mercoledì 29 agosto 2012

Contro i luoghi comuni dei media meglio rileggersi Umberto Eco



umberto eco mezzobusto 640


















Provate ad immaginare degli scritti che raccontano e demistificano i meccanismi del potere e dei poteri degli anni ‘60, e che invece sono di straordinaria attualità. Non pensate a narrazioni letterarie, ad invenzioni fantastiche, si tratta di una serie di scritti di Umberto Eco: interventi sui media, riflessioni culturali acute, non specificatamente accademiche. Le potremmo definire esemplificative, legate a quella dimensione che il famoso semiologo-filosofo e scrittore, chiosa come «i vari modi dell'impegno pubblico concreto».

Ma son testi che si intersecano con l’attività teorica dell’autore, con i suoi studi sui problemi della comunicazione. Interventi su vari argomenti: dalle analisi dei discorsi dei politici alle tecniche comunicative dei telegiornali, dai meccanismi del linguaggio pubblicitario a quelli della stampa devozionale, alla critica delle debolezze, delle contraddizioni, dei profondi limiti della cultura di destra in Italia. Nella seconda parte del libro, Il costume di casa. Evidenze e misteri dell'ideologia italiana negli anni Sessanta, ripubblicato da Bompiani nelle edizioni tascabili (pagine 496, euro 10,90), vi sono riflessioni teoriche e teoretiche sulla genesi del Gruppo 63 e la fine di «Quindici».

È una opera critica, razionale e lucida, volta a demistificare falsi miti e verità distorte. Una sua analisi critica dei «Mostri in prima pagina» è di una cogente attualità e palesa gli errori e le superficialità di alcuni media, che diventano vere e proprie prevaricazioni giornalistiche. Spesso emerge una notizia che «violentemente» oscura tutte le altre. Bisognerebbe chiedersi «a chi giova»? Eco smonta luoghi comuni e stereotipi con interpretazioni chiare ed efficaci, che andrebbero studiate anche nelle scuole di giornalismo: «Al di sotto di tutto questo rimane comunque il sospetto che l’ideologia della notizia a tutti i costi (che non ha a che fare con l’ideale della verità a tutti i costi) domini minacciosamente l’etica del giornalista: così che al di là delle intenzioni di dolo e da ogni presunzione di corruzione, il giornalista onesto dovrebbe chiedersi sempre se egli non stia falsificando i fatti per il solo fatto di enfatizzarli». Un buon giornalista dovrebbe tentare di evitare le manipolazioni, di capirle, di smontarle. E non credersi il depositario della verità assoluta. Lo scritto risale al 1972, sembra elaborato in questi mesi, od in queste settimane.

Ma ve ne è un altro, "L’illusione della verità" (del 1969), ancora più sottile, dove Eco decostruisce «il mito ideologico dell’obiettività». Il giornalista può raggiungere un certo grado di obiettività, ma non può avere la pretesa della verità assoluta. «Deve testimoniare su ciò che sa... e deve testimoniare dicendo come la pensa lui». In questo è fondamentale l’onestà, che però è una importante scelta morale, non una verità metafisica. Il giornalista deve raccontare, testimoniare sui fatti, esprimere la propria opinione, senza la presunzione della verità assoluta. Il mito dell’obiettività assoluta è per Eco «una manifestazione di falsa coscienza, è una ideologia». Ma va aggiunto che la dimensione autentica delle battaglie civili, politiche, culturali, democratiche, ha bisogno di una passione vitale e di valori etici, che vanno esposti con equilibro, con onestà intellettuale. Ma credendoci. Se è vero che occorre smitizzare, non è vero che sia bello e utile vivere senza verità. Seppur umane, molto umane, le verità sono utili per orientarsi nel mondo, e non chiudersi in un luogo senza luce e senza vie d'uscite. Anche il non crederci a priori, può diventare una vuota retorica.

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