Anno nuovo, problemi vecchi. I recenti dati sul mercato del lavoro, resi noti dall’ufficio
europeo di statistica, registrano per il nostro Paese un tasso di disoccupazione giovanile
tra i più alti d’Europa. Secondo Eurostat ogni 100 giovani italiani ne contiamo ben 20
che non hanno un lavoro. O almeno, considerando le rilevanti dimensioni della
economia sommersa in Italia, non hanno un lavoro regolare e dichiarato. Peggio di noi
stanno soltanto la Romania (21 per cento), la Polonia (20,5 per cento) e la Grecia, che si
colloca al primo posto di questa poco invidiabile graduatoria, con un tasso di
disoccupazione giovanile pari al 22,6 per cento.
Si tratta di dati per nulla rassicuranti e che confermano una percezione alquanto diffusa
di insicurezza e preoccupazione circa il futuro occupazionale dei nostri figli.
Eppure, a ben vedere, i dati non sono poi così negativi come potrebbe sembrare ad una
prima e sommaria valutazione. Certo, siamo davvero lontanissimi dai Paesi europei più
virtuosi. Pensiamo in particolare all’Olanda che, grazie soprattutto alla diffusione del
lavoro a tempo parziale, registra un invidiabile 5,4 per cento. E pensiamo anche
all’Irlanda, all’Austria e alla Germania che, in termini di disoccupazione giovanile,
oscillano tra l’8 e il 10 per cento. È poi anche vero che siamo messi peggio di un Paese
come la Francia, attestata su un modesto 18,4 per cento, e che pure ha recentemente
registrato sul tema delle prospettive occupazionali dei giovani una stagione di vibrante
protesta e aspra contestazione sociale sfociata in clamorose manifestazioni di piazza
contro il Governo.
Nel leggere i recenti dati di Eurostat non possiamo tuttavia non ricordare, prima di ogni
altra considerazione, da dove partiva il nostro Paese. La disoccupazione giovanile,
attestata attorno al 24 per cento nel 1977, era poi cresciuta spaventosamente nel
decennio successivo, giungendo a toccare quota 35,5 per cento nel 1987. È questa
drammatica situazione del mercato del lavoro (aggravata dalla bassa occupazione
femminile e dei lavoratori over 50) che ha spinto il legislatore italiano ad avviare un
complesso processo di riforma che trova le sue tappe fondamentali nel 1997, con il
Pacchetto Treu, e nel 2003, con la Legge Biagi. Ebbene, nel 1997 la disoccupazione
giovanile era attestata intorno al 33,6 per cento per poi scendere di poco negli anni
successivi, fino a giungere al 29,7 per cento nel 2003.
Anche grazie a queste contestate riforme la disoccupazione giovanile è dunque calata in
modo rilevante negli ultimi anni, recuperando ben 15 punti percentuali rispetto al 1987.
Le recenti rilevazioni dell’Istat dello scorso dicembre testimoniano, in effetti, che nel
2007 il numero degli occupati regolari è risultato pari a 23.417.000 unità, l’1,8 per cento
in più rispetto a un anno prima. In un anno si sono cioè creati oltre 400 mila nuovi posti www.fmb.unimore.it
Bollettino Adapt, 14 gennaio, n. 1 2
di lavoro, che diventano complessivamente circa 3 milioni e mezzo se partiamo dal
2001, anno di approvazione del primo segmento della riforma Biagi (quello cioè sui
nuovi contratti a tempo determinato).
Se poi ci vogliamo soffermare sul confronto con gli altri Paesi europei possiamo rilevare
la vera anomalia del caso italiano, che tanto incide sulle prospettive occupazionali dei più
giovani. I dati di Eurostat si riferiscono infatti a soggetti di età compresa tra i 15 e i 24
anni. Ed è ampiamente noto che, a differenza di quanto avviene in molti altri Paesi, non
solo europei, i nostri giovani entrano molto tardi nel mercato del lavoro, di regola non
prima dei 25 anni. Qui l’Italia sconta il problema del mancato raccordo tra scuola e
mercato del lavoro. E soprattutto il mancato decollo di alcuni strumenti fondamentali
contenuti nella Legge Biagi. La presenza di uffici di orientamento e collocamento nelle
scuole e nelle università, in primo luogo. Ma anche l’apprendistato di primo livello,
quello cioè rivolto a costruire percorsi formativi ed educativi in contesti e assetti
lavorativi. Uno strumento ampiamente sperimentato nei Paesi più virtuosi e che bene si
concilia con le logiche della nuova economia che hanno definitivamente rotto la barriera
tra scuola e impresa.
Molto è stato fatto nell’ultimo decennio per sostenere l’occupazione giovanile. Il
confronto con gli altri Paesi, invece di stimolare il diffuso sentimento di
autocommiserazione di noi italiani, dovrebbe per contro indicarci che vi è ancora molto
da fare e che risultati migliori sono oggi davvero a portata di mano. Basterebbe solo
attuare concretamente riforme che sono già legge e che aspettano solo di essere messe
alla prova.
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