sabato 20 ottobre 2012

D’Alema story



Il lìder Maximo ha annunciato che non si ricandiderà (se Bersani vince le primarie), ma allo stesso tempo ha rivendicato la sua storia politica e personale. Che di sinistra, per la verità, ha ben poco.

di Massimiliano Boschi 


D'Alema non si candiderà alle prossime elezioni, ma chiede rispetto: "se si deve dire a una persona 'guarda bisogna avvicendarsi', lo si fa con garbo" ha dichiarato ieri dagli schermi di La7. A dire il vero da Nanni Moretti (Piazza Navona 2002), in poi non sono mancate le richieste e dopo 10 anni magari qualcuno si è spazientito. Comunque gli elettori Pd stiano tranquilli, D'Alema ha già chiarito che per lui è già pronto un ruolo "extraparlamentare". Insomma, se Bersani vince sia primarie che elezioni, D'Alema torna a fare il ministro. D'altra parte come si fa a lasciare disoccupato un leader con il suo curriculum. 

Ne ha fatta di strada da quando nel settembre 1988 (24 anni fa), mentre dirigeva "L'Unità" invitava i militanti alla “dura opposizione contro il sistema", quando descriveva un'Italia "assai meno libera che dieci anni fa", un'Italia a "rischio di regime". (“Corriere della sera “2/9/1988). 
Come si può fare a meno di un uomo che, pur dopo aver perso la consultazione tra i militanti del Pds, contro Walter Veltroni (1994), venne comunque eletto segretario del partito? 

Come dimenticare che Massimo D'Alema è stato il primo (e unico...) presidente del Consiglio proveniente dal Pci, eletto senza investitura popolare ma con l'aiuto di Francesco Cossiga. 
D'Alema, infatti, è stato presidente del Consiglio quasi di due anni, nonostante il bis (primo mandato fino al 22/12/1999, secondo fino al 25 aprile 2000). Fu costretto a dimettersi perché certo del successo alle elezioni regionali dichiarò che in caso di sconfitta avrebbe lasciato la poltrona. Una notizia che, evidentemente, ribaltò i sondaggi.

Dei suoi due governi si ricorda che "accentuando i doveri del ruolo, ha messo a disposizione della Nato le basi per la guerra del Kosovo, mentre gli Stati Uniti e l' Inghilterra non l'avevano neanche informato che stavano per bombardare l' Iraq". (Enzo Biagi sul "Corriere della Sera del 4/2/1999, dove D'Alema è definito "Indeciso a tutto"). Ma va menzionata anche la gestione del Caso Ocalan: "Non so dove sia ora Ocalan, ne' mi interessa. Mi occupo della sicurezza dell'Italia". (19 gennaio 1999). Un mese dopo verranno mostrate a tutto il mondo le immagini di Ocalan nelle carceri turche, incappucciato, maltrattato e con evidenti segni di percosse. E, per finire, fu grazie al suo governo che vennero approvate le prime leggi sui contratti di lavoro "atipici". 

Negli anni successivi D'Alema è stato soprattutto attento a stare lontano dalle manifestazioni popolari della sinistra, per esempio nel settembre 2002: quando disertò la manifestazione dei Girotondi a Piazza San Giovanni a Roma, per recarsi a Reggio Emilia alla Festa dell’Unità. (L'annuncio della "diserzione" venne fatto ad un’altra festa di partito, quella dell’Udeur). 
Al leader Pci, pds, ds, pd, sono sembrati più congeniali altri contesti, tra cui i salotti (uso cucina) di Bruno Vespa, piazze più "ordinate", come quella di San Pietro in occasione della canonizzazione di Escrivà de Balaguer, fondatore dell’Opus Dei, e le presentazioni dei libri di Cicchitto.
Infine, non vanno dimenticati i successi relativi alla "Commissione Bicamerale per le riforme" e la sua lungimiranza rispetto alla scelta dei suoi uomini. 

Da Francesco Boccia, che sconfitto a sorpresa nelle primarie del 2005 da Nichi Vendola, tornò a presentarsi cinque anni dopo rimediando una scoppola devastante, a Filippo Penati, sostenuto pubblicamente e più di una volta da D'Alema, fino a che non sono intervenute le recenti inchieste giudiziarie. 

Ma D'Alema non è solo lungimirante ed intelligente, gode anche di relazioni importanti, come quella con l'ambasciatore statunitense a cui, dopo 14 anni di berlusconismo rivelò che: "la magistratura è la più grande minaccia per lo Stato" (cablogramma “wikileaks” 160750 inviato il 3/7/2008). Ad un simile statista vorreste garbatamente chiedere di farsi da parte?


di Massimiliano Boschi

mercoledì 17 ottobre 2012

Povertà, Caritas: “Aiuti per la sopravvivenza a + 44,5%. Welfare incapace”



La povertà aumenta e coinvolge sempre più persone. Negli ultimi tre anni, dall’esplosione della crisi economica, c’è stata un’impennata degli italiani che si sono rivolti ai centri Caritas e che ormai sono il 33,3% del totale. La fotografia di un’Italia che fatica ad andare avanti e soffre è nel Rapporto povertà2012 curato dalla Caritas, nel quale si specifica che gli aumenti più consistenti riguardano le casalinghe(+177,8%), gli anziani (+51,3%) e i pensionati(+65,6%). Le richieste di aiuto sono per lo più legati a povertà economica, lavoro e casa. C’è una vera esplosione di richieste di aiuto delle fasce più deboli della popolazione e sotto accusa finisce il sistema di welfare, in quanto si legge “c’è una ‘‘evidente incapacità” dell’attuale sistema di farsi carico delle nuove forme di povertà, delle nuove emergenze sociali derivanti dalla crisi economico-finanziaria”.
Più italiani che stranieri. Il rapporto segnala come gli interventi per fornire beni materiali per la sopravvivenza sono aumentati, nei primi sei mesi del 2012, del 44,5% rispetto al 2011. Secondo il rapporto, la richiesta di aiuti economici ai centri diocesani (dati 2011) è molto più diffusa tra gliitaliani (20,4%) rispetto a quanto accade fra gli stranieri (7,4%). Questi ultimi, invece, chiedono più lavoro (17% contro 8,9% italiani) e soprattutto più orientamento (13,4% contro il 3,6%). Secondo i curatori del rapporto, la richiesta di sussidi economici è più alta fra gli italiani a causa dell’età media più anziana rispetto agli immigrati e alla conseguente maggiore diffusione di disabilità o altre patologie tra i nostri connazionali. Quanto agli aiuti erogati dai Centri, si confermano al primo posto beni e servizi materiali, sia nei confronti degli italiani che degli stranieri, mentre i sussidi economiciforniti ancora una volta riguardano molto più gli italiani (23,8%) che gli immigrati (6,9%). Un dato che si spiegherebbe con il peggioramento delle condizioni economiche dei nostri connazionali. 
Perdita di lavoro. Chi si rivolge ai centri Caritas non è necessariamente un emarginato o un senzatetto. Da due anni e mezzo infatti diminuiscono in modo vistoso coloro che si dichiarano a reddito zero e vivono sulla strada. A chiedere aiuto sono più le donne (53,4%), i coniugati (49,9%), le persone con un domicilio (83,2%). Calano i disoccupati (-16,2%), gli analfabeti (-58,2%) e le persone senza dimora o con gravi problemi abitativi (-10,7% nei primi sei mesi del 2012 rispetto al 2011), a conferma di una progressiva normalizzazione sociale dell’utenza Caritas che sempre meno coincide con la grave marginalità sociale. Diversi i limiti evidenziati: la dispersione delle misure economiche su un gran numero di provvedimenti nazionali, regionali, locali, gestiti da enti e organismi di diversa natura, senza un coordinamento complessivo; l’estremo ritardo con cui vengono attivate le misure di sostegno economico, soprattutto quelle legate alla perdita del lavoro e alla perdita di autonomia psico-fisica. Ai quali si aggiunge l’estrema varietà nella definizione del livello di reddito della famiglia, necessario per poter usufruire di determinate prestazioni e il forte carattere categoriale di gran parte delle misure di sostegno economico o di agevolazione tariffaria degli enti locali: “Le soglie e i criteri di accesso alle varie opportunità assistenziali sono estremamente diversificate, creando dei vicoli ciechi spesso difficili da prevedere all’avvio dell’iter di richiesta della misura”.
Negazione dei diritti. Infine, il progressivo restringimento delle disponibilità finanziarie nel settore socio-assistenziale sta determinando la chiusura o la negazione repentina dei diritti ad una serie di fasce sociali che, fino a poco tempo fa, beneficiavano dell’intervento. L’effetto complessivo, sottolinea il rapporto, è quello di “un vero e proprio percorso a ostacoli, dotato di irrazionale logica, in cui la presenza di barriere e veti incrociati rende quasi impossibile l’esigibilità dei diritti e la fruizione tempestiva del servizio, anche in presenza di oggettive situazioni di bisogno”.  A livello complessivo, come negli anni si conferma scorsi la presenza di una quota maggioritaria di stranieri rispetto agli italiani (70,7% contro 28,9% nel 2011), ma questi ultimi sono aumentati in misura esponenziale negli ultimi due anni (nel 2009 erano il 23,1%) e del 15,2% tra il 2011 e i primi sei mesi del 2012, quando hanno raggiunto il 33,3%. La maggiore incidenza degli immigrati raggiunge valori massimi nel Centro e Nord Italia, mentre, a causa di un elevato numero di poveri italiani, appare più bassa nel Mezzogiorno. 
Sei milioni di pasti.  Secondo il rapporto sono oltre 6 milioni i pasti erogati in un anno, pari a una media di 16.514 al giorno, nelle 449 mense sparse su tutto il territorio nazionale. Numeri che danno un’idea del fenomeno delle persone, in Italia, che non riescono a soddisfare in modo autonomo unbisogno fondamentale come è quello alimentare. Tante le cifre sui servizi offerti dalla Caritas: 27.630 i volontari e 2.832 i Centri di ascolto che si fanno carico di un vasto bisogno sociale di persone e famiglie, italiane e straniere. Quasi 5 mila i servizi socio-assistenziali e le attività di contrasto alla povertà realizzate dalla Chiesa in Italia e più di 3.500 i centri di distribuzione di beni primari (cibo, vestiario, etc.) nelle diocesi. Ed è interessante anche notare come le Caritas diocesane abbiano istruito 3.897 pratiche per il “Prestito della speranza“, un’iniziativa anticrisi promossa da Caritas e Abi (associazione delle banche). Oltre 26 milioni di euro la cifra complessiva richiesta. Ma le diocesi italiane hanno promosso anche altri 985 progetti anti-crisi, di cui 137 nell’ambito del microcredito per le famiglie e 61 in quello per le imprese.

Allarme rosso



di  Sergio Cararo





La Banca Centrale Europea preme sui governi affinchè adottino nuove misure strutturali che favoriscano maggiore "flessibilità salariale".

Allarme! Un nuovo diktat è nell’aria. Un rapporto della Bce ritiene che l'adeguamento salariale nei paesi dell'Eurozona è stato relativamente limitato nonostante la gravità della recessione e l’aumento della disoccupazione. Tradotto in soldoni: i salari sono troppo alti e vanno abbassati. 
In un tale contesto secondo la Bce "una risposta flessibile delle retribuzioni dovrebbe essere un'importante priorità". I tecnocrati di Francoforte argomentano il loro nuovo diktat ai governi con motivazioni che mettono i brividi. 
Secondo l’analisi della Bce durante la crisi i salari reali sono aumentati nell'area euro, presumibilmente come riflesso di uno spostamento dell'occupazione verso lavori a salario più alto, i quali sarebbero maggiormente tutelati. In un altro riquadro viene messo a confronto l'andamento della disoccupazione nell’Eurozona con quello negli Usa: complessivamente l'aumento dei senza lavoro nei paesi europei è stato più contenuto: 4 punti percentuali contro i 4,8 punti degli Usa. Ma all’inizio del 2010 in entrambe le aree veniva registrato un tasso di disoccupazione attorno al 10 per cento, da allora gli andamenti si sono discostati: calo negli Usa mentre nell'area euro hanno continuato a salire. E così oggi nell'Eurozona i disoccupati superano l'11% mentre negli Stati Uniti sono attorno all'8%. Anche perché la stessa Bce rileva che l'area dell'euro ha perso 4 milioni di occupati tra 2008 e fine 2011, non solo ma "l'occupazione è diminuita ulteriormente nella prima metà del 2012 - si legge poi nel capitolo sulla situazione nel mercato del lavoro - mentre la disoccupazione ha continuato ad aumentare". 

Questa valutazione preliminare serve alla Bce per giungere alle considerazioni sui salari e sulle "rigidità" nel mercato del lavoro dell’Eurozona. Tenuto conto dell`intensità della crisi, “la risposta dei salari nell’area dell`euro sembra essere stata piuttosto contenuta - si legge - per effetto della generale rigidità salariale”. In questo quadro secondo la Bce serve più flessibilità sui salari anche per agevolare la necessaria riallocazione settoriale che prelude alla creazione di posti di lavoro e alla riduzione della disoccupazione. E chiaramente questo richiede ulteriori e significative “riforme del mercato del lavoro nei paesi dell`area”, riforme che i tecnocrati di Francoforte ritengono “un elemento fondamentale per una solida ripresa economica nelle economie”, che dovrebbe altresì facilitare ulteriori effetti di propagazione positivi relativi alla correzione e prevenzione degli squilibri macroeconomici, il riequilibrio dei conti e la stabilità finanziaria. La Bce poi cita come esempi positivi (sic!) i paesi europei in cui le “riforme” sono state già fatte, e tra questi figurano anche Italia e Spagna che "recentemente hanno adottato riforme del mercato del lavoro al fine di accrescere la flessibilità e l`occupazione". Ma i risultati ci dicono esattamente il contrario in entrambi i paesi.

martedì 16 ottobre 2012

Benvenuti nel capitalismo reale

di Marco D'Eramo, il manifesto, 11 ottobre 2012 

Mannaggia alla bomba atomica! Senza questo piccolo particolare, la recessione mondiale sarebbe già alle nostre spalle. Infatti le altre crisi gravi sono state sanate solo quando è scoppiata una bella guerra: l'esempio più indiscutibile è la Grande Depressione degli anni '30 superata solo grazie alla Seconda guerra mondiale.

La ragione è semplice: di solito della guerra percepiamo solo la messe umana che miete, ma dal punto di vista economico i milioni di morti sono marginali; quel che conta è che la guerra distrugge un'immane quantità di edifici, prodotti, macchinari, in definitiva di capitale; e quindi crea la necessità di una nuova accumulazione, grazie alla ricostruzione materiale. Tanto che, dopo la guerra, a vivere i miracoli economici più rigogliosi di solito sono proprio i paesi più rasi al suolo, perché i nuovi impianti sono più moderni mentre gli stati più risparmiati si tengono anche le fabbriche più desuete e vengono scavalcati. Joseph Schumpeter aveva in mente proprio la guerra quando parlava della «distruzione creatrice» come caratteristica essenziale del capitalismo.

Però non tutte le guerre vanno bene. Quella in Iraq è sì costata agli Usa migliaia di miliardi di dollari, ma senza apportare alcun beneficio all'economia statunitense, proprio perché non ha richiesto un massiccio aumento della produzione, non ha mobilitato la popolazione, non ha messo in campo quel connubio di spesa illimitata (per armi e materiale bellico) da un lato e razionamento (dei consumi privati) dall'altro che costituisce tutto l'appeal dell'economia di guerra. La guerra consente infatti ai governi di mandare a quel paese i diktat dei "mercati", rende non solo lecito, ma necessario spendere ed espandere il debito pubblico in nome di una causa superiore. Nessuno criticherà un governo se sfora per difendere la patria. Le guerre locali a questo scopo non servono, ci vogliono vere e proprie guerre mondiali. E' col capitalismo che nasce la nozione di "guerra mondiale": la prima fu quella dei Sette anni (1756-1763) che decise il destino coloniale di interi continenti, dal Canada all'India; mondiali furono le guerre napoleoniche (anche Bonaparte, come Rommel, pensò di andare a fiaccare la potenza inglese in Egitto, e come Von Paulus finì impantanato in Russia); mondiali furono le due grandi guerre del secolo scorso.

Sono proprio queste guerre mondiali - conflitti totali tra grandi potenze - che l'arma atomica ha reso impossibili. Il capitalismo si trova così prigioniero dell'impossibilità di ricorrere alla soluzione bellica. Una prigionia tanto più asfissiante quanto più è totalitaria la dittatura dei mercati e quanto più risulta incrollabile la fede superstiziosa negli effetti salvifici dell'austerità. Durante la guerra fredda i propagandisti occidentali coniarono un'immagine assai efficace per descrivere la dittatura materiale e ideologica cui erano sottoposti i paesi del Patto di Varsavia: "socialismo reale" fu chiamata. Termine di straordinaria comunicativa perché diceva tutto senza dire: di fronte alle promesse di un "radioso sol dell'avvenire", nella sua realtà attuale e quotidiana il socialismo era solo sorveglianza del Kgb o della Stasi, penuria materiale, censura, file davanti ai negozi di generi di prima necessità, oppressione totale (o totalitaria) sotto un tallone nello stesso tempo poliziesco e ideologico (un pensiero unico sovietico diremmo oggi). Quel che caratterizzava il socialismo reale era che non potevi sfuggire, non potevi andartene, non potevi né cambiarlo, né ricusarlo. Ci pensavano i carri armati dei "paesi fratelli" a ricordarlo.

Una volta spazzato via il socialismo reale e delegittimato il socialismo immaginato, l'ironia della storia vuole che oggi ci accorgiamo di vivere nel "capitalismo reale". Anche noi siamo topi in gabbia che non possiamo sfuggire né allo spread né agli interessi del debito; anche per noi non c'è rifugio per quanto lontano dove non ci raggiungano gli esattori del nostro debito: ci rincorrerebbero anche su Marte. Anche noi dobbiamo vivere nella penuria: i greci anziani devono privarsi della sanità e gli spagnoli giovani del lavoro, per ottemperare agli ordini dei nostri "banchieri fratelli", cui per imporre i diktat non servono più carri armati, ma ispettori finanziari. Anche noi siamo strangolati dall'ideologia.

Ed è straordinario come tutti facciano finta di credere all'idea che l'austerità serva a qualcosa mentre invece è solo la corda a cui impiccarci. Perché, se superstizione è una fede immotivata, anzi contraddetta nell'esperienza, allora la fiducia nel potere terapeutico dell'austerity (come è più bello dirlo in inglese!) è una superstizione che non ha niente a invidiare a San Gennaro. Le ricette prescritte oggi da Bruxelles e da Francoforte ai paesi "sviluppati" del sud Europa sono identiche a quelle che per decenni il Fondo monetario internazionale (Fmi) e la Banca mondiale hanno imposto agli stati del Terzo mondo: decenni di austere terapie monetariste non hanno mai fatto prosperare nessun paese, ma tutti li hanno lasciati stremati, impoveriti, socialmente più feroci.

D'altra parte anche un bambino capirebbe che uno stato NON è una famiglia: una famiglia in difficoltà stringe la cinta e forse ne esce; ma se in uno stato tutti stringono la cinta, nessuno consuma più, le industrie non hanno più clienti, la produzione e le vendite crollano, le tasse che lo stato percepisce precipitano, tanto che in questi anni di lacrime e sangue il debito greco è aumentato, non diminuito, e anche quello italiano si è avviato sulla stessa china.

Nell'ultimo numero di Harper's Magazine, in un articolo intitolato The Austerity Myth, Jeff Madrick scrive che l'ideologia dell'austerità «va considerata una superstizione tanto quanto una teoria economica... Dall'Odissea al Vecchio Testamento, l'abnegazione è stata la reazione tradizionale a circostanze difficili. Sacrificio è la parola d'ordine che mobilita in guerra, come digiunare è la pratica centrale in molte religioni. L'auto-sacrificio è anche, triste a dirsi, profondamente attraente come risposta ai problemi economici. Suona giusto - una forma di penitenza e di machismo... Il problema è che anche se l'austerità può funzionare per gli individui raramente funziona per le economie».

I riti dell'austerità inflittici dalla Germania e dalle Borse diventano allora l'equivalente mercantile delle processioni autoflagellanti del Medioevo, delle penitenze cui si sottoponevano i pietisti per salvarsi l'anima. Con la differenza che magari i flagellanti il paradiso lo trovarono (il contrario non è dimostrabile), mentre noi la ripresa economica ce la possiamo sognare. Da ex consulente di Goldman Sachs (la più potente banca mondiale) è normale che Monti sia un piazzista di questa superstizione. Più problematico è che la stessa fede cieca animi molti esponenti del Partito democratico. Forse il dirigente che più somiglia al moschettiere Aramis (non solo per i baffetti) è stato per una volta nel giusto quando ha detto che costoro «si faranno male». Il guaio è che lo fanno anche a noi.

domenica 14 ottobre 2012

Romanzo Quirinale, the end di Marco Travaglio


Finalmente, dopo tre mesi di sanguinose accuse fondate sul nulla, anzi sul falso, la Procura di Palermo può difendersi alla Corte costituzionaledal conflitto di attribuzioni scatenato dal presidente Napolitano.
La questione, come i nostri lettori ben sanno, nasce dalle telefonate (quattro, si apprende ora) fra il capo dello Stato e Nicola Mancino, indirettamente e casualmente intercettate sui telefoni di quest’ultimo, coinvolto nelle indagini sulla trattativa Stato-mafia. Secondo il Quirinale, incredibilmente spalleggiato dall’Avvocatura dello Stato, la Procura avrebbe dovuto procedere all’“immediata distruzione delle intercettazioni casuali del Presidente” perché The Voice è inintercettabile e financo inascoltabile. La Procura non le ha fatte trascrivere né utilizzate, giudicandole penalmente irrilevanti, e si è riservata di chiederne la distruzione al gip secondo la legge: cioè in udienza alla presenza degli avvocati dei 12 imputati che possono ascoltarle ed eventualmente chiedere di usarle per esercitare i diritti di difesa. La cosa ha fatto saltare la mosca al naso a Napolitano e ai suoi cattivi consiglieri, terrorizzati dal rischio che un avvocato, dopo averle ascoltate, ne divulgasse il contenuto. Che, per motivi misteriosi (almeno per noi cittadini), deve restare un segreto di Stato. Di qui il conflitto con cui Napolitano, tramite l’Avvocatura, chiede alla Consulta di censurare i pm di Palermo per un delitto da colpo di Stato: “lesione” e “menomazione delle prerogative costituzionali del Presidente della Repubblica” perpetrata sia con “la valutazione sulla rilevanza delle intercettazioni ai fini della loro eventuale utilizzazione”, sia con “la permanenza delle intercettazioni agli atti del procedimento”, sia con “l’intento di attivare una procedura camerale” regolata dal contraddittorio tra le parti.
A lume di Codice, ma soprattutto di logica e di buonsenso, abbiamo più volte scritto che la pretesa del Colle è insensata. Ora l’insensatezza è autorevolmente confermata dalla memoria della Procura, firmata dall’ex presidente dell’Associazione dei costituzionalisti italiani Alessandro Pace e dagli avvocati Serges e Serio. I quali, prim’ancora di avventurarsi nell’interpretazione delle presunteprerogative del Presidente, dimostrano come il Quirinale e l’Avvocatura abbiano sbagliato indirizzo: ammesso e non concesso che le telefonate andassero distrutte subito, non poteva farlo la Procura, visto che quel potere è affidato in esclusiva al giudice. Cioè: eventualmente il conflitto andava sollevato contro il gip. Non solo: se, come ammette la stessa Avvocatura per conto del Colle, le intercettazioni furono “casuali” quindi involontarie, come si può sostenere che erano “vietate”? S’è mai vista una norma che vieta qualcosa di involontario e casuale? Per questi due motivi preliminari il conflitto è “inammissibile”, con buona pace della Consulta che s’è affrettata a dichiararlo ammissibile.
Poi è anche infondato, per diversi motivi di merito. Intanto i pm dovevano valutare quel che dicevaMancino, a meno di regalargli un’”immunità contagiosa” derivante dal fatto che parlava con Napolitano. E poi nessuna norma costituzionale né procedurale ha mai stabilito la non intercettabilità indiretta (e nemmeno, in via assoluta, quella diretta) del capo dello Stato. Che non è un monarca assoluto, infatti è immune solo nell’esercizio delle sue funzioni. Dunque la prerogativa invocata dal Colle non esiste. Ergo i pm non hanno leso alcunché. Anzi avrebbero violato il principio costituzionale del contraddittorio e i diritti delle difese se avessero obbedito al Colle. A questo siamo: a un presidente della Repubblica (e del Csm) che istiga la magistratura a violare la legge e la Costituzione. A sua insaputa, si capisce.