sabato 25 agosto 2012

Generazione Perduta:denunciateli, siate onesti










Siamo noi quelli della “generazione perduta” di cui parla Monti? Qual è il suo ragionamento in merito e quale il nostro? Non ci sembra di vedere, parafrasandolo, nessuna luce in fondo al tunnel. Anzi: tutti i provvedimenti dell’attuale governo confermano il gap italiano in tal senso. Siamo ancora in tempo? Come individuare colpe e rimedi della”mala education” dei vecchi verso i giovani nel sistema Italia? Del terrore del nuovo, dell’indipendente e del bravo come minaccia all’ordine precostituito e non come risorsa del paese? Perchè di questo si tratta. In questo articolo parleremo del sistema di reclutamento universitario, ma gli altri sistemi non ci sembrano funzionare diversamente. Il mondo politico, quello della sanità, quello delle imprese, quello, più in generale, del lavoro in Italia.
Ho pensato spesso, durante questa strana estate non di tregua, alla storia di Giambattista Scirè, il giovane storico catanese che ha denunciato l’irregolarità di un concorso universitario per un posto da ricercatore a tempo indeterminato ( http://www.unita.it/italia/universita-l-odissea-di-uno-storico-br-al-suo-posto-ci-va-un-architetto-1.432207 ), così spesso da volerlo incontrare, da volergli parlare. Per conversare insieme e riflettere ad alta voce. Proprio qualche giorno prima che Monti parlasse di noi, della nostra generazione perduta.
La tua storia l’abbiamo letta sui giornali un mese fa, cosa è cambiato da allora? Come si è evoluta?
La vicenda del “mio” concorso universitario è finita su tutti i giornali senza distinzioni di appartenenze politiche (Corriere della Sera, Repubblica, l’Unità, il Fatto quotidiano, il manifesto, Linkiesta, la Gazzetta del Sud, etc) sostanzialmente per due motivi: gli elementi contestati nel ricorso erano eclatanti (in particolare il profilo assolutamente incongruo al settore della candidata vincitrice, l’assenza del dottorato di ricerca nel suo curriculum, la distanza abissale tra il valore e il punteggio delle mie pubblicazioni e le sue) ; ho insistito all’inverosimile – sono un tipo abbastanza testardo – andando in molti casi contro gli stessi consigli di conoscenti e amici, nel volere denunciare pubblicamente i fatti. Voglio precisare una cosa però, Mila: io non sono e non voglio essere il Masaniello di turno. Sono solo una persona perbene. Significa che sento il bisogno di denunciare le cose che non vanno, per non essere connivente né complice. E’ un bisogno di certezza delle regole, di trasparenza delle procedure, di onestà che voglio riconoscere a me stesso ma rintracciare anche intorno a me. Si dice che il proprio paese è quello che riconosci. Devo riconoscermi nel mio paese, i miei valori siano quelli che si impongono anche intorno. Per questi motivi mi sono mosso e mi sto muovendo. Sono certo di avere ragione, in quel concorso, senza bisogno di chiamare in causa l’abusato “Merito”, bastava seguire le procedure corrette, le regole e perseguire l’onestà per darmi ragione. Null’altro. Lo devo al mio dovere di cittadino onesto, non a una malintesa “voglia di ribellione”. Voglio riconoscermi cittadino che segue le regole del vivere comune. E voglio che mi si riconosca come tale. Senza furbizie, cinismi o sarcasmi. Ne stiamo pagando un prezzo troppo alto. L’interrogazione parlamentare (ancora in attesa di risposta da parte del ministro Profumo), la lettera al presidente della Repubblica, le due ordinanze del Tar che hanno accolto il mio ricorso in fase cautelare, sono tutti capitoli di una “battaglia” che va oltre il caso specifico e la penalizzazione personale che ho subito, ma che investe il senso stesso di fare cultura, di intendere la ricerca storica, di interpretare il significato dei termini scuola e università. Nella fattispecie dei concorsi universitari, va affermato il principio che la discrezionalità della commissione non può essere assoluta, ma deve essere basata su elementi di valutazione oggetti, intangibili e assoluti. Per esempio vanno indicati dei requisiti minimi, a partire dal dottorato di ricerca, senza cui la partecipazione ai concorsi da ricercatore non dovrebbe essere possibile. In questa vicenda specifica, alla disciplina storica contemporaneistica viene inferto un vulnus difficilmente sanabile (ndr il concorso è stato vinto da una storica dell’Architettura, priva di pubblicazioni specifiche nelle tematiche della materia, non da uno storico con studi, ricerche e pubblicazioni nella disciplina, nonostante la classe di concorso fosse esplicitamente in Storia Contemporanea). Per entrare nel merito del mio caso, di fatto, è come se l’esito del concorso sancisse che chiunque si occupa di tematiche contemporanee è – di diritto – uno storico contemporaneista: non solo lo studioso di storia dell’architettura, ma anche quello della scienza, della moda, del diritto, della psicanalisi e così via. Tutti settori scientifico-disciplinari autorizzati alle incursioni in quella “caricatura” di disciplina che diventa la storia contemporanea.
Come si è evoluta la mia storia ad oggi? Mentre la stampa e l’opinione pubblica si sono fortemente schierati dalla mia parte, diciamo che la giustizia amministrativa mi impone di attendere un anno per avere l’esito della sentenza di merito (anche se il fatto che non abbia respinto ma abbia accolto i miei ricorsi è un fatto oggettivamente molto positivo, anche perché di solito in questi casi, statisticamente, i ricorsi vengono subito respinti già in fase cautelare). L’ambiente universitario, in generale, ha risposto col silenzio (per esempio colpisce quello della Sissco, società italiana per lo studio della storia contemporanea), a parte le prese di posizioni a mio sostegno, pubbliche e private, di alcuni autorevoli docenti (per esempio D’Orsi, Ginsborg, Marino, Lupo, Tranfaglia, Gotor e altri), e le molte testimonianze e e-mail di stima ricevute da parte di studenti sconosciuti, dottorandi e giovani colleghi, che sono il termometro più generale della situazione della società italiana: i potenti, a tutti i livelli, politico, economico, universitario, sono arroccati sulle loro posizioni di privilegio, mentre i giovani solidarizzano nei sacrifici, nelle ingiustizie, nelle difficoltà.
Cosa ho intenzione di fare nel frattempo? In attesa della sentenza, sperando di riuscire ad abbreviare i tempi della decisione tramite una richiesta dell’avvocato, penso di lavorare a una pubblicazione che mette insieme tutta una serie di concorsi truccati, irregolari o comunque molto sospetti, una specie di libro bianco dei concorsi, in modo da dar voce anche a tanti altri che hanno subito simili ingiustizie. Poi sto pensando ad un esposto in procura, secondo il parere di un esperto penalista, ci sono gli estremi per farlo, anche per far capire ai responsabili, a più livelli, di questa vicenda, che faccio sul serio e per dare un segnale forte di responsabilizzazione a tutto l’ambiente.

La Gelmini, nella sua riforma sull’università , aveva voluto, almeno nelle intenzioni dichiarate perché poi la realtà è un’altra, cercare di sanare il sistema di reclutamento di ricercatori e docenti negli atenei italiani, com’era prima? Com’è adesso? Cosa è cambiato?
Molto tempo fa il reclutamento universitario era affidato a concorsi nazionali con commissioni composte dai migliori docenti ordinari e selezioni serie e rigorose, poi a partire dagli anni ottanta tutto è stato affidato all’arbitrio e alla discrezionalità di concorsi locali fondati sull’affiliazione, la conoscenza, l’amicizia, spesso addirittura la parentela. La riforma Gelmini si è inserita nel contesto di una diminuzione drastica delle risorse e dei fondi che ha messo in ginocchio l’università italiana, penalizzando in particolare il sud e quelle università che avevano e hanno eccessivi costi burocratici e di personale, riducendo al minimo però l’attività di ricerca soprattutto dei più giovani che si trovavano fuori dal meccanismo di protezione, bloccando il turn-over. Sul fronte della trasparenza avrebbe dovuto prevedere, almeno sulla carta, il sorteggio delle commissioni per i concorsi e selezioni rigorosamente basate sul merito, quindi su fattori ed elementi oggettivamente riscontrabili, come le pubblicazioni e l’attività di ricerca certificabile svolta direttamente con l’università, invece il caso del “mio” concorso dimostra l’esatto contrario, cioè che il valore legale del titolo di studio cioè della laurea diventa un optional, che il dottorato di ricerca non è obbligatorio mentre in certi tipi di selezioni dovrebbe esserlo come in qualsiasi paese all’avanguardia, che le pubblicazioni di spessore possono essere tranquillamente accantonate da commissioni che hanno l’arbitrio più assoluto e che non vengono sorteggiate ma sono ancora nominate dai rettori, su imbeccata dei docenti dell’ateneo che vogliono piazzare qualcuno, insomma quello che è cambiato, purtroppo, è cambiato in peggio. Per esempio modificare in corsa i criteri di valutazione, pur attenendosi formalmente al bando, significa ritagliare il concorso su misura per il candidato prescelto che dovrà vincere. Questo meccanismo andrebbe assolutamente interrotto, così come l’arbitrarietà e la discrezionalità assoluta delle commissioni, peraltro in questo senso mi conforta una recente sentenza della cassazione su un concorso per l’avvocatura la quale ha messo per la prima volta in discussione proprio questo aspetto, il che mi fa ben sperare anche per la sentenza relativa al mio caso.
L’età media dei docenti ordinari in Italia è tra le più alte al mondo. Sono gli unici, insieme ai politici, a non volersene mai andare. Siamo un paese vecchio ed è, su scala internazionale, uno degli indicatori del declino del nostro paese.  Io sarei per un pensionamento coatto a 65 anni di tutti gli ordinari italiani. Mi hanno lanciato contro i molossi adducendo le “necessità della ricerca”. Ma io dico: chi vieta a un professore in pensione di continuare a fare ricerca? Andando in pensione  farebbe “spazio” alle menti giovani nel paese, pur nei limiti del blocco del turn over. Non per giovanilismo ma per giuste opportunità. Per necessità del paese. 
Sul pensionamento dei docenti più vecchi hai perfettamente ragione, nel senso che nessuno vieta che, andando in pensione e liberando il posto ai più giovani , essi possano continuare a fare attività di ricerca ed eventualmente anche didattica a costo zero – ma eventualmente in aggiunta ai nuovi assunti – , quindi sarebbe fortemente auspicabile questa soluzione, solo che ci si scontra proprio con quel muro di gomma, che poi è la “casta” dell’università, non tanto diversa da quella politica, nel senso che i docenti più anziani hanno interesse a rimanere a lungo al loro posto non solo e non tanto per conservarlo a se stessi, ma per garantire la selezione di persone a loro vicine, di piazzarle dentro, creare le lobbies, in modo da alimentare quel meccanismo chiuso ed autoreferenziale e in modo che anche le nuove leve agiscano sulla base degli stessi metodi di cooptazione fondati non su elementi oggettivi, cioè su titoli, pubblicazioni, stima professionale e della comunità scientifica, ma su amicizia, favori reciproci, scambi. Insomma le cosiddette clientele. Il punto è che tutti sanno come funzionano le cose, ma nessuno ha il coraggio e la forza psicologica ma anche mediatica di denunciare i soprusi e i favoritismi. Anche nel tuo partito, il PD, tutti a ridere o ad accusare i “rottamatori”, a dar loro dei rivoluzionari. Eppure basterebbe leggere e applicare le regole del vostro Statuto per dargli semplicemente ragione; sul rinnovamento e sul ricambio ci sono più di un articolo in quello Statuto, no? Nessuno lo rispetta. La parola è: malafede e paura.

Tutti parlano di merito in Italia. Parlo della classe dirigente (universitaria, economica, politica, culturale). Eppure io ho la certezza che tutto sto parlarne sia falso, sia ipocrita, è un modo per esorcizzarlo, visto che poi, nei fatti, il costume italiano è ormai allineato su pratiche antimeritocratiche di cooptazione, di nepotismo, di clientelismo. Non tanto durante gli studi, come malsanamente pensa qualcuno, perché nella scuola e nella formazione universitaria promossi e bocciati seguono le vie ordinarie e i voti sono regolarmente assegnati. Il problema è il dopo, ma, furbamente, non lo dice nessuno. Appena finiti gli studi, chi “inizia” la vita si trova un muro di “immeritocrazia” e di imbrigliamento coatto delle menti  più libere e capaci costruito proprio da coloro che cantano le lodi al “merito”. Inizia il ricatto del lavoro. Subito in modo più grave e pesante dalle menti migliori, viste non come una risorsa del paese ma come una minaccia alle posizioni costituite. Accade nelle università, accade nella politica, accade nella pubblica amministrazione, accade anche nelle istituzioni culturali. Il coraggio: si può dire che ci hanno trattato (parlo della “generazione perduta”,  noi che oggi abbiamo 30 – 40 anni, coloro che potevamo essere la nuova classe dirigente – culturale, accademica, politica-  e siamo esclusi da quasi tutto, sospesi tra il non più e il non ancora) per come ci siamo fatti trattare? Nel senso: la maggior parte dei nostri colleghi sono complici e conniventi con tutto ciò. Per paura, per abitudine, per sfiducia nel trionfo delle regolarità..eppure qualcuno potrebbe dire a ragione: la colpa è stata vostra che non vi siete ribellati, che non avete preteso la trasparenza, che vi siete accollati il ricatto …ma oggi risorse e finanziamenti scarseggiano per cui la promessa di qualche anno fa “aspetta toccherà anche a te” non ha certezza di essere mantenuta. Tu sei uno dei pochi a fare ricorso, a esserti ribellato, o pensi che i ricorsi stiano aumentando?
Sì è vero la colpa di come stanno andando le cose nell’università è soprattutto nostra, dei “giovani”, che si sono finora adeguati a certi meccanismi, li hanno accettati, avallati e spesso li giustificano anche in modo davvero inspiegabile. Riguardo alla mia vicenda ho dovuto assistere a ragionamenti incredibili per giustificare o in qualche modo “perdonare” le scelte della commissione. Bene, questo ragionamento fatto da gente precaria, da gente “giovane” (purtroppo in Italia a 36 anni si è considerati ancora tali) come me , onestamente, mi sembra inspiegabile. O meglio la spiegazione sta nella paura di essere tagliati fuori, di essere abbandonati a se stessi, di perdere i propri “padrini”, ma si tratta di un modo di ragionare di comodo, in difesa, no diverso da quello che accade in politica e dentro i partiti, invece bisogna giocare all’attacco per cambiare completamente le cose. Per questo trovo ridicolo e offensivo tutto questo parlare di “merito” che fanno da destra a sinistra. Il problema non è il “merito” o il premio al più bravo, sono astrazioni che diventano distrazioni. Il problema, e investe ogni angolo della società italiana, è il mancato rispetto delle procedure, la corruzione a tutti i livelli, la mancanza di trasparenza, l’insabbiamento, gli errori amministrativi e burocratici che nessuno paga. All’Università, nei fatti non esiste nessun regolamento, nessuna procedura di controllo che assicuri, non dico la promozione del merito (che mi sembra aria fritta) ma la semplice, sana regolarità dei mezzi di selezione. Le regole anzi vengono “adattate” e cambiate volta per volta, cucite addosso, anche durante un procedimento concorsuale. Quando basterebbe verificare in modo onesto le produzioni fatte, le ricerche in corso, tramite gli standards internazionali della comunità scientifica, della ricerca o dei risultati. Quando parliamo in modo così provinciale di merito facciamo ridere la classe scientifica internazionale. Non assicuriamo un concorso a un ricercatore che ne ha titoli e capacità, non promuoviamo il progresso di forze giovani e libere nella politica, nelle imprese, nella cultura, e ci affanniamo a trovare i modi con cui dare medagliette o premi ai ragazzi che sono primi nelle scuole? Sì, facciamo ridere. A meno che non ne riconosciamo la malafede assoluta: è più semplice dare una medaglietta o produrre la retorica del “primo” sganciata da ricadute effettive sul sistema, che rinunciare a posizioni consolidate favorendo il ricambio con forze migliori. Il ricambio implica la rinuncia a poteri consolidatissimi.
Il paese, l’opinione pubblica si confondono, plaudono, ovviamente, a questi provvedimenti “civetta” e inutili, non sapendo che nulla cambia così e l’unico merito che ti porta avanti è sempre quello italiano del familismo o del nepotismo amorale. Del clan, della lobby, dell’appartenenza. Il contrario insomma di quello a cui uno pensa se gli vengono in testa: scienza, progresso e libertà. Altro che atenei migliori e altro che competizione internazionale. Attualmente, per tornare al mio ambito, ora più che mai bisogna rendersi conto che l’università vede, nella precarietà degli accessi e delle condizioni di lavoro assolutamente ingiuste di sfruttamento , una gravissima minaccia all’indipendenza intellettuale della ricerca, poiché tutti, anche i più giovani, sono spinti a conformarsi alla volontà e alle decisioni dei poteri consolidati, dei docenti più forti e ambiziosi, quelli che poi risultano sempre eletti o nominati , basterebbe fare una statistica, nelle commissioni di concorso degli ultimi anni. Si dovrebbe, per esempio, vietare la possibilità che certi docenti, i soliti nomi, entrino sempre nelle commissioni, mettere una sorta di congelamento per un certo periodo se si è fatto parte di una commissione di concorso. Questo non risolverebbe il problema, perché comunque gli accordi sottobanco rimarrebbero, ma probabilmente lo allevierebbe. Inoltre i più giovani tendono a farsi condizionare anche dall’idea ormai passata ovunque che la cultura e la ricerca debbano per forza quantificarsi in termini di produttività, di mercato, di guadagno rigidamente economico, questo crea meccanismi che uniti alla paura di cui parlavo prima stanno demolendo il sistema universitario italiano, anche nei tanto bistrattati studi umanistici, un tempo preso a modello ovunque.

Come è il clima che hai intorno? Come ti considerano i colleghi? La notizia di un altro concorso “falsato” per cui è indagato in questi giorni addirittura un sottosegretario, Adelfio Cardinale (http://livesicilia.it/2012/08/09/concorsi-truccati-alluniversita-indagato-adelfio-elio-cardinale ),  come ti giunge?
Su Cardinale? Non mi stupisce. Mi stupisce, e non poco,  che nessuno ne pretenda le dimissioni da sottosegretario. Anche se semplicemente indagato c’è un rispetto dovuto alle istituzioni che in Italia è calpestato di continuo con la scusa della presunzione d’ innocenza non vi è mai nessun responsabile. Dovrebbe dimettersi già solo per lo scandalo. Penso anche all’assurdo caso dei tests sbagliati nel concorso di accesso al tirocinio per insegnanti. Come puoi accusare gli insegnanti di scarso livello qualitativo se non sei nemmeno in grado di selezionare regolarmente e con competenza quelli nuovi? Allucinante: un ministro serio doveva dimettersi anche in quel caso, di fronte a uno scandalo simile. E invece? Silenzio totale dal Consiglio dei Ministri del Merito. Silenzio anche dall’opinione pubblica. Per questo dico che mi sembrano tutti in malafede. Non pagheranno nemmeno i fior di “esperti” che hanno prodotto questa vergogna. Pagano i cittadini in termini di fiducia nelle istituzioni. Come far loro una colpa se si allontanano sempre di più e se l’ astensione dal voto cresce? Fa comodo avere un’opinione pubblica lontana e sfiduciata. Quelle che si diffondono e si impongono nell’animo dei cittadini a causa della deresponsabilizzazione generale su ogni cosa. Ecco le sconfitte democratiche serie. Cardinale sta lì, Profumo sta lì, nessuno si stupisce più del peggio che è sempre peggiore. E il peggio è disonestà. Se lo Stato la avalla è la fine. Se i cittadini se ne disinteressano e si “abituano” è la fine. Il clima che respiro intorno nell’ambiente universitario? E’ una cappa di silenzio (e spesso di omertà), anche se qualcuno fa sentire il suo appoggio, soprattutto privatamente. Devo dire di aver avuto consigli e solidarietà soprattutto dalle due fasce opposte di età, cioè da docenti ormai navigati, con grande esperienza, possibilmente in pensione che non fanno più parte del sistema o che hanno la forza morale e l’onestà intellettuale per criticarlo e metterlo seriamente in questione, e dai più giovani, cioè ragazzi e ragazze, studenti, dottorandi, che mi hanno scritto di andare avanti, di fare questa battaglia anche per loro, addirittura qualcuno mi ha detto che aveva pensato di lasciar perdere su consiglio di docenti e amici ma che poi dopo aver visto la risonanza della mia vicenda ha cambiato idea ed ha deciso di ricorrere, di contestare le irregolarità, di non pensare che sempre tutto è deciso e prestabilito da entità supreme, per non lasciare campo libero ai “soliti noti”. So di molti nuovi ricorsi che stanno montando. E’ bene che le nuove leve dell’università sappiano, per esempio, che dopo aver partecipato ad un concorso, il cosiddetto accesso agli atti per capire con quali criteri e come sono stati attribuiti i punteggi che hanno dichiarato il vincitore,  è un atto doveroso, può farlo chiunque senza bisogno di alcun avvocato, basta fare una richiesta scritta entro i tempi all’università che lo ha bandito, non è un atto rivoluzionario o il voler mettere il naso nell’operato delle commissioni, ma un diritto di chiunque ha partecipato, solo che nell’ambiente si cerca di dissuadere dal farlo proprio per coprire le irregolarità. Io mi sento di dire a tutti, giovanissimi studenti e giovani amici colleghi, che è giunto il momento di prendere posizione in modo chiaro e inequivocabile contro certi metodi, anche se provengono da ambienti e persone a noi vicini (come è stato il mio caso, anche per questo ha destato clamore e molti mi hanno dato del coraggioso ma anche del temerario), perché solo così è possibile giungere – lo so è un percorso lungo e non facile – all’università che davvero vogliamo. Io non ho paura delle ritorsioni, ma se siamo in tanti ad agire in questo modo – e se chi decide il bello e il cattivo tempo nell’università capirà che può essere in qualsiasi momento denunciato e attaccato pubblicamente, da più fronti e da tante persone, la paura di fare scelte difficili sarà ancora meno forte. L’unione fa la forza e quando si sa di essere nel giusto non si deve mai avere paura delle conseguenze delle proprie azioni. Questo principio credo valga su qualsiasi aspetto della vita di ognuno.

Nessuno degli atenei italiani è tra i primi cento posti degli atenei migliori al mondo, eppure i nostri ricercatori all’estero sono sempre i migliori, mentre in Italia queste forze non emergono, pensi che il nepotismo, la cooptazione e l’imbrigliamento delle forze più giovani possano essere tra i motivi? Esistono delle oasi?

Parliamo di galassie diverse e lontanissime. All’estero, o comunque in molti paesi stranieri, la ricerca universitaria e il ruolo di docente universitario (e spesso più in generale quello di insegnante, come sai bene) sono considerati importantissimi e imprescindibili per l’evoluzione delle società, non a caso all’importanza corrisponde una retribuzione elevata. La retribuzione elevata è la conseguenza dell’importanza sociale del ruolo, non la premessa. E’ sostanziale la precisazione. In Italia i ricercatori, precari o stabili che siano, sono considerati come l’ultima ruota del carro, vengono sottovalutati e sottopagati. Come anche gli insegnanti: la scusa è la scarsità di risorse. La verità è lo scarso riconoscimento dell’importanza del ruolo dell’istruzione, della cultura e della ricerca. Responsabilità? Una classe politica sorda, di bassissimo livello, cieca e a breve termine. Non si rende conto che la “ricchezza delle nazioni” (come frutto misurabile in chiave economica, ma anche civica, del livello scientifico e culturale) si misura esattamente nell’impegno e nel sostegno alla ricerca, alla cultura e all’educazione. Lo ripetiamo da mattino a sera e la risposta è sempre di tipo marginale, mai sostanziale: la medaglietta o il voto sono due esempi di marginalità ridicola nella risposta politica. Segno che non hanno capito nulla: ma come possono capirne se il livello medio è quello che conosciamo? A questo processo di decadenza e impoverimento culturale del paese e dell’università italiana hanno contribuito anni di disinteresse e di riforme fondate sulle parole d’ordine “taglio degli sprechi”, “esubero”, “razionalizzazione”, ma è stato solo un modo per depotenziare e far perdere di significato e di importanza il ruolo della cultura critica, proprio perché la politica voleva avere sempre più campo libero, voleva cittadini e studenti sempre meno attenti e sempre più sottomessi. Oggi, peggio ancora, non c’è nemmeno questo perseguimento. E’ molto più banale: non ne riconoscono l’importanza perché, semplicemente non sono né uomini di cultura, né uomini di scienza, né hanno gli strumenti per capirlo. E lo vediamo nell’arroganza priva di margini contrattuali con cui riescono ad imporre nel paese decisioni suicide per quel che riguarda scienza e coscienza. Indubbiamente se all’estero i ricercatori italiani trovano più spazio e sono considerati tra i più bravi e preparati e in Italia questo non accade il motivo è riconducibile proprio ai meccanismi di reclutamento oltre che all’impoverimento dell’offerta didattica: se ad insegnare vengono mandati non i più bravi ma gli amici e i conoscenti (quando non direttamente i parenti) è chiaro che le forze migliori sono costrette all’attesa, a cambiare prospettive lavorative, quando non direttamente alla fuga dal paese. Certo, sarebbe sbagliato generalizzare e dire che ovunque le università utilizzino metodi di dubbia moralità, esistono infatti sedi universitarie (poche per la verità) che fanno dell’eccellenza e del merito gli elementi se non esclusivi quanto meno più importanti: nel caso della storia contemporanea, i dipartimenti di Torino e di Bologna hanno rappresentato, sia per l’offerta dei corsi, sia per lo spessore dei docenti, dei modelli da seguire.

Altrove chi fa ricerca è pagato meglio, lo abbiamo detto, se ha autonomia di pensiero e indipendenza è premiato, non punito come “presuntuoso”, da noi le cose vanno come abbiamo scritto: perché non vai via? 
Devo dire che a volte lo scoramento e la delusione è tale che mi verrebbe davvero voglia di partire, ma poi ci rifletto e mi dico che sarebbe una sconfitta cocente, non solo per me, ma credo anche per il paese e per l’università. Anni fa partii dalla Sicilia per laurearmi e proseguire i miei studi universitari di specializzazione a Firenze e non fu facile perché sono molto legato alla mia terra, ma lo feci nella speranza di tornare. Lo stesso farei se dovessi decidere di andare all’estero, ma credo che sia dovere di ognuno di noi tentare di migliorare e cambiare le cose nell’oggi e nel nostro paese. Quanto meno occorre provarci fino alla fine. La fuga, a mio avviso, sarebbe comunque la soluzione più facile ed io sono sempre stato affascinato dalla complessità e dalle cose difficili da raggiungere.
La conversazione con Giambattista vira su altro, sull’ oggetto dei suoi studi, sulla politica, su temi specifici che interessano entrambi, sul suo prossimo libro, dedicato al gruppo parlamentare della sinistra indipendente. Non finiremmo mai di parlare e siamo come i clerici vagantes medievali, certi del valore della conoscenza e del sapere oggi come allora, quando quel sapere creò l’Europa che tutti inseguono senza saperne granché. Ci sentiamo però come degli anarchici, quando anarchici non siamo.  Siamo quelli che son tornati per rimanere. Io ho mollato, non faccio più ricerca, insegno a Palermo. Lui combatte a Catania e ha tutto il mio appoggio e sostegno. Forse nel mio caso il paese ci ha guadagnato un insegnante motivata, soddisfatta e fiera di quello che fa, piuttosto che un’esperta di arte barocca, ma quando guardo, come in questo istante, i libri della mia vita, nello scaffale accanto alla mia scrivania, subisco per intero il fallimento e il dolore di una vita che poteva essere diversa, perché la mia vita è quei libri. Anche se del fallimento ne ho fatto un’opportunità.
Oggi compio 45 anni e sono la Generazione Perduta, arrabbiata tanto da non volerne sentire parlare in modo inutile. Dico adesso a chi ha vent’anni, ascoltate Giambattista: denunciateli quando vi rubano il futuro in modo illecito. E’ inutile aspettare una legge che controlli,  punisca o verifichi in modo serio le irregolarità ovunque siano, non ve la faranno, non costoro. Fatelo voi.  Fatelo per l’Italia non per voi stessi. Non perché siete ribelli, ma perché siete onesti. 
Mila Spicola

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