giovedì 3 febbraio 2011

Evasione fiscale sopra i 270 miliardi all'anno

La ricchezza nascosta al Fisco equivale a un quinto del Pil

La caratteristica principale che distingue il sistema fiscale italiano da quello degli altri paesi OCSE è l'elevatissimo livello dell'evasione fiscale, che in base alle stime disponibili risulta circa il doppio della media dei principali paesi. Si tratta di oltre 200 miliardi di euro di base imponibile e di 100 miliardi di gettito in meno. Gli studi e le ricerche in proposito abbondano, si conoscono la tipologia dei contribuenti a rischio, i settori di attività, la distribuzione per regione e provincia...In un paese normale tutti gli sforzi si concentrerebbero sull'individuazione di strategie ottimali per riportare il fenomeno entro confini accettabili, e su questo vi sarebbe un impegno, come si dice, bipartisan. Un obiettivo realistico da porsi sarebbe quello di dimezzare l'evasione attuale, e di utilizzare il maggior gettito per ridurre l'incidenza delle imposte esistenti, in particolare quella dell'Irpef. Ma poiché perfino il maggiore o minore impegno nella lotta all'evasione è in questo paese oggetto di contrapposizione e scontro politico, è stato finora impossibile realizzare progressi rilevanti che pure sarebbero possibili, anche se è chiaro che senza un recupero di gettito evaso nessuna seria riforma fiscale è possibile.

Ai fini del controllo dell'evasione l'aspetto decisivo riguarda la possibilità di un riscontro e un controllo sulle transazioni che si verificano nel sistema economico. Le ritenute alla fonte operate per conto dell'amministrazione finanziaria da operatori che non hanno l'interesse o la possibilità di colludere rappresentano l'esempio più evidente di una efficace deterrenza nei confronti dell'evasione che infatti risulta molto bassa per i redditi interessati (in Italia si tratta dei redditi di lavoro dipendente e pensione, dei redditi di capitale, di alcune tipologie dei redditi di lavoro autonomo). Un'analoga funzione svolgono gli obblighi contabili nelle imprese adeguatamente strutturate, cioè quelle di dimensioni o caratteristiche tali per cui una corretta contabilità rappresenta soprattutto una garanzia di controllo per i proprietari prima ancora che per il fisco.

Ne deriva che al centro della strategia di recupero dovrebbero esserci misure che cercano di porre quanto più è possibile sullo stesso piano tutti i redditi e i compensi in modo da ridurre (se non eliminare) la disparità di trattamento che oggi consente ad alcuni di evadere, ed obbliga altri a pagare interamente le imposte.

Uno strumento su cui si è fatto molto affidamento negli anni passati per cercare di migliorare la situazione sono gli studi di settore. Introdotti nel 1993 con voto bipartisan, entrano in vigore nel 1998 (governo Prodi). Essi consistono in uno strumento statistico basato su dati trasmessi dagli stessi contribuenti circa le caratteristiche strutturali dell'attività svolta con l'obiettivo di stimare in maniera attendibile l'effettivo ammontare dei ricavi di ciascuno, al fine di verificare la loro "congruità". Si tratta(va) di un sistema che aspirava a determinare un'adesione di massa da parte dei contribuenti sia perché conveniente, sia perché i "non congrui" avrebbero avuto maggiori probabilità di essere sottoposti ad accertamento.

Fin dall'inizio tuttavia gli studi di settore furono oggetto di interpretazioni ambigue e non corrispondenti alla legge. Le norme, infatti, escludevano esplicitamente che i risultati degli studi di settore potessero essere considerati una "normalizzazione" dei ricavi (e quindi dei redditi), o una loro forfettizzazione. Infatti il governo dell'epoca era contrario a questa ipotesi (ma non tutto il Parlamento) e lo erano anche le categorie per le quali ogni ipotesi di forfetizzazione equivaleva alla reintroduzione della minimum tax. Gli studi di settore, quindi, in base alla legge, forniscono esclusivamente un'indicazione di massima di quanto il fisco si attende da ciascun contribuente, e costituiscono linee guida per l'azione di accertamento degli uffici. In sostanza i contribuenti dovrebbero, in base alla legge, dichiarare i proventi reali e non necessariamente quelli risultanti dallo studio, che sono solo indicativi. Sicché se un'impresa è in perdita è ovvio che essa non deve adeguarsi agli studi, analogamente dovrebbe comportarsi un contribuente strutturalmente non rappresentato dallo studio che lo riguarda, ecc.

Sfortunatamente l'interpretazione corrente fatta propria da commentatori, contribuenti e consulenti è stata, e rimane, proprio quella di considerarli una sorta di minimum tax dovuta in ogni caso; non di rado lo stesso approccio è stato seguito anche dagli uffici. Ciò è alla base delle polemiche che hanno caratterizzato la vicenda degli studi di settore negli ultimi 10 anni; dato che gli studi sono mediamente molto permissivi, le associazioni di categoria li difendono (mentre i sindacati li criticano). Al tempo stesso, poiché per i contribuenti marginali, o con difficoltà congiunturali, essi possono fornire risultati non corretti, le stesse associazioni li contestano chiedendo sistematicamente correzioni, aggiustamenti e modifiche idonee a svuotarli. In sintesi i contribuenti marginali hanno rappresentato in questi anni una sorta di garanzia implicita, degli "scudi umani", a protezione degli evasori veri.
In sostanza, quindi, l'operazione studi di settore non ha dato i risultati sperati, anche se un limitato contributo alla riduzione dell'evasione vi è stato. Ma dopo più di 10 anni è inevitabile trarre delle conclusioni: gli studi di settore come strumento fondamentale della lotta all'evasione vanno superati, mentre rimangono utili, anzi indispensabili, le informazioni statistiche raccolte attraverso i relativi questionari, e la banca dati che ne risulta.

Una diversa strategia nel contrasto dell'evasione è tuttavia possibile. Essa si deve basare su un'utilizzazione razionale delle banche dati esistenti e di altre che vanno create e su un nuovo ruolo dell'amministrazione. Questa era appunto la strategia - poco compresa - avviata durante l'ultimo governo Prodi, con l'obiettivo di acquisire maggiori informazioni sulle transazioni non assoggettabili a ritenuta alla fonte, attraverso la tracciabilità di compensi e flussi di pagamenti, la trasmissione telematica dei corrispettivi e, soprattutto, attraverso l'incrocio informatizzato dei rapporti economici tra fornitori e acquirenti di beni e servizi. Queste misure, unite al potenziamento e alla qualificazione dell'amministrazione, possono portare ad un nuovo modello di rapporto tributario.

Si tratta di abbandonare una gestione per masse, inevitabilmente inidonea a cogliere le peculiarità di ciascuna posizione, e di adottare un sistema capace di valutare in via preventiva e, per quanto possibile, collaborativa le singole situazioni con procedure trasparenti e persuasive, basate sull'uso razionale delle numerose informazioni di cui oggi dispone (o potrebbe facilmente disporre) l'amministrazione finanziaria. Occorre usare intelligentemente, ed in modo non tanto repressivo quanto persuasivo, le informazioni sui dati strutturali dell'attività, quelle sui rapporti economici attivi e passivi intrattenuti, le manifestazioni di agiatezza e di incremento patrimoniale del contribuente e del suo nucleo familiare, i dati finanziari, la conoscenza del territorio che hanno gli uffici, per indurre, già nel momento della dichiarazione, l'esposizione di imponibili aderenti alla capacità fiscale del singolo contribuente.

Non si deve, quindi, usare l'arma dell'accertamento in modo indiscriminato, ma occorre impostare un costruttivo confronto con il contribuente prima che egli formalizzi la sua dichiarazione, opponendo alle sue intenzioni dichiarative le eventuali incoerenze e le contraddizioni che emergono dalle informazioni oggettive in possesso dell'amministrazione, raccogliendo le sue obiezioni e prospettandogli, in caso di conferma degli elementi, le conseguenze alle quali andrà incontro.

In tutti i paesi più avanzati il ruolo dell'amministrazione non è solo quello della repressione ma è, prima di tutto, quello del dialogo e della prevenzione. Anche in Italia i numeri lo consentirebbero. Gestire ogni anno quattro o cinque milioni di posizioni, quante sono quelle dei soggetti IVA diversi dalle grandi imprese, in un arco temporale di alcuni mesi da parte di alcune migliaia di operatori dell'amministrazione (e, perché no, anche dei comuni che intendano svolgere questo ruolo in un disegno federalista), ben professionalizzati e adeguatamente supportati da innovative procedure informatiche che sappiano incrociare le informazioni disponibili, è tutt'altro che impossibile.

Sia chiaro, non si vuole trovare una scorciatoia per ottenere una manciata di euro in più. Le regole di determinazione degli imponibili e quelle per l'accertamento vanno confermate. Ciò che occorre superare è il rito annuale di milioni di dichiarazioni fiscali la cui inattendibilità emergerebbe evidente senza bisogno di onerose indagini, solo se si ponessero a confronto i dati in esse contenuti con le risultanze delle diverse banche dati già esistenti e di quelle che rapidamente possono impiantarsi. Molti contribuenti avvertiti della insostenibilità della propria posizione, ne prenderebbero atto adeguando gli imponibili. Soltanto in questo modo l'azione di accertamento potrà recuperare il ruolo che ha in tutti i sistemi tributari evoluti. Quello di azione selettiva e non di massa, supportata da un sistema sanzionatorio equilibrato, ma in grado di esercitare un'effettiva deterrenza. Il sistema proposto è ovviamente compatibile con la presenza di una forfettizzazione per i contribuenti minori

Fare questo è possibile a condizione che non si voglia continuare ad utilizzare l'evasione fiscale quale strumento di scambio per facile consenso elettorale, riconoscendo come essa costituisca uno dei principali ostacoli alla modernizzazione e allo sviluppo del Paese.



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