sabato 8 gennaio 2011

La disoccupazione giovanile in Italia: una conseguenza del mancato raccordo tra scuola e mercato del lavoro

Anno nuovo, problemi vecchi. I recenti dati sul mercato del lavoro, resi noti dall’ufficio 
europeo di statistica, registrano per il nostro Paese un tasso di disoccupazione giovanile 
tra i più alti d’Europa. Secondo Eurostat ogni 100 giovani italiani ne contiamo ben 20 
che non hanno un lavoro. O almeno, considerando le rilevanti dimensioni della 
economia sommersa in Italia, non hanno un lavoro regolare e dichiarato. Peggio di noi 
stanno soltanto la Romania (21 per cento), la Polonia (20,5 per cento) e la Grecia, che si 
colloca al primo posto di questa poco invidiabile graduatoria, con un tasso di 
disoccupazione giovanile pari al 22,6 per cento. 
Si tratta di dati per nulla rassicuranti e che confermano una percezione alquanto diffusa 
di insicurezza e preoccupazione circa il futuro occupazionale dei nostri figli. 
Eppure, a ben vedere, i dati non sono poi così negativi come potrebbe sembrare ad una 
prima e sommaria valutazione. Certo, siamo davvero lontanissimi dai Paesi europei più 
virtuosi. Pensiamo in particolare all’Olanda  che, grazie soprattutto alla diffusione del 
lavoro a tempo parziale, registra un invidiabile 5,4 per cento. E pensiamo anche 
all’Irlanda, all’Austria e alla Germania che, in termini di disoccupazione giovanile, 
oscillano tra l’8 e il 10 per cento. È poi anche vero che siamo messi peggio di un Paese 
come la Francia, attestata su un modesto 18,4 per cento, e che pure ha recentemente 
registrato sul tema delle prospettive occupazionali dei giovani una stagione di vibrante 
protesta e aspra contestazione sociale sfociata in clamorose manifestazioni di piazza 
contro il Governo. 
Nel leggere i recenti dati di Eurostat non possiamo tuttavia non ricordare, prima di ogni 
altra considerazione, da dove partiva il  nostro Paese. La disoccupazione giovanile, 
attestata attorno al 24 per cento nel 1977, era poi cresciuta spaventosamente nel 
decennio successivo, giungendo a toccare  quota 35,5 per cento nel 1987. È questa 
drammatica situazione del mercato del lavoro (aggravata dalla bassa occupazione 
femminile e dei lavoratori  over 50) che ha spinto il legislatore italiano ad avviare un 
complesso processo di riforma che trova  le sue tappe fondamentali nel 1997, con il 
Pacchetto Treu, e nel 2003, con la Legge Biagi. Ebbene, nel 1997 la disoccupazione 
giovanile era attestata intorno al 33,6 per  cento per poi scendere di poco negli anni 
successivi, fino a giungere al 29,7 per cento nel 2003. 
Anche grazie a queste contestate riforme la disoccupazione giovanile è dunque calata in 
modo rilevante negli ultimi anni, recuperando ben 15 punti percentuali rispetto al 1987. 
Le recenti rilevazioni dell’Istat dello scorso dicembre testimoniano, in effetti, che nel 
2007 il numero degli occupati regolari è risultato pari a 23.417.000 unità, l’1,8 per cento 
in più rispetto a un anno prima. In un anno si sono cioè creati oltre 400 mila nuovi posti www.fmb.unimore.it 
Bollettino Adapt, 14 gennaio, n. 1  2
di lavoro, che diventano complessivamente  circa 3 milioni e mezzo se partiamo dal 
2001, anno di approvazione del primo segmento della riforma Biagi (quello cioè sui 
nuovi contratti a tempo determinato). 
Se poi ci vogliamo soffermare sul confronto con gli altri Paesi europei possiamo rilevare 
la vera anomalia del caso italiano, che tanto incide sulle prospettive occupazionali dei più 
giovani. I dati di Eurostat si riferiscono infatti a soggetti di età compresa tra i 15 e i 24 
anni. Ed è ampiamente noto che, a differenza di quanto avviene in molti altri Paesi, non 
solo europei, i nostri giovani entrano molto tardi nel mercato del lavoro, di regola non 
prima dei 25 anni. Qui l’Italia sconta il  problema del mancato raccordo tra scuola e 
mercato del lavoro. E soprattutto il mancato decollo di alcuni strumenti fondamentali 
contenuti nella Legge Biagi. La presenza di uffici di orientamento e collocamento nelle 
scuole e nelle università, in primo luogo. Ma anche l’apprendistato di primo livello, 
quello cioè rivolto a costruire percorsi formativi ed educativi in contesti e assetti 
lavorativi. Uno strumento ampiamente sperimentato nei Paesi più virtuosi e che bene si 
concilia con le logiche della nuova economia che hanno definitivamente rotto la barriera 
tra scuola e impresa. 
Molto è stato fatto nell’ultimo decennio  per sostenere l’occupazione giovanile. Il 
confronto con gli altri Paesi, invece di stimolare il diffuso sentimento di 
autocommiserazione di noi italiani, dovrebbe per contro indicarci che vi è ancora molto 
da fare e che risultati migliori sono oggi davvero a portata di mano. Basterebbe solo 
attuare concretamente riforme che sono già legge e che aspettano solo di essere messe 
alla prova.

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