lunedì 20 agosto 2012

PERDIAMO TERRENO









Il cemento sta coprendo l'Italia: la superficie impermeabilizzata è in costante aumento: 500% in più in circa 50 anni. A lanciare l'allarme sono il Wwf e il Fai che nel dossier 'Terra Rubata' raccontano un Paese sommerso dall'asfalto

di GABRIELE SALARI
con un'analisi di ANTONIO CIANCIULLO

Una superficie artificializzata grande quanto il Friuli Venezia Giulia. Nonostante la stabilità demografica in 50 anni c'è stato un forte incremento del territorio urbanizzato: 8.500 ettari all'anno. Un aumento del 500% dal Dopoguerra ai primi anni Duemila. Siamo i primi produttori di cemento in Europa e il business alimenta anche la diffusione delle cave di calcare sui fianchi di colline e montagne

Cinquecento per cento. Di tanto è aumentata la superficie impermeabilizzata dal cemento o dall’asfalto in Italia tra il 1956 e il 2001. Questo crescente consumo di suolo è avvenuto a prescindere dallo sviluppo economico o demografico. Il caso del Molise, la cui popolazione ha una consistenza numerica pressoché costante dal 1861, è significativo: la superficie urbanizzata è passata dai circa 2.316 ettari del 1956 ai 12.030 del
2002, con una variazione positiva quindi di circa 9.700 ettari, pari a un consumo giornaliero di circa mezzo ettaro. Lo stesso si può dire però per tutta l’Italia dove la stabilità demografica contraddistingue gli ultimi decenni, ma dove, tra il 1991 e il 2001, l’Agenzia Ambientale Europea rileva un incremento di quasi 8.500 ettari l’anno di territorio urbanizzato (il doppio della media europea) e l’Istat ben tre milioni di ettari di territorio, un terzo dei quali agricolo, perso tra il 1990 e il 2005. Gli ultimi anni non sono serviti affatto a invertire questa tendenza.

L’allarme, lanciato da Fai e Wwf nel recente dossier “Terra Rubata”, arriva in un momento in cui a livello globale si riscontra la stessa tendenza. La Cina, ad esempio, cerca di accaparrarsi terreni agricoli in Africa per sopperire alle proprie necessità di produzione alimentare. È il suicidio dell’Italia agricola, giardino d’Europa, che ha rinnegato le proprie origini per inseguire l’industrializzazione e che ora, nell’epoca postindustriale, continua a disseminare il territorio di capannoni, invece di recuperare le aree dismesse ed evitare nuovo consumo di suolo.

In Italia è praticamente impossibile tracciare un cerchio di 10 chilometri di diametro senza incontrare un nucleo urbano, con tutto ciò che ne consegue, sia per l’isolamento dei francobolli di natura rimasti che, guardando le cose dal punto di vista opposto, quanto a difficoltà di individuazione di siti idonei per impianti come le discariche che dovrebbero sorgere lontano da un centro abitato.

La nostra economia incentrata sul Pil ha visto nel settore delle costruzioni un suo punto di forza e l’ultimo decennio non ha fatto eccezione, anzi: il 2007 è stato il nono anno consecutivo di sviluppo del settore in Italia, qualificandosi come l’anno in cui i volumi produttivi hanno raggiunto i livelli più alti dal 1970 ad oggi.

Felici di coprire l’Italia di cemento quindi e pazienza se quel suolo è perso per sempre, non potrà più tornare ad essere suolo agricolo. In un’epoca in cui non si prevede crescita demografica e in cui il paesaggio è forse una delle risorse più importanti del Paese, una scelta poco sensata. Anche l’IMU, introdotta dal federalismo fiscale, si conferma come un introito per i Comuni ancora proporzionale in larga parte alla quantità di edifici senza, almeno per ora, vincoli particolari di utilizzazione e quindi del tutto analoga all’ICI negli effetti nefasti sulla trasformazione del suolo.

In uno studio che ha riguardato circa la metà del territorio italiano, si è visto che l’area urbana si è mediamente moltiplicata di quasi 3 volte e mezza dal Dopoguerra ai primi anni 2000, con un aumento di quasi 600.000 ettari in circa 50 anni, cioè una superficie artificializzata pari quasi a quella dell’intera regione Friuli Venezia Giulia.

Il business del cemento, del quale siamo i primi produttori in Europa, alimenta anche la diffusione delle cave di calcare per cementifici che infliggono pesanti ferite al paesaggio,  visto che sorgono sui fianchi di colline e montagne, e risultano visibili a chilometri di distanza, assumendo il tipico aspetto di enormi cicatrici color bianco abbagliante. Eccezionale la situazione nel Casertano, con cave spesso fuorilegge a ridosso di centri abitati, come denuncia il dossier “Terra rubata”, che segnala come questo tipo di cave sia spesso in mano all’ecomafia.

La piaga dell’abusivismo edilizio nel Meridione amplifica a dismisura il fenomeno del consumo di suolo, sia in aree a forte vocazione agricola che in aree dove il buon senso (oltre che la legge Galasso) impedirebbe di costruire, come le pendici dei vulcani. Il Vesuvio è un caso emblematico anche perché a case e altri manufatti, si aggiunge la presenza di cave e discariche, a fronte di un territorio fertile in cui si coltivano diversi prodotti tipici. 

Gli operatori immobiliari hanno meno vincoli urbanistici, edificare costa di meno e il diffondersi dei centri commerciali aiuta ad incentivare le lottizzazioni. La geografia dell'Italia è in rapido cambiamento: non più piccoli centri storici tra vigne e uliveti, ma campagne dentro le città. Degli effetti ce ne accorgiamo durante le alluvioni

Quasi il 60% delle aree urbanizzate è collocato in aree pianeggianti, indubbiamente più comode per ciò che riguarda i collegamenti e più vantaggiose in relazione ai costi di costruzione. Sono bastati alcuni decenni di crollo dell’agricoltura nelle più piccole pianure italiane per provocarne il sacrificio. In pratica, si è consumato più suolo e in modo più estensivo dove questa risorsa era più disponibile e dove costava meno, anche quando i suoli utilizzati erano ad alta vocazione agricola.

“La speculazione legata ai cambi di destinazione d’uso delle aree agricole e all’edificabilità dei suoli ha generato spesso un intreccio tra costruttori e Amministratori pubblici che ha in molti casi stravolto ogni tentativo di seria programmazione e gestione territoriale” spiega Franco Ferroni, responsabile biodiversità del Wwf Italia. “Gli interessi dei grandi costruttori sono molto spesso coincidenti con quelli fondiari, chi costruisce case da tempo compra le terre su cui edificare e non sempre le comprano con l’edificabilità già sancita nei piani regolatori. Il guadagno in questo caso si moltiplica, e di molto”.

Basti considerare che in un’area di fondovalle di Umbria o Marche i terreni ad alta vocazione agricola possono avere costi ad ettaro di 15.000 - 20.000 euro che salgono facilmente a 70.000 - 90.000 euro ad ettaro se il terreno diventa edificabile con un centro residenziale o commerciale che sostituisce i seminativi.  O ancora, quanto può rendere di più un agrumeto della Costiera Amalfitana se invece che produrre il limone sfusato di Amalfi, il terreno viene impiegato come parcheggio dai turisti che affollano d’estate la località di mare?

Andando su e giù per lo Stivale si nota come si stia sfaldando il tessuto italiano fatto di piccoli centri storici immersi in orti e vigneti, campi e pascoli. I centri medioevali si svuotano di abitanti perché vengono considerati “scomodi” visto che spesso non si può posteggiare l’automobile sotto casa. Costruire su spazi verdi extra-urbani costa poi meno rispetto ai costi di recupero e di adeguamento del patrimonio immobiliare esistente e gli operatori immobiliari nei territori extra-urbani trovano minori vincoli urbanistici. Non solo, il diffondersi di grandi centri commerciali periferici  incentiva ulteriormente la nascita di lottizzazioni extraurbane e l’uso dell’automobile. Più case isolate e più centri commerciali portano alla necessità di più strade e quindi a una crescita esponenziale del consumo di suolo.

“Un’altra causa del fenomeno è rappresentata dalla possibilità per i Comuni di utilizzare fino al 50% degli oneri di urbanizzazione per pagare le spese correnti. In carenza di altre risorse questa norma ha incentivato da parte delle amministrazioni locali il cambio della destinazione d’uso dei terreni agricoli in aree edificabili anche in assenza di un reale fabbisogno, per aumentare le entrate nei propri bilanci e mantenere i servizi essenziali” spiega Ferroni.

I dati a disposizione indicano che in Pianura Padana il 9,9% della superficie è occupato da opere d’urbanizzazione, cave e discariche, con punte del 12,5% nelle aree dell’alta pianura e del 16,9% in corrispondenza delle colline moreniche. In Versilia e nelle pianure interne della Toscana, Umbria e Lazio il consumo di suolo per attività extra-agricole raggiunge il 10,6% della superficie. Vi sono aree in cui l’urbanizzato copre addirittura il 50% del suolo ed è la campagna a trovarsi all’interno dello spazio urbano e non viceversa. 

Accade per esempio nell’ampia regione che ha come vertici Bergamo-Lecco-Como-Varese-Milano oppure intorno a Bologna, da Parma a Cesena. “Negli ultimi 15 anni il diffondersi degli insediamenti si è proposto con forza anche in alcune zone della pianura irrigua che fino a un ventennio fa ne erano rimaste immuni e che da alcuni erano pensate come il possibile cuore verde della megalopoli padana” scrivono Stefano Bocchi e Arturo Lanzani in “Campagna e Città” (Touring Club Italiano).

Il problema è che stiamo assistendo a una “padanizzazione” delle nostre pianure in tutto il Paese. Nonostante già prima della crisi economica molti alloggi e molti capannoni industriali fossero  vuoti, si continua a costruirne degli altri e ogni città si sviluppa ormai lungo le principali strade di comunicazione fino a saldarsi con la città successiva. Questo lo si percepisce chiaramente percorrendo la superstrada da Perugia a Spoleto, nella Valle Umbra, oppure la Pontina, da Roma a Latina. Difficile capire dove finisce un centro abitato e ne inizia un altro: è la cancellazione della campagna.

L’impermeabilizzazione delle pianure produce effetti di cui ci accorgiamo in occasione delle alluvioni, visto che l’asfalto limita le aree di espansione naturale delle piene. Servirebbero dunque vincoli sulle modificazioni d’uso dei terreni agricoli, ma anche incentivi per chi intraprende l’attività agricola. Nel 2009, secondo le stime dell’Unione europea, mentre il reddito reale per lavoratore nel settore è sceso in media del 12%, in Italia il calo è stato di oltre il doppio. 

In Europa la campagna si difende

Mentre in Italia mancano i meccanismi di gestione e controllo del territorio, nel resto del Vecchio Continente si tenta di porre un limite al consumo. La prima è stata la Francia, con tre leggi negli anni 90. Poi la Gran Bretagna con le 'Green Belts', che impediscono alle città di saldarsi tra loro. La Germania si è posta un obiettivo: non più di 30 ettari al giorno entro il 2020

La Germania è stato uno dei primi paesi che si è occupato della tutela del paesaggio e ha fissato un limite quantitativo al consumo di suolo, dopo aver rilevato nel 2002 un tasso di crescita di 129 ettari al giorno (in Italia siamo oggi a 75 ettari).

Il limite, da raggiungere entro il 2020, è di 30 ettari al giorno e si sta cercando di raggiungerlo con una politica di riutilizzo dei suoli già impermeabilizzati, ad esempio, prevedendo una diversa tassazione sugli immobili a seconda che siano realizzati o meno su aree già urbanizzate.

Nel 1999 è entrata in vigore una vera e propria legge per il suolo, che vede l’inserimento della tutela dei suoli in tutte le regolamentazioni e norme di settore e l’inserimento del principio di prevenzione. Un approccio normativo così completo e puntuale è stato portato avanti con una contemporanea attività di ricerca e analisi per la misurazione del fenomeno. 

In Gran Bretagna, invece, si è riusciti a impedire che le città si saldassero tra di loro, grazie a un’intuizione del 1995: le Green Belts, le cinture verdi che circondano i centri urbani costringendoli in confini non valicabili per l’espansione edilizia. In quell’anno l’estensione delle Green Belts era di 1.556.000 ettari, circa il 12% del suolo inglese, mentre oggi siamo arrivati a una superficie di quasi 1.700.000 ettari. Un vero successo che ha consentito di proteggere la campagna e le attività che vi si svolgono, ma anche di conservare le caratteristiche specifiche delle città storiche con il loro contesto e aiutare la rigenerazione urbana, incoraggiando il riutilizzo di aree urbanizzate abbandonate.

Almeno il 60 % delle nuove abitazioni in Gran Bretagna devono essere realizzate su suolo già urbanizzato, intendendo aree ed edifici che sono stati abbandonati o sono in stato di degrado oppure utilizzati ma che potrebbero essere riqualificati. A sostegno di questa politica, il “National Land Use Database” viene aggiornato annualmente e contiene informazioni sui suoli già impermeabilizzati ed edificati in Inghilterra.

Anche in Francia tre diverse leggi, entrate in vigore alla fine degli anni Novanta si occupano della gestione del territorio, mentre in Italia manca ancora questo tipo di meccanismi di pianificazione e perfino il Catasto delle aree percorse dal fuoco, previsto dalla legge quadro sugli incendi 353/2000, per impedire l’edificazione nei boschi dati alle fiamme, è uno strumento che molti Comuni non applicano, facendo mancare così un ulteriore argine al consumo di suolo.


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