Potreste essere il primo partito.
È un dato di fatto che la maggioranza non solo relativa, ma anche qualificata degli italiani non crede più alla classe politica tradizionale, a quelli che in un modo o nell’altro si mettono sempre d’accordo, com’è stato per il governo Monti. Doveva essere una situazione transitoria per rispondere alle sollecitazioni dell’Europa e si è trasformato in un governo di lungo corso sostenuto da una coalizione di partiti che si erano presentai su fronti opposti. E adesso si parla pure di Monti bis.
Quindi che fa, si allea con Grillo?
Se ci fosse la possibilità di coagulare il dissenso l’Idv se ne farebbe carico, ma è evidente che in queste ore è la priorità della politica è individuare una legge elettorale che permetta l’ennesima truffa: un voto ognuno per sé e poi un bell’inciucio post elezioni tra partiti che si presentano in alternativa di giorno e si accoppiano di notte.
Non si voterà con il Pocellum?
La legge elettorale ci sarà. Questa attuale non risponde più agli interessi dei partiti tradizionali. Oggi c’è la necessità di fermare la disperazione e il dissenso non dal punto di vista delle risposte, perché non sanno come darle, ma isolando la contestazione anche se rappresenta la maggioranza relativa dei cittadini.
Cioè voi, i non allineati. Però Il M5S non vuole allinearsi proprio con nessuno.
Non intendo tirare in alcun modo la giacchetta al Movimento 5 Stelle, perché ha fatto la scelta di esprimere e raccogliere la protesta contro la vecchia politica. Noi dell’Idv, che la protesta l’abbiamo fatta prima di loro, diciamo solo: attenzione, di sola protesta si muore, bisogna costruire un’alternativa e aver il senso di responsabilità per mettere insieme tutte le forze che possono trovarsi intorno a un programma. Se stai da solo questi ti fregano, paradossalmente il voto di mera protesta toglie la possibilità alternativa.
Consigli a Grillo? Non è uno che li accetta in genere…
L’errore è che personalizzare: Grillo oggi, come Di Pietro ieri. Chi vota l’uno o l’altro sta votando non la persona ma un’idea di politica diversa, personalizzare e ghettizzare il voto su Grillo o Di Pietro serve solo all’informazione malata .
E il dibattito sulla democrazia interna al Movimento?
Anch’io quando ho fondato l’Idv ero da solo. Prova a seminare un campo di grano, all’inizio è un chicco di grano, poi da chicco nasce chicco. Ora anche il M5S si sta strutturando e radicando sul territorio. Un processo del genere va aiutato, non criminalizzato. Se tanta gente vota Movimento 5 Stelle, bisogna chiedersi il perché. Al di là della stima personale che ho per Beppe e Casaleggio, sto cercando di trovare una via per costruire un’alternativa, una massa critica alternativa. E non parlo solo di Grillo, anche la raccolta di firme per il referendum contro la riforma Fornero del lavoro va nella stessa direzione, una proposta di programma politico ma anche un messaggio ai partiti che a parole dicono sempre di voler stare dalla parte dei più deboli. Con chi vuoi stare, con D’Alema che vuole Casini al governo e dunque rafforzerà la riforma Fornero o con noi?
Matteo Renzi, a proposito della foto che la ritrae insieme a Vendola dopo il deposito delle firme, dice che è “brutta”, il simbolo “di una sinistra che non governerà mai”.
L’Italia dei Valori non intende parlare solo al popolo di sinistra, questa schematizzazione è l’ennesima furbata per sfuggire al merito. Renzi, piuttosto, ci dica se un lavoratore che viene illegittimamente licenziato debba essere o no reintegrato sul posto di lavoro se una sentenza riconosce che è stato leso un suo diritto. Questo è il punto. Bisogna dire da che parte si sta.
Enrico Letta invece si è arrabbiato con Vendola: Niente scherzi”, dice.
Una cosa è la dirigenza del Pd, una cosa sono gli elettori del Pd. Preferisco parlare con loro. In questo momento sto per partecipare alla festa della Fiom di Torino. Fuori mi stanno aspettando i lavoratori della De Tomaso, uno dei 150 tavoli di crisi aperti al ministero. Sono quasi mille persone, prese in giro da un imprenditore malfattore [Gian Mario Rossignolo, agli arresti domiciliari perché accusato di truffa ai danni dello Stato, ndr] che aveva promesso mari e monti e poi li ha lasciati in mezzo a una strada. Su questi temi è inutile cercare di non disturbate il manovratore. Bisogna intervenire in modo concreto.

Di Piero

venerdì 14 settembre 2012

Ascolti tv, il problema è il destinatario

di Domenico Naso




5.700.000 persone sono tante. La somma, per dire, degli abitanti di Roma, Milano, Napoli,Venezia e Bologna. E questa moltitudine di italiani, ieri sera, ha guardato la fiction L’Onore e il Rispetto suCanale 5. Arrivata alla terza stagione (la prima è del 2006, la seconda del 2009), la serie targata Mediaset vede come protagonista l’attore-cane più cane in assoluto (senza offesa per gli amici più fedeli dell’uomo): Gabriel Garko. Soggetto e sceneggiatura fanno ridere, visto che trattasi di una storia di mafia all’acqua di rose, con accenti siciliani forzati e ridicoli (il siculo-piemontese del protagonista è da sganasciarsi dalle risate), che poggia più sul sex appeal (sic!) di Garko che sul resto. Il cast, poi, è zeppo di residuati bellici, attori e attorucoli riciclati qua e là tra le produzioniMediaset. E allora, un prodotto così scadente, come può racimolare 5,7 milioni di telespettatori e uno share del 26,5%?

Le ragioni possono essere molteplici, a cominciare dalla palese debolezza dell’avversario diretto:Rai1 ha risposto, infatti, con uno Speciale anni Ottanta di Affari Tuoi, condotto da Max Giusti. Sì, Affari Tuoi quello dei pacchi. Ancora. Come se i gusti degli italiani siano immutabili. Come se la novità televisiva di un decennio fa possa restar tale fino alla fine dei giorni. Risultato? 3,2 milioni di ascoltatori e il 13% di share. Pochino, per quella che dovrebbe essere l’ammiraglia del servizio pubblico.
Ma nemmeno l’insipienza palese della Rai può giustificare un risultato così alto per L’Onore e il Rispetto, soprattutto se pensiamo che non siamo ancora entrati nella fase migliore per gli ascolti tv. Piace Gabriel Garko? Sì, inspiegabilmente e incredibilmente sì. Piace alle sciure, piace alle figlie delle sciure, piace alla generazione cresciuta a tronisti e postini di Maria. Piace, dunque, a chi la televisione la guarda di più.
A costo di risultare snob, non possiamo assistere inerti alla piega che hanno preso i gusti televisivi degli italiani. La nostra tv è quella che è: non c’è una programmazione seria e al passo con i tempi, e soprattutto in questo periodo non ci sono soldi. Ma il problema principale di cotanto degrado catodico, è il pubblico stesso. Forse dovremmo accettare l’idea che gli italiani siano diventati un popolo mediocre, provinciale e di basso livello culturale, ammettendo che il guaio della tv italiana(e non solo della tv, in realtà) è il destinatario, non il messaggio.
E allora che fare? Adeguarsi e sopravvivere o lottare e rischiare di morire? Qualche eroe della resistenza televisiva in giro c’è. Ma non basta. E finché non troveremo il coraggio di scontentare il popolo bue, non ci resterà che spegnere il televisore, atterriti dalla paura di incappare nell’ultima fatica di Gabriel Garko.

Mezzogiorno, l'ora della responsabilità



ntervista a Carlo Trigilia, docente all'università di Firenze. Il mancato sviluppo del sud dipende dal ceto politico locale, incapace di creare i beni utili a fare impresa. I governi centrali dovrebbero vigilare DI G.RISPOLI

“Il Mezzogiorno? Se ne parla sempre meno. E questo nel momento in cui, pensando allo sviluppo del paese, affrontarne i problemi di fondo diventa più che mai decisivo”. Carlo Trigilia, docente all’università di Firenze e presidente della Fondazione Res, dedica da sempre tanta parte della sua attività di ricerca alla questione meridionale – locuzione che può sembrare fuori moda ma che resta più di ogni altra utile a definire un nodo che centocinquant’anni dopo l’unità rimane ancora irrisolto –. Il suo Sviluppo senza autonomia, uscito nel ’92 presso Il Mulino, fece molto discutere per la presa di distanza dalla lettura all'epoca più diffusa sulle ragioni del ritardo meridionale. Ragioni individuate, più che nella carenza di capitali, competenze e infrastrutture, nelle modalità degli interventi per lo sviluppo sino ad allora realizzati e nei loro effetti negativi; in altre parole: nelle responsabilità della politica.

Una problematica che ritorna oggi in Non c’è Nord senza Sud – sottotitolo: “Perché la crescita dell’Italia si decide nel Mezzogiorno”, sempre per il Mulino –, testo in cui, di nuovo sotto accusa la politica (locale e centrale), non c’è più – bruciate le attese degli anni 90 – la fiducia espressa nel primo lavoro circa una possibile “responsabilizzazione delle classi dirigenti locali”.

Un quadro non proprio ottimistico, dunque, che però non impedisce all’autore di ritornare sul nesso che lega i destini del paese a quelli del Mezzogiorno e di affermare, appunto, che non c’è Nord senza Sud. Una formula che può apparire scontata ma scontata non è. Lo sanno bene le forze – poche per la verità, tra queste la Cgil – impegnate nel ventennio berlusconiano (e leghista) a combattere i molti veleni sparsi contro il meridione, e che attualmente – in un clima apparentemente meno astioso – devono comunque scontare il cono d’ombra in cui sono finiti i temi di fondo del problema meridionale.

“Eppure – avverte Trigilia in avvio di conversazione – il problema oggi è ancora più stringente. Il Mezzogiorno resta, così come fu per il meridionalismo classico, una grande questione nazionale. La globalizzazione da un lato, l’integrazione europea dall’altro, ci dicono che un Sud assistito non è più sostenibile. Riprendere il cammino dello sviluppo non si può, dunque, se non torniamo ad affrontare il problema meridionale”.

Rassegna In quale direzione muoversi?

Trigilia Le direzioni sono due. La prima è quella dei trasferimenti di risorse. Durante gli ultimi sessant’anni i trasferimenti netti dal centro alle regioni del Mezzogiorno sono stati stimati dalla Banca d’Italia tra un quinto e un sesto del Pil meridionale. Negli ultimi anni siamo a circa 60 miliardi annui: un importo che è poco meno del costo del debito in un anno, destinato essenzialmente alla spesa ordinaria, ovvero sanità, istruzione e formazione, assistenza – intorno al 5 per cento, quindi molto ridotta, è la parte indirizzata verso le politiche per lo sviluppo –. Tutto questo naturalmente non deve spaventare: un grande paese può e deve mettere in conto l’esigenza di aiutare le aree più deboli. Cos’è che non va? Il fatto che le regioni destinatarie di questi trasferimenti sono poi incapaci di pagarseli, almeno parzialmente, attraverso uno sviluppo sostenibile.

Rassegna Un regime di assistenza.

Trigilia Un regime di assistenza. Ed è un problema molto serio, perché con la globalizzazione economica e l’integrazione europea, ripeto, non ce lo possiamo permettere. Il problema, allora, è il passaggio da una integrazione assistenziale dei territori del Sud a una integrazione di tipo completamento diverso. Ma su questo non mi pare ci sia grande consapevolezza. Del Mezzogiorno si parla ormai solo quando ci sono le emergenze, quando scoppiano i casi Ilva o Alcoa. Non più, ripeto, come di una grande questione nazionale. Un paradosso. Perché la soluzione del problema è decisiva per le sorti dell’intero paese; oggi, torno a dire, in maniera più stringente di un tempo. Senza dimenticare che, se non si cambia strada, corriamo il rischio di un adattamento all’economia criminale.

Rassegna Che fare?

Trigilia Bisogna innanzitutto capire cosa non ha funzionato. La diagnosi tradizionale batte sempre sull’insufficienza degli aiuti. È una diagnosi che non condivido, che bisognerebbe avere il coraggio di capovolgere. Il problema che noi abbiamo di fronte non è primariamente un problema economico, di difetto delle risorse erogate. Il problema è che noi abbiamo avuto una spesa senza vincoli né controlli, con il risultato di rafforzare le reti clientelari e l’autoreferenzialità della politica. Il tema da mettere a fuoco, allora, è costituito dall’infrastruttura socio culturale, dalla qualità delle relazioni sociali, da una politica legata essenzialmente alla riproduzione del consenso. Prima dell’acqua, mi si passi la metafora, è necessario mettere mano all’impianto di distribuzione, alla rete idrica, altrimenti abbiamo come minimo un mare di falle e un grande spreco.

Rassegna Come del resto accade non solo metaforicamente. La questione decisiva, dunque, è la qualità del governo locale, del ceto politico. Ma questo benedetto ceto politico, di livello così tragicamente mediocre – quando va bene, quando non è colluso con le cosche di turno – è poi pur sempre il prodotto di una società malmessa.

Trigilia Il funzionamento della politica al Sud è condizionato dalla cattiva qualità delle relazioni, dalla tradizionale debolezza della cultura civica. Ma non è solo un problema alla Putnam. Il punto decisivo è che il funzionamento stesso della politica ha accentuato, dilatato, i difetti tipici della società meridionale, distruggendo così capitale sociale e agendo come un vero e proprio freno allo sviluppo. Vale però la pena ricordare che tutto questo è avvenuto con la responsabilità dei governi centrali, che hanno trasferito risorse senza porre vincoli. Il Mezzogiorno è stato da un lato mercato di sbocco per le imprese del centro-nord, dall’altro serbatoio di consenso: un esercito elettorale di riserva.

Rassegna Qual è la soluzione?

Trigilia Il governo centrale deve bloccare questo scambio perverso, introdurre controlli, vincoli e sanzioni sui trasferimenti. Dare il via, in questo campo, a una vera e propria spending review. Detto in altri termini, bisogna porre fine all’illusione autonomistica, all’idea che dare più potere agli enti locali e regionali sia sinonimo di crescita. Bisogna prendere di petto questa autonomia senza responsabilità e sottoporla a vincoli e sanzioni. Oggi, a pagare, a subire dette sanzioni, in termini di imposizione fiscale e tagli ai servizi, sono come ben sappiamo i cittadini. Per interrompere lo scambio perverso, invece, occorre sanzionare gli amministratori. Sotto il profilo economico si tratta di un intervento a costo zero.

Rassegna Ma i costi politici…

Trigilia I costi politici, certo, possono essere elevati. Penso tuttavia che per un governo di tecnici le difficoltà dovrebbero essere minori.

Rassegna Anche se l’esecutivo attuale ne avesse l’intenzione, i tempi sarebbero un po’ stretti, non crede?

Trigilia Sì, ma una spending review sui trasferimenti e una disincentivazione di comportamenti negativi potrebbe essere avviata. Le stesse forze politiche nazionali, pensando proprio alle difficoltà del dopo, non credo farebbero molte obiezioni. Colpire l’autonomia senza responsabilità dei governi locali resta in ogni caso decisivo. L’altro grande problema è evitare che il nodo dello sviluppo si riduca alla questione dei fondi europei. Il tema non è solo il loro utilizzo, che pure non è questione da poco. La portata del problema, del problema sviluppo, è così grossa che davvero non la si può confinare nel recinto di un miglior utilizzo delle risorse che vengono dall’Europa.

Rassegna Su cosa puntare, allora?

Trigilia La questione è come sostenere interventi per la crescita che siano anche poco costosi. Noi abbiamo alcune opportunità: i beni culturali e ambientali, l’agricoltura, le competenze scientifiche fornite dall’università pubblica; risorse che possono essere utilizzate per fare impresa e soddisfare una domanda di qualità. La strada da percorrere, allora, è l’avvio di politiche vòlte alla costruzione di beni e servizi collettivi, capaci di valorizzare e promuovere le risorse del Sud. Mi è capitato già in altre occasioni di fare l’esempio di Siracusa e Ravenna. Le due città hanno una dotazione di beni culturali e ambientali relativamente simile. Ravenna, però, riesce a sviluppare, ad attivare le proprie risorse producendo reddito e occupazione in una misura ben più sostanziosa di Siracusa.

Rassegna Cos’è che fa la differenza?

Trigilia A Ravenna la classe politica locale ha una visione strategica; pubblico e privato riescono perciò a lavorare insieme, a valorizzare l’offerta di cui la città dispone. L’esperienza passata, gli incentivi, gli aiuti alle singole imprese non hanno cambiato il quadro. Le elite locali, nel Sud, insistono su questa strada. Ci vorrebbe al contrario un grande progetto per le città capace di produrre beni collettivi, servizi adeguati a uno sviluppo in grado di autosostenersi.

Rassegna Non era la filosofia della programmazione negoziata, così come fu concepita a metà degli anni Novanta?

Trigilia Ma non c'è stata selezione e si è finiti nel calderone dell’autonomia senza responsabilità. Il problema è un ritorno ragionevole al centro, capace di stimolare le classi dirigenti locali, dico ancora una volta, a offrire beni collettivi. Beni che poi aiutano a fare impresa. C’è però una riflessione che vorrei aggiungere. Accennavo alle politiche locali, e al loro possibile carattere. Ma non basta. Le buone politiche non possono sostituirsi alla politica, non si fanno senza la politica. E questo è un grande buco nero. Noi abbiamo bisogno di una selezione. La società civile più responsabile dovrebbe chiedersi: come funzionano i partiti? Da questo punto di vista mi ha molto colpito il discorso del presidente Napolitano a Mestre. Negli altri paesi europei i partiti – che pure non sono più i grandi partiti del Novecento – continuano a funzionare come strutture di selezione di una classe dirigente decente.

Rassegna
 Da noi…

Trigilia
 Da noi? Beh, la prognosi resta riservata. 


giovedì 13 settembre 2012

Matteo Renzi !!! oppure ???



di Matteo Pucciarelli e Giacomo Russo Spena

Il sindaco di Firenze miete consensi grazie agli slogan contro gli inamovibili del Pd. Ma il rischio è quello di passare dai soliti noti ai soliti ignoti. Che ripropongono le stesse ricette blairiane che altrove, a sinistra, sono confinate nell'albo delle peggiori sconfitte.

Matteo il Renzi, giovane e poi giovane e infine giovane. Vignetta folgorante di Ellekappa su Repubblica: «Renzi smetta di insultare tutti e si concentri sul programma». Risposta: «È quello il programma». Appunto, sostituire le vecchie volpi – ormai decrepite – e al loro posto insediare un’altra volpe: lui. Giovane, ricordiamolo, casomai ve lo foste scordati. Un po’ meno giovani sono le sue idee, le poche che trapelano. Ma quello è un altro discorso.

Andiamo con ordine: «Se vinco io le primarie, tutti a casa». Contro le nomenklature e gli “inciuci” di corrente interne (io do un posto in segreteria a te, tu dai la presidenza di commissione a me), il sindaco di Firenze incarna un po’ il Beppe Grillo del Pd. Vuole voltare pagina e chiudere l’era geologica dei D’Alema e dei Veltroni. Queste primarie di coalizione sono il suo banco di prova, il momento per prendersi il partito – sconfiggendo la linea del segretario – e tutto il centrosinistra. Secondo i sondaggi si profila un testa a testa con Bersani, con Nichi Vendola a fare l’outsider. 

«Manderei a casa Veltroni, come tutti quelli che hanno fatto più di quindici anni di Parlamento. Credo si possa lasciare spazio ad altre persone». Difficile dargli torto. Qualcuno può forse sostenere il contrario, a parte quelli che da 15 anni e passa pascolano a Montecitorio? Probabilmente no. 

Resterà negli annali – capitolo: cose da non fare mai – il suo incontro privato ad Arcore a casa di Silvio Berlusconi. Dovevano parlare di Firenze, loro. Un po’ come andare a comprare una chiave a brugola nella casa al mare del proprietario della ferramenta. «E per Firenze l’avrei fatto cento volte», ripete lui – che infatti tiene così tanto a Firenze che sta correndo per le primarie del Pd. 

Il Cavaliere, attratto da cotanta coerenza, gli avrebbe detto col sorriso a 96 denti: «Tu mi somigli». Voleva essere un complimento. Il carisma, il piglio e il leaderismo sono quelli made in Silvio. Così come la confusione programmatica: quali sono le idee di Matteo Renzi? A parte il ricambio generazionale, la riduzione del numero dei parlamentari e la non candidatura di chi è condannato. Come sarà composto il centrosinistra? Alleanza con l’Udc, con Sel, con entrambi o con nessuno? Mistero. Allora andrà da solo il Pd, rispolverando l’autosufficienza veltroniana? «Figuriamoci», la risposta di Renzi. 

Al momento siamo nella fase “picconate” e sano populismo. Per il resto c’è tempo. Gira per l’Italia in camper con la sua squadra composta principalmente da sindaci e amministratori locali e sostenuta da alcuni guru e finanziatori tra cui l’imprenditore Giorgio Gori, ex Mediaset. Il suo consigliere economico è Pietro Ichino, il giuslavorista “democratico”, favorevole alla manomissione dell’articolo 18 e conciliante con la riforma Fornero e sulle pensioni. Gli indici e le statistiche vanno da una parte – chiedere a Luciano Gallino cosa ha prodotto negli ultimi trenta anni la deregolamentazione del mondo del lavoro – e Ichino va dall’altra. La categoria è la solita: sono-di-sinistra-ma-dico-cose-di-destra-mi-sento-molto-coraggioso.

«Io sto dalla parte di Marchionne, dalla parte di chi sta investendo sul futuro delle aziende – disse - quando tutte le aziende chiudono. È un momento in cui bisogna cercare di tenere aperte le fabbriche». Ottima scelta, effettivamente: si è visto che fine ha fatto il piano Fabbrica Italia. Chiuso in un cassetto. Oggi dice: «Il punto è che il referendum è passato però Marchionne non ha fatto l'investimento che aveva promesso». Insomma, pace, cosa vi devo dire ragazzi. Sergio è fatto così, c’ha buggerato, ci sono cascato, amen.

Fece grande battaglia, a Firenze, contro il noto nemico del buon governo cittadino: il sindacato. Colpevole, orrore, di opporsi all’apertura dei negozi il Primo Maggio. E comunque i sindacati «sono pieni di soldi e non tutelano i giovani», spiegò ancora. Non è la precarietà (legalizzata in Italia nel 1996 grazie al centrosinistra, legge Treu) che non tutela i giovani, no: sono i sindacati.

Ora, rivela sempre Repubblica, Renzi starebbe pensando al piattino forte da servire sulle nostre, vostre, tavole: vincere le primarie e poi fare un passo indietro a beneficio di un nome nuovo: Mario Monti. Cambiando l’ordine degli addendi, insomma, il risultato non cambia. Scordatevi le Moleskine, il destino della nazione sta tutto nell’Agenda Monti. Che sta dando i suoi buoni frutti, com’è noto: «Pil a picco», «crollano i consumi» (titoli dei giornali di oggi), Cgil pronta allo sciopero generale e operai inferociti che si rivoltano contro gli esponenti del Pd. Il bengodi, insomma. 

Altro nodo da sciogliere, infine, è quello relativo alle dimissioni da sindaco di Firenze. Se Renzi possedesse un pizzico di coerenza (non ce l’ha, non scomodatevi) lascerebbe la poltrona da primo cittadino e si dedicherebbe alla politica nazionale – così come aveva intimato in passato a suoi colleghi di partito. Invece no, il Renzi è intenzionato a governare la città dal suo camper. In giro per l’Italia. Tanto lui è giovane. Il giorno prima a Milano (per dire), la notte in viaggio, la mattina a Firenze per controllare che sia tutto a posto, il pomeriggio a Verona: quante energie, roba da non credere. Dicono che in camper abbia pure gli attrezzi per fare un po’ di esercizio fisico, e ci mancherebbe, anche l’occhio di chi ascolta vuole la sua parte.

La cosa tanto divertente quanto triste è che lo slogan renziano contro i D’Alema e i Veltroni riscuote ovunque larghi consensi: alle feste dell’Unità è tripudio fisso. Chiaro segnale delle colpe trentennali di una classe dirigente “di sinistra” incapace di alcunché, a parte l’auto-preservazione. Ma ciò non toglie che la politica a colpi di slogan rischia di ritorcersi contro chi pur di vedere sparire i soliti noti si affida ai soliti ignoti.

martedì 11 settembre 2012

Videolettera a Napolitano: Presidente non si renda complice


L'Anm bacchetta il pm Ingroia «Basta comportamenti politici»




Ha fatto un'affermazione «politica» il pm di Palermo Antonio Ingroia invitando i cittadini a cambiare la classe dirigente. E con il collega Di Matteo avrebbe dovuto «dissociarsi» dal «plateale dissenso» espresso alla Festa delFatto quotidiano nei confronti del Capo dello Stato. Lo dice all'Ansa il presidente dell'Anm Rodolfo Sabelli. Sabelli contesta a Ingroia anche questo punto: «Tutti i magistrati, e soprattutto quelli che svolgono indagini delicatissime devono astenersi da comportamenti che possono offuscare la loro immagine di imparzialità, cioè da comportamenti politici». E con il suo invito a cambiare la classe dirigente del Paese, «Ingroia si è spinto a fare un'affermazione che ha oggettivamente un contenuto politico»; con il rischio così di «appannare» la sua immagine di «imparzialita». Ingroia ha anche sbagliato, come pure Di Matteo, ad assistere in silenzio alla «manifestazione plateale di dissenso nei confronti del capo dello Stato», che c'è stata domenica alla Festa del Fatto quotidiano: «In una situazione così un magistrato deve dissociarsi e allontanarsi», aggiunge Sabelli, che invita tutti i magistrati «a evitare sovraesposizioni» e a «non mostrarsi sensibili al consenso della piazza». 
DI MATTEO- «Non ho difficoltà a ribadire la difesa e a manifestare il sostegno ai pm di Palermo. Ma questa non è una novità: l'Anm tutta, la giunta e io ripetutamente abbiamo manifestato solidarietà; non capisco come si possa parlare di mancato sostegno», Rodolfo Sabelli risponde al pm di Palermo Nino Di Matteo, titolare con Ingroia dell' inchiesta sulla trattativa tra Stato e mafia che domenica aveva lamentato il «silenzio assordante» dell'Anm e del Csm sugli attacchi ricevuti dai magistrati che conducono l'indagine.
INGROIA - La risposta di Ingroia? «Il presidente dell'Anm non conosce tutto il mio intervento, si è limitato a criticare una frase estrapolata. Mi sono limitato a un'analisi sociologica, a una valutazione che si può definire politica o storica o sociologica. E da esperto di mafia, di questi argomenti posso capire più di Sabelli, con tutto il rispetto», spiega il procuratore aggiunto di Palermo. Per il magistrato «il discorso riguardante il cambiamento della classe dirigente va inquadrato in un contesto più ampio, in cui parlavo della necessità di recidere i legami dello Stato italiano con la mafia dall'Unità ad oggi. In questo senso ho detto che va cambiata la classe dirigente». Le critiche al capo dello Stato? «Nella cronaca cui si riferisce Sabelli è scritto che io e il collega Di Matteo siamo rimasti impassibili, non approvandole in alcun modo».
GASPARRI - «È davvero stupefacente e commovente la rapidità con cui il presidente dell'Anm Sabelli ha censurato le esternazioni politiche di Ingroia». Lo afferma il capogruppo del Pdl al Senato Maurizio Gasparri. «Sabelli ne ha contestato l'impropria esortazione a cambiar classe dirigente. Probabilmente nei mesi e negli anni precedenti il dottor Sabelli è stato lontano dal nostro Paese o ha ignorato i comportamenti e le affermazioni di Ingroia, che da tempo si è rivelato militante politico di parte provvisoriamente impegnato in una doppia attività di magistrato e di ideologo», conclude Gasparri. 
CICCHITTO - Alle parole di Gasparri fanno eco quelle di Fabrizio Cicchitto (capogruppo del Pdl alla Camera). «Non solo i banchieri ma anche i magistrati limitano l'autonomia della politica», assicura Cicchitto . «Stando alle dichiarazioni di domenica si prospetta una situazione singolare e cioè che gli elementi fondamentali della futura relazione dell'antimafia sono suggeriti e ispirati dal dottor Ingroia, che peraltro si lamenta del ritardo temporale», ha detto, «d'altra parte non ci risulta che ci sia la benché minima reciprocità e cioè che noi possiamo influenzare o suggerire le strategie giudiziarie al dottor Ingroia». «L'autonomia della politica va garantita non solo rispetto ai banchieri ma anche rispetto ai magistrati. La tragedia è che oggi essa è schiacciata da entrambi questi poteri», ha sottolineato Cicchitto.

Floris: «Stessi ospiti in tv? È la classe dirigente italiana»




Giovanni Floris è il giornalista che in diretta tv ha tenuto botta a un Berlusconi infuriato. Al momento incursioni altrettanto violente sullo schermo dell'ex premier sulla carta non sembrano prevedibili, non ce lo vediamo Monti telefonare per contestare, ciononostante la stagione televisiva che il conduttore affronta non sarà una passeggiata.Ballarò riparte martedì 11 settembre alle 21.05 su Raitre (primi ospiti Matteo Renzi e la giovane economista Irene Tinagli) e nella video intervista a www.unita.it il giornalista dice: “Cercheremo di raccontare con lucidità una situazione drammatica dal punto di vista economico e sociale”. 

Giovanni Floris: LA VIDEOINTERVISTA 

Maurizio Crozza con il suo umorismo corrosivo e irresistibile naturalmente mantiene il privilegio di aprire la trasmissione commentando, come fa lui, fatti, tic e personaggi. Il giornalista garantisce di sapere solo in tarda serata cosa tirerà fuori dal cilindro il comico ligure. E nell'intervista a www.unita.it risponde a quella che è la sensazione diffusa tra i telespettatori italiani che seguono i talk show: vedere sempre gli stessi volti. “E' la classe dirigente italiana, noi facciamo scelte giornalistiche”, commenta Floris che l'anno scorso ha pubblicato un saggio dal titoloDecapitati. Perché abbiamo la classe dirigente che non ci meritiamo. E se si escludono i momenti in cui opinionisti, giornalisti o politici si urlano l'un con l'altro (con il giornalista che cerca di tenerli a bada) e la faccenda indispettisce perché si fatica a capire, Ballarò è un programma serio, preparato con cura, sforna inchieste, approfondisce. È, per farla breve, una bella bandiera per la tv pubblica. 

La trasmissione – come sapete – è un mix di dibattito in studio e inchieste e prende il nome da un mercato popolare di Palermo. Floris firma il programma insieme a Lello Fabiani, Filippo Nanni, Mercedes Vela Cossio e Raffaella Malaguti, che vede come produttore esecutivo Beatrice Serani e alla regia Maurizio Fusco. E arriva all'undicesima stagione che, recita il comunicato stampa, “nella passata stagione ha sfiorato il 17% di share e, secondo il sondaggio Demos, è stato scelto come il talk show più affidabile”. 

Twitter: @stefanomiliani

Ecco dove gli italiani sognano di trovare e comprare casa...




Gli italiani sognano ancora di comprare casa all'estero: secondo i dati di Immobiliare.it (www. immobiliare.it) nel corso del primo semestre 2012 le ricerche di immobili situati in altri Stati sono cresciute del 9% rispetto allo stesso periodo del 2010. 

Un numero significativo, questo, soprattutto in rapporto al periodo di crisi che ha seriamente frenato il mercato immobiliare in Italia. Le ragioni della ricerca all'estero sono essenzialmente tre: in primo luogo, la volontà di mettere a reddito gli appartamenti, affittandoli o puntando a rivenderli dopo una loro rivalutazione (57% dei casi); in secondo luogo, per motivi personali (nel 22% dei casi è un interesse dettato al trasferimento in un'altra nazione); infine, per acquistare una casa per le vacanze (21% dei casi).

Pur considerando le diverse ragioni che spingono a puntare ad un immobile all'estero - ha dichiarato Carlo Giordano, amministratore delegato di Gruppo Immobiliare.it - ad accomunare le ricerche che abbiamo monitorato ci sono alcuni fattori, primo tra tutti un miglior rapporto tra qualità e prezzo dell'acquisto». 

Escludendo gli acquisti fatti per trasloco, notiamo come le destinazioni più in voga rispondano a degli schemi precisi: si punta a mercati emergenti (Brasile o Tailandia, o città come Praga o Budapest) oppure a mercati con economie robuste e valori di mercato indiscutibili (Berlino, Londra, Costa Azzurra). Raccolgono interesse anche quelle destinazioni percepite come «scommesse immobiliari», si pensi a Dubai o Miami, o ancora Paesi dove, a causa di un mercato immobiliare in difficoltà (come la Grecia) non mancano svendite e opportunità d'affari davvero interessanti. 

Fattori secondari, ma non marginali, sono legati all'accessibilità della proprietà (ad esempio, la presenza o meno di voli low cost che permettono di aumentare i viaggi per visionare l'immobile) e alle tasse applicate dai singoli Paesi. Guardando le ricerche compiute dall'Italia verso l'estero nel periodo gennaio-giugno 2012 le aree che hanno raccolto maggiore interesse sono la Costa Azzurra (12%), gli Stati Uniti (9%), le zone turistico-balneari della Spagna (7%) e città come Berlino e Londra (entrambe con il 6% del totale). Rispetto a quelle condotte nel primo semestre del 2010, tuttavia, è il Brasile l'area che cresce di più nell'interesse degli Italiani: +22% in due anni.

lunedì 10 settembre 2012

Chi ha tradito Che Guevara?


Il Partito si rafforza combattendo le deviazioni antileniniste




Vogliamo esaminare pacatamente e serenamente questi "punti di sinistra" che pretendono di dare al nostro partito e alla Internazionale soluzioni italiane "originali" ai problemi di tattica e di organizzazione, degne di poter sostituire il leninismo.
La situazione italiana
Non c'è nei punti un paragrafo dedicato esplicitamente alla situazione italiana; tuttavia un apprezzamento sulla situazione può ricavarsi dal paragrafo dedicato alla quistione delle cellule, e non si può negare che sia un apprezzamento discretamente originale. Si dice: in Italia non c'è la situazione che c'era in Russia negli anni dal 1905 al 1917, cioè in Italia non c'è una situazione rivoluzionaria. In Russia c'era il terrore zarista; in Italia evidentemente non c'è nessuna specie di terrore. In Russia non c'erano grandi organizzazioni di massa (sindacati, ecc.), mentre in Italia, evidentemente, c'è la più grande libertà di organizzazione, le masse possono riunirsi, discutere come vogliono le loro quistioni, preparare le agitazioni. In Russia non erano possibili le... pacifiche conquiste; in Italia, invece, ogni giorno le masse passano di conquista in conquista. 
Compagni operai di Milano, di Torino, di Trieste, di Bari, di Bologna, non vi pare questo un apprezzamento "originale" della situazione italiana? Tanto originale che voi non ci avevate mai pensato; ora vi è caduto un velo dagli occhi e potete giudicare tra il Comitato centrale del partito e il Comitato d'intesa che afferma la possibilità di conquiste pacifiche. Che l'estremismo si costituisca in frazione per le conquiste pacifiche: ecco una originalità veramente inaspettata!
 
Il partito
Secondo la dottrina del leninismo, il Partito comunista è l'avanguardia del proletariato, è, cioè, la parte più avanzata di una classe determinata e solo di questa. Naturalmente nel partito possono entrare anche altri elementi sociali (intellettuali e contadini), ma deve rimanere ben fermo che il Partito comunista è organicamente una parte del proletariato. 
Secondo il Comitato d'intesa, il partito non è una parte di una classe, ma è una "sintesi" di proletari, di contadini, di disertori della classe borghese e anche di altri (c'è un ecc. molto misterioso nei "punti"). Per il Comitato d'intesa il partito è dunque un'organizzazione interclassista, una sintesi di interessi che non possono invece sintetizzarsi in nessun modo; naturalmente questo pasticcio "originale" viene gabellato per marxismo. 
Secondo il marxismo il movimento proletario, che viene creato oggettivamente dallo sviluppo del capitalismo, diventa rivoluzionario, cioè si pone il problema della conquista del potere politico solo quando la classe operaia è divenuta consapevole di essere la sola classe capace di risolvere i problemi che il capitalismo pone nel suo sviluppo, ma non riesce e non può riuscire a risolvere. 
Come la classe operaia acquisti questa consapevolezza? Il marxismo afferma e dimostra contro il sindacalismo che ciò non avviene spontaneamente, ma solo perché i rappresentanti della scienza e della tecnica, essendo in grado di far ciò per la loro posizione specifica di classe (gli intellettuali sono una classe che serve la borghesia, e non sono tutta una cosa con la classe borghese), sulla base della scienza borghese costruiscono la scienza proletaria, dallo studio della tecnica quale si è sviluppata in regime capitalistico arrivano alla conclusione che un ulteriore sviluppo è impossibile se il proletariato non prende il potere, non si costituisce in classe dominante, imprimendo a tutta la società i suoi specifici caratteri di classe. 
Gli intellettuali sono necessari, adunque, per la costruzione del socialismo; sono stati necessari, come rappresentanti della scienza e della tecnica, per dare al proletariato la coscienza della sua missione storica. Ma ciò è stato un fenomeno individuale, non di classe: come classe, solo il proletariato diventa rivoluzionario e socialista prima della conquista del potere e lotta contro il capitalismo. 
Inoltre: una volta la teoria socialista nata e sviluppatasi scientificamente, anche gli operai se l'assimilano e ne traggono nuove conseguenze. Il Partito comunista è appunto quella parte del proletariato che si è assimilato la teoria socialista e continua a diffonderla. Il compito che agli inizi del movimento fu svolto da singoli intellettuali (come Marx ed Engels) ma anche da operai che avevano una capacità scientifica (come l'operaio tedesco Dietzgen), oggi è svolto dai partiti comunisti e dall'Internazionale nel loro complesso. Per il Comitato d'intesa noi dovremmo concepire il partito così come poteva essere concepito agli inizi del movimento: una "sintesi" di elementi individuali e non un movimento di massa. 
Perché ciò? In questa concezione c'è una tinta di forte pessimismo verso la capacità degli operai come tali. Solo gli intellettuali possono essere "veramente" rivoluzionari comunisti, solo gli intellettuali possono essere "uomini politici". Gli operai sono operai e non possono che rimanere tali fino a quando il capitalismo li opprime: sotto l'oppressione capitalistica l'operaio non può svilupparsi completamente, non può uscire dallo spirito angusto di categoria. 
Che cos'è allora il partito? E' solo il ristretto gruppo dei suoi dirigenti (in questo caso è solo il Comitato d'intesa) che "riflettono" e "sintetizzano" gli interessi e le aspirazioni generiche della massa, anche del partito. La dottrina leninista afferma e dimostra che questa concezione è falsa ed è estremamente pericolosa; essa ha, tra l'altro, portato al fenomeno del "mandarinismo" sindacale, cioè alla controrivoluzione. 
Secondo la dottrina leninista, se è vero che la classe operaia nel suo complesso non può divenire compiutamente comunista che dopo la conquista del potere, è vero però che una sua avanguardia può invece, anche prima della rivoluzione, divenire tale. Gli operai entrano nel partito comunista non solamente come operai (metallurgici, falegnami, edili, ecc.), ma entrano come operai comunisti, come uomini politici cioè, come teorici del socialismo, quindi, e non solo come ribelli in generale; e col partito, attraverso le discussioni, attraverso le letture e le scuole di partito, si sviluppano continuamente, diventano dirigenti. Solo nel sindacato l'operaio entra solo nella sua qualità di operaio e non di uomo politico che segue una determinata teoria.
 
Le cellule
Quanto siano importanti queste quistioni e come esse possono avere gravi ripercussioni se malamente risolte (il Comitato d'intesa direbbe "originalmente" risolte), si vede nella quistione delle cellule, che il partito vuole siano alla sua base, in luogo delle vecchie sezioni o delle vecchie assemblee territoriali. 
Il Comitato d'intesa è contro le cellule. Perché? E' chiaro: le cellule di officina sono costituite e devono tendere ad essere costituite solo di operai. Ma l'operaio non può essere rivoluzionario; invece è rivoluzionario nell'assemblea territoriale, evidentemente perché in questa ci sono anche gli avvocati, i professori, ecc. Tutto il paragrafo sui sistemi organizzativi del partito del programma intesista è un cumulo di errori e di affermazioni abbastanza ridicole. 
Quando mai, per esempio, il Labour Party è stato organizzato sulle cellule? Quando mai i sindacati sono stati organizzati sulle cellule? E perché i sindacati devono essere controrivoluzionari? I sindacati di per sé non sono rivoluzionari, ma non sono neanche controrivoluzionari: i dirigenti possono essere rivoluzionari o controrivoluzionari. Il Labour Party non è organizzato per cellule. E' una federazione di sindacati e di partiti politici. 
Se fosse così come dice il Comitato d'intesa, perché dunque il Partito bolscevico russo conservò e ampliò la sua organizzazione per cellule anche dopo la caduta dello zarismo e perché è organizzato per cellule anche oggi, quando la classe operaia è al potere e i sindacati (che sarebbero controrivoluzionari, secondo il Comitato d'intesa) hanno tutta la libertà di organizzazione e di riunione? 
E perché il sistema delle cellule dovrebbe essere federalista, mentre non sarebbe federalista il sistema delle sezioni territoriali? E' ben noto cosa significa federalismo: significa, per esempio, parità di poteri alle organizzazioni di base, qualunque sia il numero degli organizzati di ciascuna: nel movimento sindacale francese si vota per sindacato, non per tesserati, sicché una lega di parrucchieri di una piccola città conta quanto il sindacato dei metallurgici di Saint-Etienne (questo sistema era in vigore nell'Unione sindacale italiana). Federalismo significa che nei congressi si va con un mandato imperativo; è federalista il Comitato delle opposizioni, nel quale il piccolo Partito sardo d'azione ha gli stessi poteri del "grandissimo" Partito massimalista. 
Tutto questo paragrafo sulle cellule è un mucchio di corbellerie senza senso comune e senza fondamenti di prospettiva storica. Nella realtà, la concezione che del Partito comunista ha il Comitato d'intesa è una concezione arretrata, propria del periodo iniziale del capitalismo, mentre la concezione leninista, quale si riflette nel sistema organizzativo delle cellule è la concezione propria della fase imperialista, cioè della fase in cui si organizza la rivoluzione. 
Fino alla Comune di Parigi poteva dirsi che "il partito è l'organo che sintetizza ed unifica le spinte individuali e di gruppi provocate dalla lotta di classe", cioè il partito si limita a registrare i progressi della classe operaia e a fare opera di propaganda ideologica; ma oggi non siamo nel 1848, esiste oggi un profondo e largo movimento rivoluzionario di massa, e il partito guida la massa, dirige la lotta di classe e non si limita a fare il notaio. Tuttavia è abbastanza "originale" che si gabelli per sinistrismo una concezione arretrata e reazionaria.
 
Contro il leninismo. Contro l'Internazionale comunista
Abbiamo dato solo qualche spunto della risposta esauriente che occorrerà dare a questo documento, che è la "carta" fondamentale del Comitato d'intesa e che dovrebbe diventare la "carta" del partito e dell'Internazionale. 
In esso non vi è nulla di nuovo e di originale. Si tratta di un cumulo indigesto di vecchi errori e di vecchie deviazioni dal marxismo, che possono apparire "originalità" solo a chi non conosce la storia del movimento operaio. Ciò che impressiona in questo documento, non è tanto l'errore politico, quanto la decadenza intellettuale di chi l'ha compilato. Occorre esaminarlo e discuterlo solo perché più vivamente risalti, nei suoi confronti, l'energia, il vigore intellettuale, la profonda giustezza storica della dottrina leninista, che non ha permesso al fascismo korniloviano di giungere al potere in Russia, ma invece ha saputo guidare il proletariato alla vittoria rivoluzionaria. 
Si può escludere a priori che tale documento "sintetizzi" una posizione di "sinistra". Sulla sua base si può giungere invece alle più pericolose deviazioni di destra: basta pensare alla concezione veramente reazionaria che in esso si ha del proletariato e della sua capacità politica. Da questo punto di vista si può dire che l'attuale discussione tra il Comitato centrale e gli estremisti abbia un contenuto di classe. Il Comitato centrale rappresenta l'ideologia del proletariato rivoluzionario, che ha coscienza di essere divenuto una classe degna di esercitare il potere: il Comitato d'intesa rappresenta un ultimo conato di sparuti gruppi d'intellettuali rivoluzionari, ancora impregnati di diffidenza piccolo-borghese verso l'operaio, ritenuto inferiore, incapace di emanciparsi da sé, oggetto della rivoluzione, non protagonista della grande opera di emancipazione di tutti gli oppressi dal capitale. Perciò la lotta è già vinta "storicamente" prima ancora di essere combattuta. 



Via Campesina, il Sud America e il fatalismo


domenica 9 settembre 2012

Paolo Borsellino - L'intervista nascosta video completo


Distributismo - filosofia economica


Distributismo, noto anche come distribuzionismo, è una filosofia economica .
Secondo il distributismo, la proprietà dei mezzi di produzione deve essere ripartita nel modo più ampio possibile fra la popolazione generale.
In sostanza, il distributismo si distingue per la sua idea di distribuzione dei beni e dei mezzi di sostentamento, prima fra tutti la proprietà della casa. Il distributismo sostiene che, mentre il socialismo non permette alle persone di possedere proprietà (che sono sotto il controllo dello stato o del comune), e il capitalismo permette a pochi di possedere  il distributismo cerca di consentire che la maggior parte delle persone diventino i proprietari dei mezzi di produzione e della propria casa. 
Questa più ampia distribuzione non si estende a tutti i beni, ma solo a mezzi di produzione e di lavoro, la proprietà che produce ricchezza, cioè, le cose necessarie per l'uomo per sopravvivere. Esso include terra, strumenti, ecc. Ma anche la casa, fondamentale per la vita stessa dell' uomo e della famiglia.[
Il distributismo è stato spesso descritto come una terza via alternativa a socialismo e capitalismo. Tuttavia, alcuni l'hanno visto più come una aspirazione, visto che è stato realizzato con successo solo a breve termine e localmente a favore dei principi di sussidiarietàsolidarietà (questi raggiunti in cooperative locali finanziariamente indipendenti). Essi sostengono che in futuro il lavoro salariato sarà visto così come oggi viene visto lo schiavismo.

Con questo sistema, la maggior parte delle persone sarebbe in grado di guadagnarsi da vivere senza dover contare su l'uso della proprietà altrui. Esempi di persone che si guadagnano da vivere in questo modo sarebbe gli agricoltori che possiedono la loro terra e le relative macchine (oppure in consorzio con altri agricoltori); gli idraulici che possiedono i loro strumenti; gli sviluppatori di software che possiedono il loro computer, ecc. L' approccio "cooperativo" anticipa al di là di questa prospettiva di riconoscere che tali beni e le attrezzature possono essere "co-proprietà" di comunità locali più grandi di una famiglia, ad esempio, partner in un business oppure in un consorzio, pur sempre permanendo in una forma di indipendenza aziendale.


Il tipo di ordine economico previsto dai primi pensatori distributisti comporterebbe il riferirsi a una sorta di sistema corporativo. Difatti l'attuale esistenza di sindacati non costituisce una realizzazione di questo aspetto del distributismo, perché i sindacati sono organizzati allo scopo di promuovere gli interessi di classe, mentre nelle corporazioni "classiche" sono mescolati datori di lavoro e lavoratori dipendenti, teoricamente collaborando per il reciproco vantaggio.
Il distributismo favorisce l'eliminazione dell' attuale sistema bancario, o in ogni caso, la sua rielaborazione. Ciò non ne comporta la nazionalizzazione, ma necessariamente la partecipazione alle necessità del governo, ad esempio tramite accordi fiscali finalizzati all' incentivazione della fiducia delle banche nei confronti dei creditori fruitori del "credito sociale" e dello sviluppo della fiscalità monetaria.

La teoria distributista concorda in parte con la scuola raffiana e geselliana mentre è in totale disaccordo con quella marxista. Secondo la teoria distributista il valore delle merci è si condizionato dalla quantità di moneta circolante, ma influenzato dalla sua distribuzione. Ovvero è consapevole che in un'economia di tipo liberalcapitalista siano le differenze a fare i prezzi e ad adeguare ogni valore alla sua possibilità di accesso a livello piramidale. Ma proprio sulla base di ciò sostiene che se la "piramide" venisse "spianata" varierebbe solo di poco il valore intrinseco iniziale e finale delle merci, in quanto non è il mercato il punto centrale, ma la produzione. Ovverosia il valore delle merci si adeguerebbe alle mutate condizioni della domanda-offerta. Questo non comporterebbe cambiamenti sostanziali nella produzione ed alla fine nemmeno nella distribuzione, ma comporterebbe una razionalizzazione del lavoro e del sistema sociale. In quanto i prodotti creati vanno comunque distribuiti, al prezzo adeguato alle richieste di mercato. Il punto focale quindi secondo i distributisti non è il mercato ed il valore nominale delle merci, bensì la loro produzione. Per questo motivo essi auspicano un sistema sociale che preveda il capovolgimento del concetto di lavoro come "valore mercantile" in quello di "merito". Nella pratica questo significa che nessuno dovrebbe più poter utilizzare un essere umano al pari di una "merce" dotata di relativo prezzo. Ognuno invece dovrebbe essere messo nella possibilità di far valere le sue capacità, nell' interesse personale e quindi solo indirettamente nell' interesse collettivo. Cose che, secondo i distributisti, oggi non è. Secondo essi odiernamente le gerarchie sociali non sono basate sul merito e sulle capacità ma sulla furbizia, sulla prevaricazione, e sui beni ereditati.
Nel capitalismo, un'entità produttiva è di proprietà di una persona o di una società di persone anche estranee alla produzione, mentre la produzione è affidata a lavoratori dipendenti. Nel comunismo, la proprietà è sostituita "dallo stato" e viene gestita tramite burocrati di nomina politica. Il distributismo a differenza della collettivizzazione comunista, non prevede l'attuazione dei propri contenuti dottrinali mediante un esproprio, ma mediante una proibizione legislativa del lavoro salariato e la concessione di un credito. In modo che il padrone sia costretto di propria volontà a svendere ai propri dipendenti quote di partecipazioni, mantenendo per egli stesso una quota uguale a quella degli oramai ex-dipendenti. Per poter permettere ai dipendenti di raggiungere una cifra che accontenti entrambe le parti verrebbe emesso dallo Stato un "credito sociale" che potrà essere restituito nel corso della vita. La gerarchia e la divisione dei guadagnidelle aziende verrebbe decisa elettoralmente da tutti i partecipanti all'azienda, nello stile del corporativismo e in un'ottica di meritocrazia. Il distributismo auspica possibilmente il frazionamento in tante piccole società, eventualmente consorziate in grandi aziende e riunite in corporazioni secondo specializzazione: alla fine del ciclo scolastico, alla persona che entra nel mondo del lavoro viene offerto dalle banche convenzionate allo scopo con lo Stato, un credito sociale col quale la persona potrà avviare oppure rilevare un'attività o una quota in una società da un pensionando. Tale credito potrà essere restituito nel corso della vita venendo in pratica a sostituire il pagamento delle tasse (abolite e sostituite dal sistema "credito sociale-assicurativo"). Alla fine della vita lavorativa questa persona cederà la sua attività o quota a un nuovo entrato nel mondo del lavoro, ricevendo il pagamento, da utilizzarsi come fondo pensione. 

Il distributismo vede la famiglia come la principale unità sociale di ordine umano e la principale unità di un funzionamento distributista. Questa unità è anche la base di una famiglia estesa multi-generazionale, che è incorporato in socialmente e geneticamente intercorrelati tra le comunità, le nazioni, ecc, e, in ultima analisi l'intera stirpe. Il sistema economico di una società dovrebbe pertanto essere concentrato soprattutto sulla fioritura di un nucleo familiare, ma non in isolamento: a livello appropriato del contesto familiare, come è destinato in linea di principio di sussidiarietà. Il distributismo riflette questa dottrina la maggior parte evidentemente di promuovere la famiglia, piuttosto che i singoli, parimenti al proprietario, cioè, il distributismo mira a garantire che la maggior parte delle famiglie, piuttosto che la maggior parte delle persone, saranno i proprietari di immobili produttivi e abitativi. La famiglia è, quindi, di vitale importanza per il nucleo stesso del distributismo.

Il distributismo pone grande enfasi sul principio di sussidiarietà. Questo principio che non vale più per grandi unità (se sociale, economico, o politico) dovrebbe svolgere una funzione che può essere effettuato mediante unità più piccole. Papa Pio XI, scrisse inQuadragesimo anno: "Noto come è sbagliato a ritirarsi dal individualismo e di impegnarsi per la comunità in generale, ciò che le imprese private e l'industria sono in grado di realizzare, così, troppo è un'ingiustizia, un grave male e una perturbazione di ordine giusto che una più grande e più alto livello di organizzazione arroghi a sé funzioni che possono essere eseguiti in modo efficiente anche da organismi di piccole dimensioni reciprocamente." Quindi, qualsiasi attività di produzione (che secondo il distributismo svolge ad essere la parte più importante di qualsiasi economia) dovrebbe essere svolta dalla più piccola unità possibile. Questo aiuta a provare il fatto che secondo cui unità più piccole, delle famiglie, se possibile, dovrebbe essere il controllo dei mezzi di produzione, piuttosto che le grandi unità tipica delle economie moderne. Ovverosia in una grande fabbrica i vari reparti dovrebbero si lavorare in consorzio, ma essere ognuno una piccola azienda a se stante. In questo modo si responsabilizza maggiormente i suoi possessori-lavoratori.
Papa Pio XI ha inoltre affermato, ancora una volta nel Quadragesimo anno, "ogni attività sociale dovrebbe della sua stessa natura a fornire aiuto ai membri del corpo sociale, e non distruggere e assorbirlo". Per evitare grandi organizzazioni private dominanti il corpo politico, il distributismo applica questo principio di sussidiarietà economico e sociale e di azione politica tramite una regolamentazione fiscale tesa a favorire le aziende con numero basso di persone.

Il distributismo promuove una società di artigiani e della cultura. Questo è influenzato da un accento sulle piccole imprese, la promozione della cultura locale, e favorendo la nascita di piccole imprese anche nella produzione di massa. Una società di artigiani promuove nell'ideale di distributismo l'unificazione del capitale, della proprietà, e la produzione piuttosto che ciò che il distributismo vede come un'alienazione dell' uomo causata dal lavoro.

Il distributismo è contrario agli enti di sicurezza sociale, sulla base del fatto che essi alienano ulteriormente l'uomo, facendo di lui una dipendenza rispetto allo Stato. Il distributismo come Dorothy Day non crede nel sistema statale di sicurezza sociale fin da quando è stato introdotto dal governo degli Stati Uniti. Questo rifiuto di questo nuovo programma è stato a causa della diretta influenza delle idee di Hilaire Belloc sul distributismo americano. Questo in quanto in un sistema sociale distributista le differenze economiche tra persone sarebbero notevolmente appianate rispetto ad oggi, e quindi ad ognuno sarebbe semplice l' accesso a proprie spese ai sistemi privati di sicurezza sociale e sanitaria tramite assicurazioni private per le spese maggiori, e di tasca propria per le minori, e tramite il risparmio per il fondo pensionistico (il quale sarebbe rimpinguato dalla refusione del credito sociale al pari di una liquidazione).

Teoria geopolitica [modifica]


Il distributismo teoricamente non favorisce un sistema politico su un altro, può andare da democrazia a monarchia. Tuttavia come è comprensibile, i poteri forti che caratterizzano i sistemi politici ottocenteschi sono avversi al distributismo, e quindi è assai difficile immaginare applicato il distributismo in un sistema democratico, oppure liberale, oppure monarchico. Il distributismo però non supporta gli ordini politici caratterizzati da individualismo o statalismo quali il capitalismo e il comunismo. Il distributismo non supporta nemmeno l'anarchismo, ma alcuni distributisti, ad esempio Dorothy Day, sono stati anche anarchici. In quanto secondo essi l' anarchia è la base ideale del liberalcapitalismo inteso come consuetudine antropologica.

Il distributismo non prevede la regolamentazione della vita politica tramite partiti politici, ma solo tramite le Corporazioni nell' elezione piramidale di uomini capaci conosciuti di persona via via ai livelli maggiori, determinando che ad ogni elezione i votanti siano fino ad un certo numero e non oltre. Ossia i lavoratori votano il loro rappresentante; esso vota assieme ai rappresentanti delle altre aziende della sua corporazione della sua città per il rappresentante cittadino; esso vota assieme ai rappresentanti delle altre città della sua corporazione per il rappresentante provinciale; esso vota assieme ai rappresentanti delle altre provincie della sua corporazione per il rappresentante regionale; esso vota assieme ai rappresentanti delle altre regioni della sua corporazione per il rappresentante statale (deputato, presidente, ministro, ecc); anche ruoli intermedi (questore, prefetto, regioni, province, ministeri, ecc) vengono aboliti e sostituiti dalle corporazioni.

Il distributismo è solito utilizzare la pragmatica per determinare se una guerra deve essere combattuta o meno. Ogni opinione è personale. Sia Chesterton che Belloc si opposero all'imperialismo britannico, in generale, così come specificamente contro le Guerre Boere, ma sostennero il coinvolgimento britannico nellaI Guerra Mondiale. Nella seconda guerra mondiale, invece, i distributisti furono tendenzialmente neutrali oppure favorevoli all'Asse non potendo idealisticamente schierarsi con il capitalismo e il comunismo degliAlleati.