domenica 2 settembre 2012

Eppure li paghiamo noi

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Forse davvero alla Convention repubblicana Clint Eastwood ha parlato da “vecchio pazzo” (Michael Moore), ma una cosa vera l’ha detta: “Noi siamo i proprietari di questo Paese e i politici sono i nostri dipendenti”.
Un concetto elementare per qualsiasi democrazia rispettosa dei propri cittadini. Non certo per i poveri sudditi italiani, costretti a foraggiare una classe dirigente che non dirige più niente se non la bancarotta a cui ha ridotto lo Stato. Basta osservarli, politici falliti e tecnici impantanati, mentre con le faccette abbronzate e i vezzosi pulloverini transumano da una festa di partito all’altra, blindati da plotoni di agenti sottratti alla pubblica sicurezza.
Basta ascoltarli mentre, impalcati e microfonati, dispensano perle di buon governo. Si limitassero all’inettitudine, pace. No, annunciano al vento fantasmagorici patti per la crescita o immaginarie leggianticorruzione, quando sanno benissimo che a crescere rigogliosamente sono soltanto la disoccupazione, i precari (3 milioni), i giovani a caccia del primo impiego (618mila), i furti e gli sprechi, le mazzette pagate per avvelenare impunemente gli abitanti di Taranto e non solo loro.
Invece di nascondersi per la vergogna, si muovono compatti come falange (non ingannino le finte dispute da pollaio), convinti di potersi permettere di tutto, visto che giornali e giornalisti cresciuti alla scuola del servo encomio tengono loro bordone, alcuni per chiara vocazione, altri per non farsi chiudere i rubinetti delle provvidenze. Esemplare il caso delle telefonate tra il Capo dello Stato e un ex alto dignitario coinvolto nell’indagine sulla trattativa Stato-mafia e provvisto di robusta coda di paglia.
Appena si fa l’ipotesi che quelle conversazioni possano essere rese pubbliche per dovere di trasparenza, è subito tutto un arrampicarsi trafelato sul Colle di premier, ministri e segretari di partito, tutto uno stracciar di vesti, un gridare al complotto ordito certamente da menti raffinatissime determinate a impedire il cambiamento. In realtà, tutto quel solidarizzare e stringersi a coorte mira a conservare l’esistente, con annesse poltrone e pennacchi. Esistente che in Italia, caro ispettore Callaghan, significa che i proprietari del Paese sono i politici e noi i loro dipendenti (che a volte, per farsi ascoltare da una miniera, si legano a una carica di tritolo).


Come favorire la ‘crescita’: i suggerimenti di alcuni economisti italiani


Si parla tanto di ‘crescita’. Si ripete questa parola come un ‘mantra’ . Nei fatti cosa si puo fare per uscire dalla palude della recessione? La Stampa ha rivolto qualche domanda ad alcuni importanti economisti italiani:
Alcuni temono che la correzione virtuosa che Monti sta cercando di portare avanti sui conti pubblici non riesca a produrre effetti altrettanto virtuosi sulla crescita. Anzi, che l’austerità abbia già innescato la spirale micidiale per cui più si stringe la cinghia e più difficilmente si riesce a tornare a crescere.
Ecco perché c’è chi suggerisce all’esecutivo di varare le privatizzazioni e liberalizzare i servizi locali in modo da abbattere il debito pubblico e poter tagliare le tasse che in parte strozzano la crescita.
Qualcuno è dell’opinione che si debba cambiare modello produttivo dell’Italia: quello manifatturiero difficilmente rifiorirà. Come? Il governo dovrebbe agevolare ilpassaggio a un modello improntato ai servizi e aiutare le imprese non solo con sgravi fiscali, ma anche riducendo la burocrazia, che pesa sui costi delle aziende private.Una soluzione, secondo gli economisti, è anche quella di favorire l’innovazione e fare in modo che le aziende puntino su beni di qualità. Da lì può venire valore aggiunto sicuro.
Qui di seguito uno stralcio delle interviste
Tito Boeri:
Professore,il pareggio di bilancio slitta al 2014.
«Si potrebbe fare della facile ironia sul fatto che martedì il Parlamento ha approvato il pareggio di bilancio costituzionale e che mercoledì il Governo ha ammesso che non lo raggiungerà nei tempi previsti…»
Tuttavia lo raggiungeremo nel 2014, l’anno successivo.
«Io credo che, se tutto va bene, azzereremo il disavanzo nel 2015. Oltretutto le previsioni del governo sono state corrette rispetto all’autunno a causa degli effetti – peggiori del previsto – della recessione. E tuttavia, anche le nuove stime divergono notevolmente da quelle rese note martedì dal Fondo monetario internazionale, che prevede invece una flessione del prodotto nell’ordine dell’1,7 per cento».
Il che peggiorerebbe anche il deficit.
«Esatto. Se chiudessimo quest’anno con una recessione vicino al 2 per cento, è ovvio che il deficit sarebbe superiore al 2 per cento – ora il governo lo prevede all’1,7 per cento. E il pareggio di bilancio si allontanerebbe ulteriormente».
I dati sulla disoccupazione sono in peggioramento. Pensa che la riforma del lavoro possa migliorare le prospettive?
«Ne dubito. Bisogna invece agire sulla leva fiscale, alleggerire il peso delle tasse sul lavoro. Dovrebbe essere questa la priorità per il Governo. Altrimenti sarà difficile ricominciare a crescere».
Michele Boldrin
“Senza un nuovo modello produttivo la situazione non migliorerà”
«Un massacro». Michele Boldrin non usa mezzi termini. L’economista della Washington University di St Louis vede nero. A meno che non cambi il modello produttivo e il Governo non agevoli le imprese sgravandole di tasse e burocrazia, in Italia le cose non miglioreranno.
Secondo Confindustria la produzione industriale è scesa del 22 per cento dal 2008. Che fare per recuperare?
«Al di là di piccole riprese tattiche è molto, molto improbabile che l’impresa manifatturiera torni in Occidente per i prossimi 20 anni. Farà il giro del mondo uscirà dalla Cina e si trasferirà in Vietnam o in Sudamerica, ma non tornerà qui. Qui serve sviluppare i servizi e l’innovazione e puntare su beni di qualità tipo i prodotti farmaceutici, o l’elettronica. Da lì può venire valore aggiunto sicuro.».
Mica si possono chiudere le impreseche non si adeguano a quel modello e che funzionano.
«Ma certo che no, ma se funzionano vanno aiutate sin d’ora: riducendo drasticamente le tasse, facendo funzionare infrastrutture e servizi e togliendo la burocrazia.»
Francesco Daveri
«Il nostro problema, mi pare, evidente, non è il deficit. I mercati lo hanno capito: il nostro problema è il debito. E non c’è nulla di serio per abbatterlo. Perché Monti non ha previsto delle privatizzazioni
Non c’è altro modo per abbatterlo?
«Sui servizi pubblici locali c’è solo un accenno a un “miglioramento dei servizi pubblici locali”. Mi sarei aspettato qualcosa in più. Un’altra possibilità è battersi peruna zona di libero commercio atlantica, tra Usa e Europa, entro le regole del Wto, ovviamente».
Paolo Guerrieri
Qual è il suo timore, dunque?
«Che ci infiliamo in una spirale recessiva: più aggiustiamo i bilanci e più inibiamo un ritorno alla crescita. Il sentiero segnato, se la situazione di incancrenisce, è quello della Grecia o della Spagna».
Sandro Trento
Ora la questione vera è: quando si faranno le riforme e, soprattutto, quando si potrà spendere per fare le infrastrutture?»
Per la banda larga è previsto un piano di modernizzazione, all’interno di una vera e propria «agenda digitale».
«Secondo me l’urgenza è quella di accelerare la capacità di spesa della pubblica amministrazione. Non se ne parla mai. O meglio, il ministro Fabrizio Barca sembra il primo, dopo molti anni, ad essersi concentrato di nuovo sul tema delle infrastrutture. Ma il problema è che se se ne allungano troppo i tempi, l’efficacia si indebolisce».
Monti ha detto ieri che il risanamento deve scongiurare di farci fare la fine della Grecia.
«Ma noi non siamo minimamente paragonabili alla Grecia. Però è vero che non siamo ancora al sicuro. E la crescita, il nostro punto debole attuale, non si fa certo per decreto, dall’oggi al domani. Si fa aprendo il mercato, introducendo la concorrenza, principio raro in Italia. Ma soprattutto, abbassando le tasse».



giovedì 30 agosto 2012

Legge elettorale, la riforma ‘usa e getta’

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I partiti sembrano aver trovato l’accordo sulla nuova legge elettorale. La proposta accontenta un po’ tutti proprio perché è una riforma “usa e getta”, figlia della debolezza dei suoi firmatari. Rischia però di consegnarci un parlamento troppo frammentato per dar vita a qualsiasi coalizione, avvicinandoci così alla Grecia. Mentre invece dovremmo guardare alla Francia e al suo sistema maggioritario a doppio turno. Meglio prefigurare una fase costituente, per arrivare a una legge elettorale agganciata a una riforma istituzionale in grado di superare il bicameralismo perfetto.
Immaginate di essere un investitore che deve decidere se rinnovare o meno i propri Btp alla scadenza sapendo che in Italia fra meno di un anno si vota. La prima domanda che vi porreste è: quale governo uscirà da questa tornata elettorale? Ci saranno rappresentanze politiche sufficientemente lungimiranti da saper gestire il risanamento e affrontare i problemi strutturali che impediscono al paese di crescere al passo di Francia, Germania e Regno Unito? Il ricorso a un governo tecnico e l’entusiasmo che ciò ha provocato tra i leader europei sono la misura del fallimento della nostra classe politica. Naturale che oggi il quesito ricorrente nei mercati sia: cosa ci sarà dopo? Che tipo di maggioranza uscirà dal voto? Sarà un governo sufficientemente stabile?
L’accordo tra i partiti
Durante l’estate i nostri politici hanno pensato bene di accentuare ulteriormente questa incertezza trovando un accordo su di una riforma della legge elettorale che avvicina il nostro paese alla Grecia. Secondo le anticipazioni, l’accordo prevede un sistema elettorale ancora più complicato di quello oggi vigente. Si tratterebbe di un proporzionale con correttivi maggioritari e soglia di sbarramento al 5 per cento (con clausola di salvaguardia per chi non supera la soglia, ma ottiene più dell’8 per cento in almeno una regione). I correttivi maggioritari risiedono nella scelta degli eletti (anche se le percentuali sono oggetto di trattativa): 50 per cento con collegi uninominali; 35 per cento con liste bloccate; 15 per cento come premio al primo partito.
L’accordo è figlio della debolezza dei suoi firmatari (che probabilmente gareggeranno nell’evidenziarne i limiti subito dopo l’annuncio). Dà un contentino a tutti: il Pd si porta a casa i collegi al posto delle preferenze; il Pdl ottiene la clausola a vantaggio della Lega e del potenziale partito del Sud; Casini ha il suo proporzionale quasi tedesco al netto del premio al primo partito, regalandoci però un’altra riforma elettorale “usa e getta”.
Nel 2006, il centrodestra partorì il Porcellum per ridurre i costi di una sconfitta annunciata. Oggi si punta a una legge che garantisca un sostanziale pareggio o una vittoria di misura, magari per rilanciare un governo simil-Monti e adottare misure di austerità di cui i partiti non vogliono parlare in campagna elettorale.
Questo modo di guardare solo alle prossime elezioni, in realtà, è molto pericoloso perché, data la fortissima sfiducia nutrita dagli italiani nei confronti delle loro attuali rappresentanze politiche, rischia di consegnarci un Parlamento talmente segmentato da non permettere la formazione di coalizioni dopo il voto. E le riforme usa e getta tolgono ulteriore credibilità alla politica perché ci consegnano oligarchie come quelle attuali. È una classe dirigente che l’Italia oggi non può più permettersi.
Miglioramenti possibili
Come si potrebbe modificare la legge elettorale per migliorare la selezione della classe politica e aumentare la credibilità del paese? L’esperienza degli ultimi venti anni ci mostra che il bipolarismo della Seconda Repubblica ha sofferto di tre mali principali: la rissosità di poli prigionieri delle fazioni estreme; la frammentazione di coalizioni governative che tentavano di conciliare l’inconciliabile; il deterioramento della qualità della classe politica, per l’impossibilità degli elettori di scegliere gli eletti. Per affrontare questi problemi bisogna avvicinarsi alla Francia, piuttosto che alla Grecia. In entrambi i paesi si è votato nel 2012 e in entrambi i casi il voto è stato molto frammentato (al primo turno). Eppure la Francia ha oggi un governo stabile, mentre la Grecia è dovuta tornare al voto e ha tuttora un governo che rischia di cadere da un momento all’altro. Avvicinarsi alla Francia significa adottare un sistema maggioritario a doppio turno con collegi uninominali. Bene anche disegnarli in maniera competitiva, ovvero minimizzando il numero di collegi sicuri prima del voto (“Riforma elettorale, il momento è giusto“, V.Galasso – T.Nannicini).
Purtroppo, con un’ottica di riforma “usa e getta” la probabilità di approvare una legge del genere è prossima allo zero. Tuttavia, anche la bozza di accordo in circolazione potrebbe essere migliorata per raggiungere questi obiettivi, e fare così un passo avanti sostanziale rispetto al Porcellum. In primo luogo, è necessario tenere separata la ripartizione dei seggi nel 50 per cento maggioritario dal 50 per cento proporzionale (come nel Mattarellum), ed evitare che i collegi uninominali vengano usati per selezionare i candidati (all’interno dei partiti) ma non per ripartire i seggi tra i partiti (come in Germania). Ciò è necessario per restituire la scelta dei politici ai cittadini.
In subordine, si può ridurre le distanze fra il sistema proporzionale che si prefigura all’orizzonte e un ipotetico sistema maggioritario, allocando i seggi in piccole circoscrizioni, come in Spagna. Ovviamente, approvare rapidamente la mille volte promessa riduzione di uno dei parlamenti più numerosi del mondo aiuterebbe l’obiettivo di tenere bassa l’ampiezza dei collegi in termini di eletti. Anche qui i numeri sono importanti: le circoscrizioni non devono prevedere più di quattro o cinque eletti, altrimenti si favorisce la frammentazione e si peggiora la qualità degli eletti, perché i partiti possono nascondere candidati di dubbia qualità in liste bloccate troppo lunghe. In secondo luogo, bisogna aumentare il potere di scelta dei cittadini incrementando in maniera decisiva la contestabilità dei collegi uninominali. Anche con i collegi uninominali, infatti, i partiti possono “nominare” un parlamentare (proprio come con le liste bloccate) candidandolo in un collegio sicuro. Da questa semplice constatazione nasce una seconda proposta: disegnare i collegi uninominali per renderli “competitivi”, cioè dall’esito incerto. La proposta è tecnicamente fattibile (potrebbe essere definita in poche settimane da una commissione tecnica indipendente a costo zero) e migliorerebbe la qualità della classe politica ancor più delle primarie obbligatorie per la scelta dei candidati (visto che le primarie avvantaggiano chi controlla zoccoli duri di militanti).
Se queste o simili modifiche fossero introdotte, la riforma elettorale, anche se nata da un compromesso di corto respiro, potrebbe comunque rivelarsi utile. Ma se così non fosse, allora meglio lasciare perdere. Conosciamo l’obiezione: piuttosto che votare con il Porcellum, meglio qualsiasi formula alternativa. Tuttavia, ogni cambiamento di legge elettorale ha costi non indifferenti e questo per l’Italia sarebbe il terzo in vent’anni. Data la crisi di credibilità della politica italiana, per non dissuadere ulteriormente gli italiani dal voto, bisogna puntare a una legge elettorale che sia comprensibile ai cittadini. Se oggi un esito di questo tipo non è possibile, bene allora prefigurare una fase costituente, eleggendo con le regole attuali un parlamento che vari durante la prossima legislatura una riforma elettorale agganciata a una riforma istituzionale in grado di superare il bicameralismo perfetto. Durante la fase costituente, verrebbe prolungata l’esperienza del governo tecnico, che si concluderebbe al termine dei lavori della Costituente, quando si tornerebbe alle urne con la nuova legge. Questo darebbe un incentivo ai partiti a fare al più presto la riforma, anziché aspettare come sempre appena prima del voto. Perché in questo caso la riforma coinciderebbe con il ritorno alle urne.