venerdì 21 gennaio 2011

Carcere di Sulmona - Aveva terminato la pena ma si impicca

Si può morire di carcere pur avendo scontato per intero la propria condanna? Si che si può. Mahmoud Tawfic, egiziano di 66 anni, si è suicidato nella tarda serata di mercoledì nella sua cella del “reparto internati” del carcere di Sulmona, tristemente noto alle cronache per la lunga scia di suicidi e morti avvenute all’interno delle sue mura. Il reparto internati non è un carcere, o meglio, non dovrebbe esserlo anche se di fatto lo è, per giunta nella sua condizione peggiore. In Casa lavoro finiscono quegli ex detenuti che una volta terminata di scontare la pena devono sottostare ad una delle tante «pene accessorie», così vengono definite dal nostro codice penale ereditato dal sistema delle sanzioni congeniato dal regime mussoliniano. La pena accessoria è una sanzione supplementare che segue quella penale e decreta la morte civile dell’ex detenuto, che si trasforma così in ex cittadino. Ve ne sono di tipi diversi: la libertà vigilata e la sorveglianza speciale, che comportano pesanti limitazioni alla libertà personale e restrizioni di natura civile e amministrativa. Per esempio: il divieto di avere la patente di guida, l’obbligo di dimora, il divieto di frequentare luoghi ritenuti equivoci dalle forze di polizia o persone pregiudicate, il divieto di uscita nelle ore notturne, eccetera. La peggiore di tutti però è la Casa lavoro perché si viene nuovamente rinchiusi in strutture carcerarie, anche se non si è più «detenuti» ma «internati» ad indicare uno status di restrizione non più penale ma amministrativo. Uno status sempre più ambiguo perché ormai è la magistratura di sorveglianza che gestisce queste situazioni. La Casa lavoro nel gergo carcerario viene chiamata «ergastolo bianco». Perché si sa quando si entra ma non quando si esce. La decisione finale è legata alla cessata pericolosità sociale decretata dal magistrato di sorveglianza sulla scorta dei rapporti di polizia e delle relazioni trattamentali. In Casa lavoro, contrariamente a quanto indica il nome, non si lavora affatto. Si sta chiusi e basta, peggio che in carcere. Teoricamente si dovrebbe lavorare per forza, perché il lavoro, si sa, «riabilita e redime». Ma nelle Case lavoro di oggi si schiatta e basta. A Sulmona ci sono 200 internati per 75 posti. Brande a castello in celle di appena 9 metri. E poi niente, senza nemmeno un fine pena da attendere. La permanenza può durare mesi oppure anni. Dipende da tanti fattori che l’internato non conosce. Se sei straniero, come Mahmoud Tawfic, e sei pure anziano, e magari la Casa lavoro ti è piombata addosso dopo che eri stato scarcerato e avevi riassaporato la libertà, rischi di finire in depressione. Come sembra si avvenuto a Tawfic, tornato in cella lo scorso dicembre dopo essere uscito dal carcere nell’agosto del 2010 al termine di una lunga pena. Pare avesse tentato di rifarsi una vita a Roma. Pochi mesi e le cose sono andate male. Decretato pericoloso socialmente si è ritrovato internato e così ha deciso di farla finita. Per fuggire l’inferno ha legato un lenzuolo alla grata e si è appeso. Erano quasi le 20 quando i suoi compagni hanno lanciato l’allarme. I tentativi di rianimarlo sono stati vani. La procura ha disposto per oggi l’esame autoptico per accertare la cause della morte. Nel corso del 2010 si sono uccisi tre internati: il 7 gennaio è stata la volta di Antonio Tammaro di 28 anni; il 3 aprile è toccato a Romano Iaria di 54 anni. Raffaele Panariello di 31 anni si è toto la vita il 24 agosto. Un quarto, Domenico Cardarelli, di 39 anni, si è spento per «cause naturali» l’8 aprile. In altre 14 situazioni vi sono stati dei tentativi di suicidio da parte di internati, sventati dall’intervento della polizia penitenziaria. Complessivamente nel 2011 sono già morte, per suicidio o infarto, 11 persone. In tutto il 2010 ci sono stati 66 suicidi, 1134 tentati suicidi, 5603 atti di autolesionismo. Il carcere della morte continua.

da Lierazione.it

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